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Francesco II79 divenne re il 22 maggio del 1859 a ventitré anni,

nel punto in cui ferve in Italia una delle più difficili crisi che abbia mai offerta la storia. Dotato di una gran dolcezza di carattere, di indole benevola, di somma franchezza e leale, amato dalle popolazioni in mezzo alle quali è cresciuto, unico rampollo del primo matrimonio… il giovane sovrano è chiamato al trono in età ancora tenera, non avvezzo alle tortuose sinuosità della politica, alle ambiguità della diplomazia, si riposa con fiducia su la vecchia esperienza dei suoi consiglieri e sulla lealtà dei generali. Ed è appunto questa scurità che si torcerà a fronte tra poco di una complicazione di intrighi da poter soverchiare anche il più astuto politico80.

Aveva vissuto la sua giovinezza all’ombra possente del padre, che amò della stessa misura con cui lo temeva, oscillante tra la mistica venerazione della madre e la malcelata gelosia della matrigna.

La conoscenza pratica degli uomini e delle cose gli fa interamente difetto, come che tenuto sempre lontano dalla società che egli appena conosce, per quelle poche feste e ricevimenti che hanno luogo a Corte e non avendo mai avuto intorno a se compagni della sua età. A chi lo vede appare triste, annoiato ed indifferente a tutto81.

Le descrizioni che su di lui fecero i contemporanei oscillarono tra chi lo vide come la reincarnazione della feroce politica del genitore e chi lo presentò come vittima innocente di circostanze drammatiche. Tutti ne confermavano però un temperamento mite, che poco ricordava il carisma di Ferdinando II, riconoscendogli uno spiccato e spesso limitante attaccamento alla fede e alla dottrina cristiana. La sua debolezza fu tale da non riuscire a suscitare nella famiglia lo stesso timore reverenziale che si sarebbe dovuto manifestare per quello che a tutti gli effetti era il nuovo re. L’ascesa al trono non modificò i modi informali con cui da sempre era stato trattato dai fratelli minori e dall’ex regina Mariateresa che non ne riconobbe mai l’autorità, tanto da avergli ordito contro, secondo molti, una congiura in favore del suo primogenito Luigi conte di Trani.

L’avvento al trono, per il rispetto rigoroso che la famiglia reale in primis, e poi tutto il Regno, ancora osservava nel lutto per la morte di Ferdinando II, non si tradusse subito in feste e tripudi. I primi festeggiamenti infatti cominciarono solo il 24 luglio e durarono poi fino al 2782.

79 N. NISCO, Francesco II Re, Morano, Napoli 1887; A. INSOGNA, op. cit.; R. M. DE VELAZQUEZ, Storia Del Giovane Re Francesco II Di Napoli, Osanna Edizioni, Venosa 2011; J. P. GARNIER, L' ultimo re di Napoli: con numerosi documenti inediti, Libreria Deperro, Napoli 1971; P. G. JAEGER, Francesco II di Borbone: l’ultimo re di Napoli, Mondadori, Milano 1982; A. GENTILE, a cura di, Da Gaeta ad Arco, Il Diario di Francesco II di Borbone 1862-1894, Arte Tipografica, Napoli 1988; G. CAMPOLIETI, Re Franceschiello, l’ultimo sovrano delle Due Sicilie, Mondadori, Milano 2005; Francesco II di Borbone: immagini, documenti, testimonianze, Electa, Napoli 1994.

80 ASN, FB, f. 1691, n. 160.

81 Lettera del conte di Gropello a Cavour, 18 gennaio del 1857 in S. IORIO, La spedizione dei Mille e la crisi

della formazione dell'unità d'Italia, Portosalvo, Napoli 1972, p. 45.

82 E. CANO, Per il fausto avvenimento al trono di Francesco II re del regno delle Due Sicilie, s. n. t.; Omaggio

Tutte le città del paese in quei giorni misero a punto un programma di festeggiamenti. A Campobasso, per esempio, l’evento

ricercò tutti i cuori, scosse tutti gli affetti, il colore dell’esultanza dipinse il volto delle sannite popolazioni; l’entusiasmo si assise ai limitari delle case dei poveri e degli agiati; e la divozione accese sulle labbra di tutti la benedizione al gran monarca degno figlio della venerabile Cristina di Savoia; le salve delle reali moschetterie e le armonie dei sacri bronzi e delle bande musicali salutaron festanti quell’annunzio felice83.

