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Nella notte sarà tentata una sommossa»

«Nella notte sarà tentata una sommossa»39

Le autorità borboniche erano preparate a un’insurrezione che già da qualche tempo ritenevano ormai prossima. Alla vigilia del giorno designato, il direttore Maniscalco, dopo aver ricevuto informazioni precise circa gli avvenimenti programmati per il giorno seguente, avviò una severa perquisizione nel convento della Gancia. Un frate, Michele di Sant’Antonio40 «colle vesti succinte per

affrettato cammino» si era presentato nell’ufficio del direttore e aveva rivelato ciò che sapeva: «Francesco Riso mastro-fontaniere è il capo; il convento della Gancia l’asilo»41.

Nonostante l’operazione non fosse stata annunciata e fosse stata condotta con minuzia ed attenzione, le indagini non ottennero nessun risultato non trovando all’interno della vasta area nulla di sospetto. All’interno del convento si erano rifugiati circa 60 rivoluzionari che però, durante le perquisizioni, coperti dai monaci, erano riusciti a nascondersi42. Non potendo comunque dubitare della

fonte che aveva dato la notizia, la polizia predispose intorno all’area una forte pattuglia perché ne sorvegliasse l’ingresso.

Il 3 aprile, il maggiore Polizzy, che era stato al comando dei corpi inviati sul luogo, telegrafò al principe di Castelcicala che «quantunque la città sia tranquillissima, pure si crede da taluno che nella notte sarà tentata una sommossa. Il generale ha date convenienti disposizioni: avvertirò del risultato»43. Nello stesso

giorno anche Maniscalco telegrafò all’alterego la stessa notizia: «si ha notizia che i faziosi tenteranno movimento all’alba: l’autorità civile e militare veglia per soffogarla»44. Il maggiore Bosco, da Monreale, intanto, aveva avvertito che

forti bande di armati con bandiere tricolori colonnavano quelle alture ed oltre a ciò nella sera di quel giorno medesimo tutti i monti che circondano Palermo si videro illuminati da fuochi di bivacco e si seppe che forti squadre di tutti i paesi d’intorno a Palermo si erano riunite in quel coronamento di montagne, per tenersi pronte a piombare nel domani su la città 45.

L’aspetto e il contegno della popolazione di Palermo, rafforzavano le notizie che annunciavano gli avvenimenti dell’indomani: in serata «quanto nelle pubbliche

39 ASN, FB, f. 1692, n. 20.

40 R. DE CESARE, La fine di un Regno, cit., p. 715.

41 Cfr. E. GUAZZO, Francesco Riso, Episodio della rivoluzione di Palermo nel 1860, Presso Francesco Sanvito, Milano 1862, pp. 16-17; G. RÜSTOW, La guerra italiana del 1860 descritta politicamente e

militarmente, Stabilimento Giuseppe Civelli, Milano 1862, p. 102.

42 ASN, FB, f. 1692, n. 21; Cfr. F. BRANCATO, La partecipazione del clero alla rivoluzione siciliana

del 1860 in AA. VV., La Sicilia verso l’unità d’Italia, Manfredi Editore, Palermo 1960; B. PELLEGRINO, Chiesa e rivoluzione unitaria nel Mezzogiorno. L’episcopato meridionale dall’assolutismo

borbonico allo stato borghese (1860-1861), Edizioni di storia e letteratura, Roma 1970; G. FELICIANI, Azione collettiva e organizzazioni nazionali dell’episcopato cattolico da Pio IX a Leone XIII in «Storia Contemporanea», 3, 1972.

43 ASN, FB, f. 1692, n. 20. 44 Ibidem.

piazze esisteva di pane paste ed altri commestibili tutto scomparve essendo tutti accorsi ad approvvigionarsi di viveri per quel giorno»46.

Francesco Riso intanto, aveva aggregato in una riunione preparatoria alcuni dei ribelli a cui rivolse parole forti a sostegno dell’azione del giorno successivo.

Amici, l’agognato momento della tenzone s’avvicina; coll’ajuto di Dio noi diverremo liberi dal vil servaggio che ci opprime e dalle sevizie di Maniscalco e di Salzano. Da lungo tempo il grido del dolore s’innalza tremendo, dappertutto il gemito degli oppressi ci lacera il cuore. E questi oppressi vogliam liberare47.

