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DALL'OTTOCENTO AL NOVECENTO ITALIANO

1.4 NOVECENTO ITALIANO 1919-

[...] la ricerca stessa li conduce per mano verso una mèta unitaria che si delinea gradualmente più chiara e definita: limpidità nella forma e compostezza nella concezione, nulla di alambiccato e nulla di eccentrico, esclusione sempre maggiore del casuale e dell'arbitrario e dell'oscuro Non è da disperare, con questi principii, che si arrivi infine all'espressivo, al leggiadro e, insomma, allo spontaneo; e persino all'umano. [...]

Non è arrivata a quel punto dove lo sforzo scompare: dove il mestiere, tanto è sicuro, pare che non esista. La pittura, per questi pittori nostri di avanguardia, non è ancora un mezzo, ma un fine terribilmente presente.112

La direzione di Margherita Sarfatti sulla critica d’arte è pressoché definita già nel 1919, data in cui si colloca l'avvio della sua attività secondo uno schema organico e un progetto di “milizia” artistica che confluirà nel gruppo di Novecento.

Parallelamente alla riscoperta e promozione di una parte dell'Ottocento italiano, strumentale anche alla definizione di una linea lombarda dell'arte moderna, si fa strada in lei la convinzione che la critica militante si debba confrontare con la contemporaneità, come dai primi anni dieci faceva sulle pagine dei giornali, anche mettendosi in gioco in prima persona. Secondo i principi di arte come sintesi, di ordine gerarchico degli elementi, di classicismo e idealismo, ella individua ben presto alcuni autori della nuova generazione nei quali ritrova, sebbene ancora in nuce,queste caratteristiche.

La svolta avviene nel 1919, fin dall'articolo del 28 gennaio dedicato a Le

esposizioni Tomescu e Martini a Milano, pubblicato in “Il Popolo d’Italia”, dove

Margherita, in poche righe, afferma il suo credo: «L’arte è unità, coordinazione e

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gerarchia: sacrificio dell’inferiore al superiore, rinuncia di quanto è meno importante a pro di quanto lo è maggiormente. Questa è la grande disciplina soprattutto dell’arte mediterranea, nell’essenza della sua tradizione classica, dalle sfingi di Egitto ai quadri di Paul Cézanne e alle cere di Medardo Rosso. ‘Arte’ diceva Michelangelo ‘è saper fare quel tanto che basta’.»113

.

Il concetto di essenzialità, così come quello di precisione del segno, fondamentali nel pensiero sarfattiano, sono fatti risalire direttamente a Michelangelo e ripresi anche per le arti decorative (vedi capitolo 1.5)114.

Per Margherita il lungo percorso dell’arte “dal moderno all’eterno” coinvolge in prima istanza la concezione del tempo, come scrive anche Massimo Bontempelli nell’editoriale del primo numero della rivista ‘900: «Il compito più urgente del secolo ventesimo sarà la ricostruzione del tempo e dello spazio». 115 Una nozione del tempo in cui tutte le età sono contemporanee, o meglio un tempo in cui si svolge il perfetto equilibrio tra modernità e tradizione eterna. La nuova arte aspira a superare la frammentarietà della poetica impressionista e anche il movimento della vita contemporanea, che le avanguardie avevano cercato di rappresentare116. La svolta era cominciata con Paul Cézanne, che dal fare impressionista aveva spostato la sua attenzione verso il problema della resa della realtà, “solidificandola” com’è stato detto. Nel pensiero sarfattiano il maestro di Aix- en- Provence è il vero trait-d’union tra il diciannovesimo secolo e le poetiche che emergono verso la fine degli anni dieci. Questo «francese del Sud, di sangue semi- italiano» conduce attraverso il «clima eterno dell’arte, fuor di ogni contingenza e superficialità.[…] questo fu il tormento e la tragedia di Paul Cézanne. Giungere al

113 Le esposizioni Tomescu e Martini a Milano, “II Popolo d’Italia”, 28 gennaio 1919, Sar

4.1.8.

114 Si veda ad esempio Le arti a Milano, “Il Popolo d’Italia”, 1 maggio 1925, Sar 4.1.10, dove, parlando della mostra di Parigi del 1925 e di Brasini (vedi capitolo 1.5), Sarfatti scrive: «Ma Armando Brasini, il costruttore del padiglione, di giorno in giorno più apre l’orecchio e lo spirito all’austero ammonimento di Michelangelo: “Arte è, saper fare quello che basta”. Partì anche lui dal ricco; muove ora al semplice.».