Il fatto fu interpretato come l’arrivo di una nuova o rinnovata prosperità. Alla tradizionale ritualità del passaggio di poteri da padre in figlio, che terminava con l’incoronazione, il duca di Calabria si presentava con una nota particolarmente sentita e importante, quella di essere il primo e unico di figlio di un personaggio tanto imponente nell’immaginario dei napoletani, Maria Cristina di Savoia “la santa”. Questo aspetto conferiva al nuovo re un’aura provvidenziale ancora più potente, marcando con forza il legame tra Dio e il sovrano.

A Napoli le celebrazioni furono accompagnate da sfarzosi addobbi e grandi illuminazioni su tutti gli edifici della città.

Come prima il sole ebbe raccolto dietro alla montagna i suoi raggi sereni, per vestirsi di nuova luce e risorgere il dì seguente più bello, i prospetti ed i vestiboli dei pubblici stabilimenti rifulsero di grande illuminazione, di fastosi drappi, e fregi allusivi con le sacre immagini del re e della regina84.

Gli ornamenti non erano riservati solo ai palazzi governativi o a quelli in cui risiedeva l’aristocrazia. Lo spirito festoso permeava i centri abitati nella loro totalità: «nei privati edifizi sino ai tuguri, numerosi del pari e lietissime sorrisero le fiaccole della festa ed apparve in un tratto la città così riccamente irradiata che la notte pareva rivaleggiasse col giorno»85.

I festeggiamenti erano scanditi da spettacoli e musiche che attiravano nelle piazze una grande quantità di pubblico. Le decorazioni, orchestrate dall’intendente della provincia, apposte sui palazzi e per le strade, richiamavano a simboli allusivi, come il giglio, ed avevano come costante un’illuminazione sfarzosa. La piazza principale

risplendeva tempestata di miriadi di lumi ce al fiato di scherzevole auretta si agitavano a gara, spandendo un mare di luce. L’architettonico ordinamento di quei lumi e il geniale intreccio delle loro fiammelle, raggianti di svariati colori, riproducevano un effetto ammirabile e grandioso. Figuravano essi nello insieme un tempio maestoso con arcate e colonne brillantissime di gotico stile86.

Lo sfarzo era ricercato nell’ostentazione della ricchezza che si esprimeva nei preziosi materiali utilizzati nelle decorazioni

figuravano altresì un magnifico padiglione di porpora fiammeggiante, diremmo quasi, orlato e trapunto di topazi e di rubini formanti bei gruppi di gigli, di allori e di serti

primo del suo regno, Tip. di Giuseppe Marsilii, Teramo 1860. 83 ASN, FB, f. 1691, n. 241, il corsivo è mio.

84 ASN, FB, f. 1691, n. 241. 85 Ibidem.

luminosi, i cui lembi dall’uno e dall’altro lato ricadevano dietro due ben ornati trofei di armi e di altre spoglie campali87.

L’alloro e i gigli primeggiavano come i simboli più rappresentati, evocando chiaramente idee di trionfo, prosperità, regalità. Completava il repertorio la corona «scintillante di gioie peregrine, con in fronte la sfolgorante epigrafe VIVA FRANCESCO II»88.

Un tale spettacolo attivava negli spettatori entusiasmi ed emozione. La folla accorreva per guardare e partecipare alla festa esternando tale gioia al motto di «Viva il re, viva l’augusta Signora sua consorte»89. Ma le manifestazioni di

giubilo per l’avvento al trono del nuovo re, non si limitavano soltanto ad ornamenti e parate. L’abbellimento dei centri cittadini si accompagnava a tutta un’altra e vasta serie di operazioni propagandistiche che sfruttavano linguaggio e occasioni particolarmente idonei a veicolare il messaggio di consacrazione. Uno dei luoghi per eccellenza in cui era possibile orchestrare riti a questo scopo erano i teatri. In quello di Campobasso, la sera del 26 luglio ebbe luogo la messa in scena di un inno, creato ad hoc per l’occasione dall’avvocato Alessandro Jonata, in cui la declamazione fu accompagnata dalle immancabili orchestre e bande militari. L’ode, teneva insieme in modo efficace ed emblematico una grande quantità di elementi. La fede, la tradizione, l’eredità si fondevano con il presente e collegavano gli eventi a un nuovo e prospero futuro. Francesco aveva in sé una doppia discendenza e un doppio corpo divino, che gli derivano dalla singolare combinazione genitoriale di cui era l’unico erede. Per un verso egli era il primo figlio di Ferdinando, il re-padre che aveva governato per un lunghissimo tempo preservando il Regno nella sua integrità da pericoli e deviazioni rivoluzionarie; da Lui ereditò il corpo divino del re che morendo, tramandò a lui i suoi poteri. Per l’altro verso però Francesco era anche l’unico figlio di Maria Cristina, una figura possente e ingombrante nell’immaginario popolare, alla quale, subito dopo la sua morte, vennero attribuiti caratteri di santità. L’ex duca di Calabria dunque era protetto da Dio come voleva la tradizione ma contava dalla sua parte anche l’intercessione di una madre a metà tra la terra e il cielo che proprio qualche giorno prima, il 9 luglio, fu dichiarata “venerabile” con un decreto solenne della Santa Sede che la introdusse al percorso per la beatificazione90.