Le parole di Riso confermavano che la priorità assoluta che muoveva le azioni dei rivoluzionari non era l’adesione al progetto di costruzione di una nuova patria, idea neanche lontanamente evocata, ma la liberazione dal malgoverno borbonico, incarnato e perpetrato sull’isola dal personale di governo. A Palermo, in particolare, i nemici erano il direttore di polizia e il comandante la piazza. La condotta dei due «carnefici del Borbone»48 aveva, per Riso, ridotto i sudditi a

servi, privi di ogni forma di libertà e costretti a subire le oppressioni e le angherie di un potere riconosciuto da lungo tempo come estraneo.

Per il capo dei rivoluzionari, come in questa fase per larga parte dei siciliani militanti, era proprio la Sicilia la patria di cui riscattare l’indipendenza. La scarsezza delle risorse materiali nella lotta, sarebbe stata compensata dalla debolezza del nemico; i suoi armamenti, una volta sottratti, avrebbero aggiunto forza agli stessi ribelli. L’iniziativa avrebbe ottenuto il supporto dei rinforzi che sarebbero arrivati dalle campagne e il favore del popolo di Palermo al quale gli insorti dovevano trasmettere la giusta sicurezza e fiducia per evitare che dubbi e paure potessero trattenere le iniziative o scoraggiare i più indecisi.

Domani mattina, noi, divisi in drappelli, gireremo le strade incoraggiando il popolo, faremo fuoco sulle pattuglie, affrontando impavidi ogni pericolo. E se nell’eseguire un tale difficil compito nascerà in alcuno incertezza, timore o avvilimento, noi con risoluzione e coraggio trascineremo i peritosi, sgomenteremo i contrarj”49.

Dopo aver concordato gli ultimi dettagli, nella notte tra il 3 e 4 aprile, al suono della campana che già nel ’48 aveva dato il primo segnale, scoppiò l’insurrezione50. Il piano rivoluzionario prevedeva che, una volta dato l’avvio,

gruppi di rivoltosi avrebbero raggiunto la città e si sarebbero riuniti al resto degli insorti assalendo i quartieri occupati dalle truppe regie, oltre al Palazzo delle Finanze e al Palazzo Reale. Quindi si sarebbero nuovamente divisi in due parti: una sarebbe rimasta a custodia delle posizioni occupate e l’altra avrebbe protetto i moti delle province. Era forte la certezza che dopo Palermo sarebbero insorte Messina, Siracusa e Catania. Di contro, le autorità borboniche, che dovevano razionalizzare le forze per contrastare l’insurrezione ma allo stesso tempo non lasciare sguarnite le grandi città, in primis Palermo, non tardarono ad intervenire

46 Ibidem.

47 E. GUAZZO, op. cit., pp. 11-12. 48 Ibidem.

49 Ibidem.

50 Cfr. M. INGRASSIA, La rivolta della Gancia. Il racconto della insurrezione palermitana del 4 aprile

assediando il nucleo rivoluzionario barricato nel convento. Sul posto, a sostegno della pattuglia di polizia a presidio, accorse subito il tenente colonnello Perrone al comando del VI di linea a cui si affiancò l’arrivo di un battaglione di fanteria che, dopo aver atterrato le porte del convento con l’artiglieria, penetrò all’interno mentre i ribelli si difendevano al grido di Viva Vittorio Emanuele51. I soldati

sfondarono la porta del convento e si scontrarono con i rivoluzionari che intanto avevano già tagliato i fili del telegrafo. Dei 60 uomini che si erano trincerati all’interno, sei morirono e molti rimasero feriti. Il gruppo fu sgominato dopo un aspro combattimento.

L’azione rivoluzionaria intendeva connettere le rivolte nelle campagne all’azione delle squadre che progressivamente avrebbero stretto su Palermo; di contro, i borbonici predisposero l’uso delle colonne mobili in marcia sui paesi. La posizione delle truppe bloccò in tronco il piano originario. I ribelli non riuscirono a raggiungere la capitale e fecero base nelle campagne conservando la loro capacità di azione. Gli scontri con la truppa ottenevano la loro temporanea dispersione «ma quella gente raccogliticcia, sciolta in un punto si raggranella in un altro, e fa defatigare le reali milizie le quali sono trafelate»52. Man mano che la

lotta si prolungava, dai paesi vicini si univano numerosi uomini al nucleo degli insorti che si andava via via ingrossando. Gruppi armati si erano concentrati nel villaggio di Santa Maria del Gesù, al ponte delle teste e a Boccadifalco, più tardi a Porazzi53 dove i ribelli avevano tagliato le linee del telegrafo e si erano

impossessati dei mulini54. Il combattimento, che durò complessivamente circa 11

ore, si risolse in schiacciante vittoria sul campo dei borbonici. Le notizie giunte dalla capitale fermarono le stesse intenzioni rivoluzionarie a Messina e Catania ma il fermento invase molti centri in tutta l’isola tenendo impegnato l’esercito. Le insurrezioni successive ebbero come teatro diversi paesi limitrofi: Bagaria, Misilmeri, Carini, San Lorenzo e Capaci55.