115 M. Bontempelli, Justification, “900”, Parigi 1926.

116 Si veda Storia della pittura moderna, cit., p. 24, dove Margherita afferma che l'impressionismo «negava lo stabile e il definitivo, questa massima aspirazione dell’arte ideale e classica».

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fermo, al composto, all’ordinato e al definitivo “metafisico”»117

. Su questa linea, ogni tela è un passo avanti verso la grande arte, «è ancora un’altra vittoria dello spirito sulla materia, il raggiungimento di una bellezza più profonda e più scarnita insieme, più atipica, più elevata.» 118. Il soggetto dell’arte non è più la mutevolezza del divenire, più volte definito anche da Bontempelli materia grezza, bisognosa di un trattamento antibiotico, ma il mondo delle idee119.

E ancora Sarfatti, in Storia della pittura moderna, descrive la linea come «sublime sforzo del nostro idealismo per purificare nella sua essenza la innumerevole casualità della forma.»120 mentre in Segni, colori, luci: « [la linea] controlla e purifica, elimina e riassume, le testimonianze fallaci e spesso ingannevoli dei sensi. […] Giusto per questo, si può dire che la linea sia lo sforzo supremo dell’uomo per assumere a sua volta la parte del creatore. Non è imitazione materiale, ma equivalenza simbolica. Più intransigente ancora. Ancora più platonico e mistico, Emile Bernard afferma che l’artista deve compiere uno sforzo anche maggiore verso l’idea pura e l’astrazione, elevandosi dal tipico all’atipico, dal carattere alla bellezza.»121.

Così nel 1935, nella monografia ranzoniana: «Se la linea non esiste in natura, l’uomo la crea con la visione […] la linea è, si può dire, lo sforzo sublime dell’uomo per ricreare il vero, non attraverso la imitazione e la approssimazione

117 Storia della pittura moderna, cit., p. 28.

118 Idem p. 31. Si veda anche il brano alle pagine finali del volume, pp. 146-147. Questi concetti sono costanti nel pensiero di Sarfatti; si veda ad esempio Alcune considerazioni

intorno alla prima Mostra del Novecento italiano, "Il Popolo d'Italia", 12 febbraio 1926

(vedi capitolo 2.4). Sulla figura di Cézanne e la sua fortuna negli anni dieci e venti esiste una vasta letteratura critica; qui basta ricordare che proprio nel 1920 la Biennale di Venezia gli dedica una sala personale.

119 Si veda F. Fabbri, I due novecento, cit.

120 Storia della pittura moderna, cit., pp. 12-13. Parole simili sono anche nell'articolo

pubblicato in “La Lettura”, Milano, XXXI, n.4, 1 aprile 1931, pp. 302-303, intitolato La

pittura del Novecento italiano, dove Sarfatti parla delle idee maestre e anche della linea:

«La pittura italiana d'oggi nuovamente aspira a rendere la corposità plastica e tondeggiante dei volumi; a far cantare la sinfonia del colore, grazie all'impasto dei toni; a definire la forma, attraverso la sublime astrazione della linea. Tutte queste cose sono creazioni dell'immaginazione, poiché la linea non esiste in natura (e difatti gli impressionisti l'avevano abolita).».

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materiale, ma attraverso trascendenti equivalenze, dal relativo al definitivo.» e più avanti, a chiusura del volume: «Sono questi i caratteri tipici della grande pittura italiana […] quella misteriosa trascendenza dal casuale e dall’arbitrario, che trasmuta l’attimo, staccato dal tempo, in bellezza immutabile.»122

All’idea di essenzialità, di precisione, di purificazione del reale, si collega il principio di sintesi, onnipresente nel pensiero sarfattiano. Sempre nell’articolo del gennaio 1919 si legge un accenno più vitruviano: «Quelle leggi di equilibrio e di proporzione; quei segreti della composizione stilistica per cui la genialità individuale fiorisce e si innesta sopra un ritmo musicale e geometrico di profonda e spontanea fatalità; questo segreto del grande stile che in diverse forme pur conobbero tutte le grandi epoche, si tratta di ritrovarlo […]». Sono riferimenti espliciti ai temi del classicismo, di grande attualità in Europa a queste date e su cui Margherita era sicuramente aggiornata.

