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L’architettura e le altre arti 1934-1936 Un testamento di romanità

2.4 Storia della pittura moderna

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2.1 Critica d'arte e politica: Margherita Sarfatti e Novecento

italiano 1926-1932

Ho definito nel 1926 inaugurando a Milano una manifestazione artistica che anche la politica era ed è un’arte, la sovrana e la più difficile delle arti perché si applica alla più difficile delle materie: l’uomo. 219

Benito Mussolini

L'arco di tempo che va dal 1926 al 1932 è uno dei più complessi per l'evoluzione dell'ambiente politico e artistico italiano e per le vicende di Margherita Sarfatti, come critica e promotrice di cultura a livello nazionale. E' anche uno dei periodi più problematici da interpretare e definire per gli storici dell'arte, tuttavia il passaggio che avviene in questi anni è fondamentale per capire l'intero ventennio. Le cesure non sono definite né definitive, come sottolineava già Ragghianti nella sua celebre e intensa introduzione alla mostra del 1967: «Ma si doveva riconoscere, ormai nel 1931, che “non tutto era ancora inquadrato”».220

Questa riflessione si applica sia al potere di controllo del governo, le cui maglie si stringono gradualmente e la cui visione si irrigidisce nel tempo, sia alla produzione artistica, che vede svilupparsi alcuni temi già appartenenti ai primi anni venti, come la misura monumentale, la poetica della pittura murale, la domanda di “cosa e quale sia l'arte fascista”, le occasioni e le commissioni ufficiali, insieme ad altre voci, quali ad esempio il dibattito anti-novecentista e il recupero dell'impressionismo, che non permettono un'interpretazione “monolitica” del passaggio di decennio.

219 B. Mussolini, riportato in R. De Felice, Mussolini il duce, Einaudi, Torino 1974, p. 23. 220 C. L. Ragghianti (a cura di), Arte Moderna in Italia 1915-1935, estratto dal catalogo della

mostra, Firenze, Palazzo Strozzi, 26 febbraio- 28 maggio 1967, Marchi e Bertolli editori, Firenze 1967, pagine non numerate.

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Lungi dall'essere l'apice del successo di Sarfatti e del movimento Novecento italiano, questi anni sono in realtà da considerarsi uno spartiacque cruciale nelle vicende critiche e personali della ninfa Egeria del Fascismo e del gruppo da lei sostenuto. Il suo ruolo quale interprete culturale della nazione vive una rapida decadenza; tuttavia la sua figura, sopratutto a livello internazionale, sembra mantenere un ampio rilievo, almeno fino alla metà degli anni trenta.

Dalla prima mostra di Novecento italiano fino al 1932, s’intensificano gli attacchi pubblici rivolti al lei e alla sua attività, fino all'esclusione, palese ed altamente simbolica, dalle celebrazioni per il Decennale. In questo periodo, significativamente, Sarfatti sente la necessità di fissare il suo pensiero in un testo che ne presenti in modo coerente la poetica e nel 1930 esce Storia della pittura

moderna, summa in cui confluiscono le riflessioni elaborate nel decennio

precedente e guida per la battaglia sull'arte moderna che caratterizza gli anni successivi.

Se dal 1932 in poi la perdita di potere di Margherita in Italia è ormai evidente, tuttavia la sua figura resta importante per il governo quale ghostwriter del Duce e suo tramite negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone, come testimonia anche il viaggio in America del 1934. A livello di politica culturale, Sarfatti conduce la sua battaglia per l'arte attraverso l'intensa attività di conferenziera, legata, nei primi anni trenta, alle mostre di Novecento italiano all'estero e, in seguito, alla sua fama personale di intellettuale e figura illustre dell'Italia fascista. Sono questi gli anni in cui la critica sembra vivere davvero secondo un doppio binario: messa ormai al bando in patria, esclusa dagli incarichi ufficiali e dalle commissioni pubbliche, alla vigilia del ritiro delle sue opere dal mercato editoriale nazionale (cosa che avviene nel 1938), ella continua a intervenire in importanti convegni in Italia e all'estero e a promuovere la propria visione dell’arte moderna.