Uno dei documenti più interessanti che descrive l’andamento degli eventi di quel giorno è la relazione scritta per Castelcicala dal comandante la piazza di Palermo; di lui fu, infatti, tutta la responsabilità dell’operazione visto che l’alterego, in quei giorni, si trovava a Napoli.

La ricostruzione di Salzano, prendeva il via dal racconto dei fatti partendo dal giorno precedente all’insurrezione, nel quale, concordemente con il direttore di polizia, si decise di predisporre un piano per le operazioni per l’indomani. È interessante il fatto che subito dopo la collocazione della truppa nei punti ritenuti strategici, la preoccupazione dell’autorità, che consentì in definitiva allo schieramento legittimista di vincere lo scontro, fu l’interruzione dei collegamenti tra la città e le bande delle campagne. Salzano e Maniscalco avevano compreso che la riuscita della rivolta coincideva con la sua eventuale diffusione nella capitale. La connessione tra l’insurrezione rurale e le spinte rivoluzionarie urbane avrebbe consentito l’ampliamento del moto a Palermo e quindi al resto dell’isola.

51 ASN, FB, f. 1692, n. 21.

52 Ibidem.

53 ASN, FB, f. 1692, n. 21-24. 54 ASN, FB, f. 1692, n. 21.

Su l’avviso venutomi dal direttore di polizia a’ 3 corrente che all’alba del domani una insurrezione sarebbe avvenuta in Palermo, fui sollecito predisporre ogni cosa per evitare una sorpresa e per provvedere energicamente, onde soffogare il movimento sedizioso. Nella notte del 3 e del 4 una colonna di un plotone di cacciatori a cavallo e di due compagnie di fanteria, sotto gli ordini del capo dello stato maggiore, signor Polizzy, mosse per la contrada dei colli ove dovea aver luogo un assembramento. E si diedero gli opportuni provvedimenti perché la truppa al battere della generale si recasse nelle posizioni assegnate pei casi di allarme. Importava che fossero state tronche le comunicazioni dei ribelli della città e quelli del contado, ed a tale uopo mi premurai col capo dello stato maggiore della mia divisione, capitano Salerno, osservare tutte le località e coordinare la situazione delle truppe e quella veduta, la qual cosa venne praticata con successo56.

Seguiva quindi il resoconto delle operazioni militari. All’alba, dopo il segnale, la pattuglia di polizia a presidio nella zona del convento ebbe un primo scontro con il gruppo degli insorti in seguito al quale le truppe si prepararono all’azione «piene di slancio e di entusiasmo»57. Salzano sottolineava come la rivolta si

limitasse esclusivamente a quei luoghi e non toccasse minimamente lo stato della città dove, al contrario, «eravi quiete e silenzio»58.

Trovati e sequestrati gli armamenti, «cannoni […] polveri, lance, talune granate a mano armate di spulette ed altri strumenti omicidi»59, la rivolta sedata si riattivò

in altri punti prolungandosi ad intermittenza fino alla sera.

Dopo due ore circa si videro degli armati presso il villaggio di Santa Maria di Gesù e poscia presso il ponte delle teste quindi nel villaggio Boccadifalco e da per tutto impegnatasi la truppa riusciva a disperdere quei malfattori. Verso le 9 a.m. gli insorti più non si vedevano. Sul tardi appariva una banda per piano dei Porrazzi e chiudendosi in taluni casamenti fu mestieri per isloggiarli adoperare l artiglieria. Cessava il fuoco verso l’imbrunire per Porrazzi ma ripigliava a Boccadifalco60.

Il bilancio della giornata, che ancora non poteva dirsi terminata, si chiudeva con un conto delle perdite dell’una e dell’altra parte. La lotta era costata qualche morto e diversi feriti ma aveva garantito la vittoria grazie alla superiorità militare e al morale dei soldati rimasto sempre saldo nelle operazioni61.

Ricevute queste notizie, il re non tardò ad esprimere le sue congratulazioni e i suoi apprezzamenti. Dei soldati che si erano resi protagonisti, chiese a Salzano i nomi e le specifiche condotte prevedendo l’elargizione di premi e ricompense: «di nuovo elogi alla truppa, dal primo all’ultimo. Attendo dettagli e proposta di ricompensa»62.

In serata Salzano, in accordo con Maniscalco decise di mettere la capitale in Stato di assedio. Palermo era tranquilla ma «ostentava quella tetra calma foriera di più micidiale tempesta»63. Il silenzio era manifestazione di un clima di

paura diffusa e che generava allarme anche negli stessi fautori dell’ordine.