La prima cerimonia ufficiale della nuova coppia reale fu la visita alla cappella di San Gennaro la mattina del 24. Come era consuetudine, prima di ogni altra cosa era necessario rendere grazie a Dio e al Santo Patrono: Francesco II e Maria Sofia si recarono in forma pubblica con tutta la famiglia reale al seguito per l’omaggio in cattedrale tra i tripudi della gente.

La messa fu celebrata dall’arcivescovo di Napoli. Dopo il Te Deum la corte si spostò nella cappella del tesoro. Il re e la regina baciarono le reliquie e il sangue del santo si liquefece nonostante la testa di San Gennaro fosse esposta sull’altare91. Questo fatto fu visto come un prodigio miracoloso perché per

compiersi la liquefazione era necessario che le due reliquie non fossero opposte

87 Ibidem. 88 Ibidem. 89 Ibidem.

90 A. INSOGNA, op. cit., p. 34.

l’una all’altra92. Il 25 luglio si tenne il baciamano mentre il 26 ci fu la

rappresentazione di Gala al teatro san Carlo.

Francesco II, anche attraverso l’adesione ai rituali e agli usi consolidati, confermava una linea del tutto coerente con quella ereditata proponendosi come nuovo soggetto politico nella relazione tra la corona, la legittimazione divina e quella sui territori. La scelta di perpetrare la politica del padre, che del resto si era dimostrata in più di un aspetto vincente, fu esplicita sin dai primissimi atti. Da Caserta, il 22 maggio, il nuovo re aveva già emanato il suo primo proclama proprio in questa direzione:

Per lo infausto avvenimento della morte dello Augusto e dilettissimo nostro genitore Ferdiando Secondo, ci chiama il SOMMO IDDIO ad occupare il Trono de’ nostri Augusti Antenati. Adorando profondamente gl’imprescrutabili Suoi Giudizii, confidiamo con fermezza, ed imploriamo che per Sua Misericordia voglia degnarsi di accordarci ajuto speciale ed assistenza costante, onde compiere i nuovi doveri che ora c’impone, tanto più gravi e difficili, in quanto che succediamo ad un Grande e Pio monarca, le cui eroiche virtù ed i i pregi sublimi non saranno mai celebrati abbastanza93.

L’insediamento era proposto in fluida successione con il passato: l’eredità paterna era il bagaglio indimenticabile da cui riprendere e continuare nell’amministrazione del Regno. Costante e immancabile era ancora il riferimento alla provvidenza divina alla quale il nuovo re si appellava affinché concedesse tempi prosperi e pacifici.

Con chiarezza, il proclama confermava l’intento della continuità, tradendo le speranze di chi aveva riposto nell’erede al trono la possibilità di un rinnovamento profondo del Regno napoletano. A scontare la delusione furono in primo luoghi gli esuli che già durante la malattia di Ferdinando II, in alcuni casi, tentarono di sondare e magari direzionare le intenzioni del prossimo re.