Giova ricordare che i riferimenti alle leggi di equilibrio e proporzione, su un ritmo matematico, sono già presenti nel pensiero italiano dei primissimi anni del '900, come per esempio in Ardengo Soffici. L'artista e critico fiorentino già nel 1903 scrive di un susseguirsi di epoche, secondo un concetto di ciclicità comune anche al pensiero sarfattiano, e di un’età classica che sta arrivando: «Come vediamo nella storia dei popoli il dispotismo succedere all'anarchia così vediamo nella storia dell'arte un periodo di raccoglimento e calma laboriosa seguire una giornata di aspre lotte e di ricerche ansiose». Soffici cita Dante e Leonardo, due autori cui Sarfatti dedica molti scritti e sopratutto acclamatissime conferenze, e prosegue: «e Leonardo anche quando riuniva nei suoi dipinti tutti gli elementi di bellezza con una legge larga e immutabile, con un Ordine quasi matematico...[...] Gli ultimi tempi sono stati scossi da grandi rivoluzioni, e molte cose che erano in onore sono state abbattute e l'Anarchia ha tenuto tutto. Ora è l'ordine che si attende, e i materiali di tante rovine devono pure servire alla ricostruzione di qualche cosa di grande che rimpiazzi i vecchi templi rovinati.[...] Del resto non c'è nulla che sia

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più presso dell'arte che la Matematica, mio dolce amico. L'originalità come la s'intende oggi non serve a nulla (e di questo vi parlerò un'altra volta) se costituisca il solo merito dell'opera d'arte. I tempi e le cose sono mutati e tendono a mutare ancora di più. Un desiderio grande di ordine, di precisione e di chiarezza accende tutte le anime, e un'epoca è ai nostri piedi come un bronzo fuso che attenda d'esser gettato nella forma per una statua colossale. C'incamminiamo verso il classicismo.»123

Si è già fatto riferimento all’importanza di Soffici come intellettuale in confronto continuo con Sarfatti. In aggiunta, il riferimento all'ordine matematico che emerge dal testo del fiorentino offre l'occasione per meglio intendere il rapporto che Sarfatti intrattiene non solo con le poetiche europee del rappel à l'ordre ma anche con quelle più vicine alla “geometrizzazione” della realtà.

Nel 1919 l'idea di classico è ormai diffusa in Italia e Francia e Margherita ha già chiarito il suo pensiero e il suo vocabolario, utilizzando molto raramente la parola ordine e ancora meno quella di ritorno. Per lei la classicità moderna non è applicazione rigida di figure archetipiche o geometriche. Malgrado i riferimenti comuni all’idealismo platonico e alla lezione di Cézanne, il classicismo sarfattiano è diverso da quello “matematico” che si diffonde in alcuni ambienti artistici europei. Si rileggano per esempio le pagine di un artista, amico intimo di Gino Severini, come André Lhote: «Per precisare li carattere della vera tradizione, vediamo quali sono le leggi immortali che pur attraverso le variazioni di scuole apparentemente contrapposte, non hanno mai smesso di esistere. Per questo dobbiamo definire il senso dell'ordine universale cui accennavamo prima [...] L'ordine si esprime nelle leggi; in campo plastico le leggi si esprimono nella geometria. Essa è il linguaggio superiore, la pura espressione della materia animata dallo spirito. [...]»

Pur citando Vitruvio, Sarfatti parla raramente di simmetria, che per lei non è

123 A. Soffici, Lettera a Callistene Agonista (Giovanni Papini), Parigi, 20 febbraio 1903, ora nel Carteggio I, 1903-08 Dal “Leonardo” a “La Voce”, riportato in E. Pontiggia, Il ritorno

all'ordine, Abscondita, Milano 2005. Sono temi che Soffici riprenderà anche in Periplo dell'arte: richiamo all’ordine, Vallecchi, Firenze 1928.

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essenziale per raggiungere la Bellezza; quello che conta nella costruzione dell’opera è piuttosto la gerarchia, la subordinazione armoniosa delle parti. Anche il recupero del pensiero platonico si mantiene in Margherita sempre distante dal riferimento più marcatamente pitagorico, comune invece alle ricerche che da Severini e i cubisti e dai puristi francesi fino a Carrà circolava negli ambienti artistici europei. Pur citando i dialoghi tardi di Platone, quelli in cui si accenna alla corrispondenza tra idee e numeri e in cui si riscontrano maggiori tangenze con il pensiero di Pitagora, Margherita non abbraccia mai l’idea di un numero o regola d’oro da riprodurre in arte. Anche quando cita Leon Battista Alberti, riprende riflessioni legate all’arte come espressione di bellezza, non alle leggi immortali della creazione, e lo stesso dicasi per il pensiero di Leonardo124.