56 ASN, FB, f. 1692, n. 21-24, Relazione del generale Salzano comandante la piazza e provincia di Palermo

al principe di Castelcicala. 57 Ibidem. 58 Ibidem. 59 Ibidem. 60 Ibidem. 61 Ibidem. 62 ASN, FB, f. 1692, n. 20.

«Palermo erasi tramutata in una vera tomba: le botteghe, le case e tutti i pubblici edifizi rimanevano chiusi. La popolazione non usciva per la tema di trovarsi al contatto dei sgherri napoletani»64. Per proporsi alla gente come unico riferimento

possibile per il ristabilimento della pace, il proclama con il quale si annunciò lo stato d’assedio conteneva una chiara denuncia di quanto era accaduto. In esso l’autorità, demonizzando l’avversario, ne prendeva le più grandi distanze:

Essendosi al far dell’alba di questo giorno osato da una mano di faziosi attaccare le reali truppe con armi da fuoco per provocare un’insurrezione in questa città, eccitando i sudditi ad armarsi contro l’autorità reale: il generale comandante delle armi della provincia e real piazza, in forza delle facoltà della reale ordinanza di piazza dispone quanto appresso: Art.1. La città di Palermo e suo distretto sono da questo momento in poi dichiarati in stato d’assedio65.

Il testo continuava esternando la strategia difensiva volta da un lato a non avere nessun tipo di mediazione con i ribelli e i sospetti e dall’altro nel comunicare alla popolazione la condotta necessaria a favorire il ripristino dell’ordine.

Art.2. I ribelli presi colle armi alla mano, non che tutti coloro che presteranno concorso alla insurrezione, saranno giudicati da un consiglio di guerra subitaneo, che da ora in poi resta in permanenza, e ciò a nome del Real decreto del 27 dicembre 1858. Art. 3. Tutti coloro che in atto detengono armi di qualunque natura, dovranno farne in 24 ore, dalla pubblicazione della presente, consegna a questo comando militare sito nella piazza Bologni, a malgrado che avessero ottenuto legale permesso dalla Polizia, quale permesso da oggi in poi resta cancellato.

I primi articoli erano tutti formulati intorno all’obiettivo di disarmare la città: era necessario riequilibrare il monopolio della violenza in favore dell’autorità governativa. L’attivazione del consiglio di guerra palesava da subito i termini con cui si sarebbe gestito il territorio da questo momento in avanti. Il possesso di armi diventava prova di colpevolezza anche quando autorizzato e si convertiva in un movente sufficiente a giustificare arresti e denunce. I civili avrebbero dovuto attenersi a ferree restrizioni e seguire precise istruzioni di comportamento per non incorrere in sanzioni e provvedimenti. Perfino l’accoglimento in casa di persone non appartenenti al nucleo familiare doveva essere comunicato ed eventualmente approvato dall’autorità.

Si vietava inoltre di suonare le campane, tradizionalmente designate a segnalare l’avvio di moti o di manifestazioni, «tanto di giorno quanto di notte»66. Era vietata

l’affissione di stampe in qualsiasi forma e con qualsiasi tipo di contenuto e si obbligava la chiusura immediata delle tipografie. A vigilare sull’esatta esecuzione di questi ordini, si “elevava” come garante il consiglio di guerra.

Il testo che proclamava lo stato d’assedio evidenziava da subito il tenore che il controllo e la repressione avrebbero assunto in città. La netta negazione della libertà di espressione, associazione, stampa aveva come complemento la presenza della forza militare e paramilitare che avrebbe garantito agli oppositori e ai contravventori di quelle indicazioni punizioni esemplari. La risposta del governo all’ennesima sfida sovversiva del territorio ricalcava il modello ormai consolidato:

64 L. E. T., L’insurrezione siciliana (aprile 1860) e la spedizione di Garibaldi, cit., p. 61. 65 Proclama in cui Salzano dichiara lo stato d’assedio, Palermo 4 aprile 1860, in ivi, p. 58. 66 Ibidem.

lo stato di emergenza consentiva alla forza legittima di non avere limiti nel controllare e intimidire la popolazione. Con lo stato d’assedio, inoltre, il tribunale militare della guarnigione venne dichiarato consiglio di guerra permanente fino al suo ritiro e Salzano aumentava il suo spazio di manovra assumendo automaticamente anche il potere civile sulla città e sul distretto.