Il 20 aprile 1859, “Il Movimento” di Genova, pubblicò una lettera che il principe ereditario aveva ricevuto da un emigrato napoletano a Torino, Gennaro Lambiase, duca di San Donato, il precedente 16 aprile. In un linguaggio tipico della propaganda liberale, metteva in rilievo la possibilità per Francesco II di inaugurare un nuovo corso che si lasciasse alle spalle il passato e orientasse le scelte di governo su orizzonti più moderni e condivisi.

principe, vi sono nella vita dei popoli come in quella delle dinastie, momenti solenni, occasioni propizie, che ove si afferrino rendono gli uomini avventurosi e circondano di immensa fame le altre. La fortuna, gli uomini, gli avvenimenti, o principe, vi porgono il destro di questo momento solenne per l’Italia, per la civiltà. Deh! Non lasciategli sfuggire nello interesse della vostra casa e pel bene di nove milioni e più di uomini i quali altamente reclamano di essere innanzitutto italiani e di voler propugnare dal canto loro la causa della indipendenza. V. A. .R. è chiamato a regnare e trova in vigore sistemi funesti al paese, all’Italia e sui quali la storia e non io ha già riportato il suo giudizio94.

Lo stato delle cose presenti, era chiaro e descritto in modo molto critico e preciso.

92 A. INSOGNA, op. cit., p. 32.

93 Collezione delle leggi e de’ decreti reali del regno delle Due Sicilie, Anno 1859, Semestre I, Stamperia Reale, Napoli 1859, p. 244.

Voi trovate vacillante il trono, deserta di ogni vero affetto la Reggia, avvilite ed oppresse le popolazioni, immorale e corruttrice l’amministrazione, servile e ignorante la magistratura, negletta la istruzione pubblica, nullo il commercio, infame la polizia, rotte le relazioni diplomatiche con i due governi più civili d’Europa. Ogni cosa, insomma, avviata nel Regno sempre più a dividere profondamente il re dal popolo e diretta a rovesciare in un istante opportuno il trono95.

Di contro a questo stato di cose prospettava, però, un’alternativa, l’unica possibile, che era l’alleanza con il Piemonte. Si profilava nella lettera una comparazione tra le due case regnanti basata sul consenso e sul rapporto tra il governo e il popolo, intaccato gravemente, nel caso delle Due Sicilie dalle scelte di governo di Ferdinando II.

Da un lato o principe, V. A. R. vede l’augusto Vittorio Emanuele benedetto dai suoi popoli, acclamato da tutte le genti italiane, seguire fedelmente una politica nazionale e calcare con somma lealtà le vie dell’onore e del progresso fra gli applausi e l’ammirazione di tutte le nazioni del mondo. Or tra questi due sistemi, fra il passato governo delle Due Sicilie ed il presente di Vittorio Emanuele, la scelta vostra non può essere incerta e dubbiosa se ponete mente, come è necessario, il cancellare tristi memorie, asciugare tante pubbliche e private lagrime, ristorare tanti danni e ringiovanire l’antica pianta della vostra Real Casa96.

Tutt’altro che in controtendenza con la tradizione, l’accostamento al Piemonte si sarebbe invece inserito in perfetta continuità con la linea tracciata dal capostipite della dinastia.

Carlo III, il primo dei Borboni che regnò sulle Due Sicilie, non solo fece il bene dei popoli e li guidò verso un grandioso incivilimento, ma seppe rendere gloriose le nostre armi e benedetto il suo nome agli italiani battendo l’Austria a Bitonto e scacciandola dal Regno nella famosa battaglia di Velletri nel 1744. Principe! A che non continuare le nobili tradizioni di Carlo III sia negli ordinamenti civili sia nella politica esterna?97.

Inoltre, l’alleanza tra i due re, avrebbe sugellato un rapporto politico già esistente in realtà nel legame familiare: «or potrebbe convenire a voi che pur sentite scorrere nelle vene il sangue glorioso di casa Savoja, di non congiungere la vostra spada a quella del primo soldato delle guerre della indipendenza, del re cavaliere?»98.

L’idea che il Regno potesse partecipare da protagonista al rinnovamento della penisola non era solo di chi conservava con Napoli un sentimento di appartenenza spezzato dall’intransigenza politica. La possibilità che la scomparsa di Ferdinando avesse portato con sé anche la sua avversità verso le tendenze liberali e che un rinnovamento fosse possibile nel nuovo volto del potere interessò anche le potenze Europee, complice il fatto che la guerra in corso aveva inevitabilmente gettato i riflettori della politica internazionale sulle Due Sicilie.