Il punto di vista sarfattiano è chiaro anche a confronto con le teorie del purismo, già espresse da Amedée Ozenfant e Charles-Édouard Jeanneret, il futuro Le Corbusier, nel 1918 in Après le cubisme: «Il Numero, che è la base di ogni bellezza, ha trovato la sua espressione [...] Le leggi dimostrate sono costruzioni umane che coincidono con l'ordine della natura e si possono rappresentare coi numeri.» Margherita, sempre aggiornata sulle correnti europee, e soprattutto sul pensiero francese, accoglie il portato innovativo delle teorie e delle pratiche di Le Corbusier e del suo maestro Auguste Perret, ma ne denuncia allo stesso tempo il rischio di arte fredda, eccessivamente razionale, nordica, in opposizione a quella da lei preferita, che è classica, mediterranea, permeata di vivo umanesimo (vedi capitolo 1.5).

Da queste considerazioni si chiarisce anche il tiepido entusiasmo che ella riserva all'opera di Severini e sopratutto al suo testo teorico, Du cubisme au classicisme.

124 Secondo la filosofia pitagorica, tutto in natura è numero e lo stesso principio divino ha utilizzato un rapporto numerico per creare l’universo, conferendogli un carattere peculiare di armonia ed equilibrio. Individuare le formule costitutive della realtà, i rapporti che legano le cose, il numero che soggiace ad ogni cosa visibile, significa ripercorrere il gesto divino nel momento della creazione. Non a caso Luca Pacioli chiama questo rapporto

proportione divina, Leonardo “sezione aurea”, Keplero “sectio divina”. È il numero d'oro,

una cifra segreta di Dio, una costante che deve essere individuata e ripresa dall’artista. Su Leonardo giova ricordare che il Trattato era stato tradotto in francese nel 1909 e circolava nell'ambiente artistico parigino.

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Esthètique du compas et du nombre, pubblicato a Parigi nel 1921125. Già nel 1916, in una data molto precoce, se si eccettuano i paralleli ritorni al classico di Picasso e Derain, l’artista anticipa i temi del Du Cubisme realizzando un’opera come

Maternità che, persa ogni nota autobiografica e dinamica, si concentra sull’idea

archetipica, senza tempo, senza connotazioni, senza movimento, senza “intrusioni” del dato reale; come direbbe Sarfatti, una rappresentazione eterna. La posa classica riprende quella delle Madonne del Trecento e del Quattrocento, della Mater Matuta che anche Margherita apprezza; tuttavia alla tradizione visiva italiana, Severini aggiunge gli studi che sta compiendo su Platone, Pitagora e i neoplatonici, e da questi trae la rigorosa costruzione della donna con bambino,che risulta inscritta in una figura geometrica “pura” come il triangolo126

.

Pur condividendo l’amore per il mondo classico, e per il genio di Leonardo, le cui massime fanno da introduzione ad alcuni capitoli del testo severiniano, e pur riconoscendo al pittore cortonese un’alta qualità nella resa della “classicità moderna”, la Sarfatti trova il Du Cubisme troppo dogmatico. I motivi sono da ricercare in quell’umanesimo “mediterraneo” cui lei fa sempre riferimento nei propri scritti e di cui si fa promotrice per tutta la sua carriera di critica.

A proposito di umanesimo, da contrapporre al geometrismo e all’astrazione, già negli scritti della primavera 1920 Margherita chiarisce il suo pensiero: «La vita, ahimè, e l’uomo! Ecco quello che è più difficile rinserrare nella geometria della forma e della formula astratta. […] Questo rinnovato classicismo, che esce ora dai

125 Su Severini si veda Gino Severini. 1883-1966, catalogo della mostra a cura di G. Belli, D. Fonti, Parigi, Musée de l’Orangerie, 27 aprile- 25 luglio 2011, poi Rovereto, Mart, 17 settembre 2011- 8 gennaio 2012, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2011, per il quale si rimanda anche come fonte bibliografica più recente sull’artista. Ulteriori sollecitazioni arrivano all’artista dall’opera coeva di Paul Sérusier che nel 1921 pubblica ABC de la

peinture («[...] Questo linguaggio universale si fonda sulla matematica, scienza dei numeri

e in particolare dei numeri primi. La sua applicazione all'arte plastica nello spazio è la geometria [...]» riportato in E. Pontiggia, Il ritorno all'ordine, cit., p. 72.) e dalle riflessioni di George Seurat e Maurice Denis, che nel 1912 aveva pubblicato Teorie. Dal Simbolismo e

da Gauguin verso un nuovo ordine classico.