Il giorno successivo allo scontro della Gancia, Salzano rivolse alla popolazione di Palermo un nuovo proclama il cui contenuto è molto significativo per comprendere la linea politico-ideologica che sostenne la campagna sui territori dell’autorità. Il generale, in primo luogo, esprimeva verso i sudditi palermitani ringraziamento e stima per non aver consentito a pochi faziosi «di immergere questa bella città nella desolazione e nel sangue»67.

A loro, i buoni e gli onesti, rivolgeva rassicurazioni: il governo, come un padre responsabile, si sarebbe preoccupato di premiare i meritevoli e punire severamente i ribelli grazie all’esercito reale che avrebbe garantito il mantenimento dell’ordine e la tutela dei beni. L’esortazione era dunque di tornare alle consuete occupazioni senza timore di ulteriori sviluppi rivoluzionari: «Abitanti di Palermo! Tornate alle vostre abituali occupazioni ed attendetevi dall’autorità protezione e guarentigia alle vostre persone ed alle vostre sostanze»68.

Le notizie del moto della Gancia furono conosciute largamente per il considerevole spazio che progressivamente le evoluzioni delle vicende siciliane ottennero sulla stampa e in alcuni settori dell’opinione pubblica italiana e internazionale. I fatti rivoluzionari erano stati diffusi nella penisola e nelle cancellerie estere anche attraverso i dispacci consolari dei tanti rappresentanti che si trovavano nel Regno. Alcuni di questi, di orientamento chiaramente liberale, dipingevano il moto come uno scontro quasi eroico che aveva opposto un esiguo numero di ribelli a una forza legittima molto più cospicua. In uno per esempio si riferiva che «al monastero della Gancia un piccolo numero si difese contro battaglioni interi, e soli sei furono i prigionieri, salvandosi gli altri»69. Altri,

sulla stessa onda, ponevano l’accento sulla diffusione e pervasività che la ribellione aveva avuto sul territorio regionale: «il nucleo principale della rivoluzione è Monreale, e sulla Bagaria sventolava la bandiera tricolore di Savoia. Grandi masse sono verso Castrogiovanni»70.

Di contro alla diffusione di queste notizie, il governo si mosse per utilizzare la stampa, e principalmente il Giornale Ufficiale delle due Sicilie, come veicolo per diffondere informazioni diverse che inclinassero i toni nell’esaltazione dell’autorità e nella contemporanea demolizione del nemico. Nello stesso giorno 4, infatti, lo stesso Giornale Ufficiale riportò la notizia in toni pacati e rassicuranti.

Dispacci telegrafici di Palermo ci annunziano essere stata cola momentaneamente turbata la pubblica quiete. Questa mattina alcuni fazioni hanno osato in quella citta attaccare la truppa e la forza pubblica uccidendo quattro soldati, e tre compagni d’armi. Ma non guari (?) dopo questo attentato le regie truppe si sono impadronite del convento

67 F. GUARDIONE, Il dominio dei Borboni in Sicilia, 1830-1861, in relazione alle vicende nazionali con

documenti inediti, Vol. II, Società Tipografico-editrice Nazionale, Torino 1907, p.186. 68 Ibidem.

69 ASN, FB, f. 1692, n. 16. 70 ASN, FB, f. 1692, n. 16.

della Gancia dove i sediziosi si erano chiusi. Nei dintorni della detta città sono comparse nel tempo stesso delle bande armate ma sono state immediatamente distrutte; sicché la tranquillità e l ordine sono stati interamente ristabiliti71.

Era Salzano in persona ad occuparsi del modo in cui la stampa avrebbe dovuto diffondere le notizie della rivoluzione. Fu sempre il Giornale Ufficiale delle due Sicilie, su sua ispirazione, a riportare così, qualche giorno più tardi, lo stato di cose:

La città, rimasta silenziosa a sì sconsigliata provocazione, vide nelle energiche misure adottate la più salda guarentigia dell'ordine, e se la presenza di gente raccogliticcia , la quale nella stessa mattina del 4 si mostrò in varii punti del contado, potè destare negli onesti e pacifici abitanti delle apprensioni, queste dileguaronsi a fronte della più decisa attitudine delle reali milizie, che respinsero ripetutamente quelle bande, le quali tentavano di penetrare nella città”72.

L’intenzione era chiaramente quella di minimizzare l’eco delle vicende ma soprattutto circoscriverla a una minoranza quasi irrilevante di una popolazione che complessivamente si distaccava e dissociava da quei fatti. La propaganda legittimista mirava a convincere la “zona grigia” della netta inferiorità ideologica e della esigua potenza dello schieramento rivoluzionario. Sminuire la forza del nemico, infatti, era funzionale ad esaltare la potenza del governo che aveva

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