Nel maggio del 1859, ufficialmente per presentare le condoglianze e fare gli auguri al re, numerosi ministri e ambasciatori affollarono Napoli per spingere il nuovo sovrano a prendere decisioni in un senso o in un altro. Il governo di

95 Ibidem. 96 Ibidem. 97 Ibidem. 98 Ibidem.

Vienna inviò il barone Hübner, un diplomatico molto autorevole, perché evitasse l’attuazione di eventuali manovre antiaustriache. Al contempo Lord Malmesbury incaricò Henry Elliot di riallacciare le relazioni diplomatiche congelate. L’arrivo del delegato inglese, fu annunciato dalla regina nel discorso di apertura del Parlamento: «avendomi il re delle due Sicilie annunziata la morte del re suo padre ed il suo innalzamento al trono, giudicai conveniente di concerto con l’imperatore dei francesi, di rinnovare le mie relazioni diplomatiche con la corte di Napoli interrotte durante il regno precedente»99. Elliot arrivò in città il 4 giugno e fu

nominato ministro con sede stabile nella capitale. L’Inghilterra, come l’Austria, auspicava a una neutralità combinata all’adozione di un regime costituzionale o quantomeno liberale che avesse potuto spegnere sul nascere nuovi focolai rivoluzionari.

Il diplomatico piemontese, conte di Groppello Salmour, che già era in contatto con il conte di Siracusa, zio di Francesco II, era stato invece incaricato da Cavour di negoziare un’alleanza contro l’Austria al fianco di Francia e Piemonte e di sollecitare un’amnistia e riforme politiche per il ripristino della costituzione del 1848 che sarebbe dovuta tornare in vigore alla fine della guerra. Per sostenere l’operazione politica il nuovo sovrano, dopo un’amnistia generale, avrebbe dovuto cercare una conciliazione tra il partito reazionario legato alla dinastia borbonica e i settori liberali, chiamando quindi al governo personalità capaci di esprimere questo compromesso.

Salmour inoltre doveva convincere Francesco II che l’alleanza con il Piemonte non avrebbe compromesso l’integrità territoriale del Regno e che la stessa avrebbe blindato il regno da eventuali deviazioni filo murattiane.

Brenier, l’inviato francese, giunse a Napoli solo il 21 giugno, tre giorni prima della battaglia di Solferino, in ritardo rispetto agli altri rappresentanti.

Filangieri, che nei primi giorni di giugno era stato nominato primo ministro, riteneva che per la sopravvivenza della indipendenza del Regno e della dinastia fosse indispensabile un cambiamento radicale della politica estera. Oltre al ristabilimento delle relazioni diplomatiche con l’Inghilterra, riteneva cruciale l’alleanza con la Francia per la grande fiducia che poneva in Napoleone III per la personale lettura politica degli eventi. A suo parere la Francia aveva pieno interesse nella durata della sopravvivenza del Regno. Tale scelta però avrebbe significato naturalmente voltare le spalle all' Austria e emanare sul fronte interno uno statuto di stampo Napoleonico.

Ma quando Salmour arrivò a Napoli, pochi giorni dopo la battaglia di Magenta, lo stesso, in accordo con i rivoluzionari napoletani, fece circolare in città una carta a stampa dal contenuto politico ideologico molto spiccato. In essa il Piemonte era proposto come il vero regista del rinnovamento panitaliano e si demonizzava di converso il governo di Napoli tacciandolo addiritura di tirannide.

Il pensiero e il desiderio del Risorgimento di Italia non sono più né un assurdo né una colpa. Le guerre del 1848, l’eroismo di cento città, le protestazioni dei vinti, l’affanno degli esuli, il sangue dei martiri versato dalla scure del carnefice e dal fucile del croato, levarono un grido nell’Europa: sorse l’opinione sull’Italia ed ecco lo stigma della riprovazione sulla fronte dell’austriaco ladrone. Bisognava solo che le aspirazioni legittime d’Italia si riconoscessero nei consigli diplomatici d’Europa e il Piemonte entrato animoso nell’aringo distruggeva il sospetto che l’italianità fosse un desiderio di poeti, una

voglia di anarchici, uno strumento di ambiziosi. Onde esse, elevata al grado di quistione europea era impossibile si fermasse o retrocedesse, pur il sorriso beffardo degli scettici ha insultato finora alla fede dei credenti; ma quando, vindici dei codardi oltraggi, uniti in generoso pensiero, sventolano sulle rive del Po’ i vessilli tricolori d’Italia e di Francia, il dubbio è vile stoltezza, codardia l’inerzia, ogni dissensione un delitto. L’idea che la libertà e un trono o un agguato là dove impera despota l’austriaco è coscienza dei nove milioni

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