126 Pontiggia, nel suo testo a corredo dell’edizione italiana del Du cubisme, (Dal cubismo al

classicismo, Abscondita, Milano 2001) cita, tra gli altri, Ciò che è utile nella matematica per l'intendimento di Platone di Teone di Smirne, opera di età adrianea tradotta in francese

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limbi, per divenire classicità vera bisogna che superi l’ambito dell’oggetto, della cosa, e ridivenga umano. Così fu classico l’umanesimo, ché la misura classica per eccellenza rimane l’uomo.»127

Si tratta degli articoli a commento della mostra da lei curata presso la galleria Arte, con opere di Martini, Sironi, Carrà, Funi e Russolo, tra gli altri. Sono anni fondamentali per la nascita di Novecento e per l’ascesa di Margherita Sarfatti: l'esposizione segue la pubblicazione del manifesto

Contro tutti i ritorni in pittura e non a caso, in Storia della pittura moderna,Sarfatti anticiperà la nascita del movimento proprio al 1920128.

Così si esprime, in termini simili, nel 1930: «Questa eresia di logica estrema, paradossale e puritana; questo eccesso di ragione pura sino all’irragionevole, è di sua natura nordico, cioè fanatico e vorrei dire protestante. Risponde al materialismo cerebrale e al raziocinio astratto della geometria e della matematica applicate ai fenomeni dello spirito, che è complesso, delicato, duttile.»129

Se il pensiero sarfattiano rifugge dall’astrazione e dalla matematizzazione del reale, così come dall'applicazione di rigide leggi o di regole auree, non è alieno però dal recupero del platonismo che circolava in Europa a quelle date, anzi ne è impregnato. La dottrina del filosofo greco era stata ripresa in Francia già in ambito cubista e nel 1916 Amédée Ozenfant aveva pubblicato in “L'Élan” la traduzione del Filebo, testo che gli aveva fatto conoscere Léonce Rosenberg, celebre gallerista de L'Effort Moderne ma anche studioso di filosofia130. Proprio il

Filebo è al centro del terzo articolo che Sarfatti dedica alla Grande Esposizione

Nazionale Futurista, tenuta presso la Galleria Centrale d'Arte di Milano nella primavera 1919. A commento della mostra, Margherita esce con un corpus

127 Considerazioni sulla pittura a proposito dell’Esposizione «Arte», “Il Convegno”, Milano, marzo 1920.

Sul giudizio al Du Cubisme si veda anche Teorie, “II Popolo d’Italia”, 8 settembre 1922. 128 Sull’esposizione si veda, oltre al già citato articolo pubblicato in“Il Convegno”, anche La

nuova galleria Arte, 3 aprile 1920, “Il Popolo d’Italia”. La mostra si tiene nelle sale

sotterranee di via Dante 10, chiamate dal critico Vincenzo Bucci “Galleria degli Ipogei”, spazio espositivo sovvenzionato dall'industriale Amleto Selvatico e diretto dallo scrittore Mario Buggelli.

129 Storia della pittura moderna, cit., p. 137

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significativo di tre articoli, che costituiscono la sua più importante e articolata dichiarazione di poetica, almeno fino alla Biennale del 1924131.

I testi sanciscono anche la sua definitiva presa di posizione nel panorama della critica d’arte italiana, nell’anno di nascita dei Fasci di combattimento, e preparano il terreno alla formulazione di Novecento; anche per questi motivi, l’esposizione futurista del 1919 è stata interpretata dagli storici come il simbolico tramonto di Marinetti e la nascita di Sarfatti132.

Nel terzo articolo della serie, parlando della pittura di Sironi, Funi e Dudreville, Margherita scrive: «“Io parlo della bellezza delle figure, non così come la intende la maggioranza delle persone, e cioè in quanto figure di animali o altre pitture che riproducono la vita. Ma, secondo [ciò che] suggerisce la ragione, intendo alludere a un qualche cosa di diritto e di curvo, e le figure formate da queste linee per mezzo del tornio, sì in superficie che di tutto tondo, e quelle formate per mezzo del piombino e della squadra, se tu ben mi intendi. Per ciò che queste, io dico, non son belle per un fine particolare, come altre cose sono; ma per loro natura sempre sono esse stesse belle e possiedono una certa qualità di diletto che è loro propria, e i colori che possiedono questo carattere sono belli e danno anche essi un diletto

131 Pubblicata in tre parti in “Il Popolo d’Italia”, la recensione riguarda la Grande Esposizione Nazionale Futurista in corso presso la Galleria Centrale d'Arte di Milano. Gli articoli sono programmatici non solo per estensione ma anche nei titoli, e sembrano quasi lo sviluppo di un testo teorico diviso in capitoli: L’Esposizione futurista a Milano. Di alcuni principi

generali (4 aprile); L’Esposizione futurista a Milano. Di alcuni pittori (10 aprile); L'Esposizione futurista a Milano. Terzo ed ultimo articolo (13 aprile). Sarfatti riprende i

medesimi temi, citando L'Effort nouveau e Rosenberg insieme a Platone, anche in Storia

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