L'ideale fascista dell'”uomo nuovo” mira ormai a comprendere e irreggimentare gli aspetti più ampi della vita del paese e nella vicenda sarfattiana il mutamento di prospettiva del governo ha effetti inaspettatamente negativi. Ha inizio in questi anni la decadenza di Novecento italiano e gli incerti preparativi per la seconda

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mostra, che ha poi luogo nel 1929, sono il segno forse più eclatante della crisi in cui versa il progetto culturale del gruppo.

Alla luce di queste considerazioni il periodo d'oro di Margherita si può dire concluso intorno al 1927, malgrado nello stesso anno le vengano assegnati incarichi importanti: entra nel consiglio artistico della Biennale di Arte Decorative di Monza, con Ponti, Sironi e Carrà, e nel comitato direttivo della Biennale. Proprio per l'ente veneziano viaggia in Germania al fine di organizzare la mostra di artisti nordici da ospitare a Venezia221. Sempre al 1927 risale uno degli avvenimenti più significativi per comprendere il mutamento di prospettiva in corso in quegli anni: Sarfatti si trasferisce a Roma, con la figlia. Questa decisione può essere interpretata in modo duplice: da un lato Margherita cerca un avvicinamento a Mussolini e alla sede ufficiale del Fascismo, che stava diventando sempre più forte e determinante in ogni aspetto della vita culturale nazionale. D'altra parte le prime consultazioni per la seconda mostra di Novecento italiano riguardano proprio una sede romana. Quest'ipotesi viene bocciata dal Duce in persona, come conferma anche la corrispondenza conservata presso l'archivio roveretano222.

221 Si ricorda che già nel 1926, alla XV Biennale, il Novecento italiano non ottiene una sala in cui presentarsi unito, malgrado la volontà di Sarfatti. Molti artisti del gruppo sono esposti in sala 6 ma l’assenza di Sironi avvicina questa presentazione più ad una rassegna della scuola milanese che di Novecento. Per l’edizione successiva, nel 1927, il presidente della Biennale e Podestà di Venezia, Pietro Orsi, incarica Sarfatti di fare un viaggio in Olanda e Germania alla ricerca della migliore arte d’avanguardia. Si veda S. Salvagnini, L’avanguardia arriva

dal Nord, “Arte”, Milano, ottobre 1991 e S. Salvagnini, Margherita Sarfatti, critico irreducibile. Dalla Biennale del 1928 alle mostre in Scandinavia del 1931-32, Quaderni

della donazione Eugenio Da Venezia, Fondazione Querini Stampalia, Venezia 1998. 222 Si veda la corrispondenza di Alberto Salietti a Sarfatti (31 agosto 1927, lettera manoscritta,

su carta intestata “II mostra del 'Novecento italiano'”, Sar, 1.1.2.23 ) in cui il segretario scrive che gli inviti sono pronti, anche se quelli veri e propri attendono una conferma del Duce. Salietti chiede a Margherita di chiarire gli equivoci riferiti da Tosi, che a sua volta riporta informazioni scritte dalla Sarfatti a Sironi: «Il Duce avrebbe detto, secondo detta lettera, che se la mostra si farà nel '27 manderà S. E. Bodrero, se invece nel '28 spera di poter venire lui di persona. Lei, nella sua di stamane mi conferma appunto questo.». Il segretario aggiunge che ovviamente l'opzione del 1927 è ormai impossibile; si tratta di decidere se farla nel febbraio 1928 senza il Duce o nel 1929 con la sua presenza, ipotesi da preferire anche secondo Tosi e Sironi. Salietti chiede quindi alla Sarfatti di sciogliere questo dubbio, considerando anche il tempo necessario alla preparazione delle opere scelte e la sovrapposizione con le altre manifestazioni, come la Biennale di Venezia. Su questo tema si

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Il sentimento che emerge in questi anni dalle lettere di Alberto Salietti è di crescente ansia; Sarfatti è lontana, a Roma, e le notizie che arrivano a Milano sono talvolta ambigue e discordanti. Anche il tono della corrispondenza di Mussolini con il segretario è lontano dalle note di pieno supporto di appena un anno prima. Il capo del governo sottolinea il suo distacco dalle iniziative del gruppo e non garantisce più il suo coinvolgimento diretto.

Nell’introduzione al catalogo della seconda mostra, il ritardo di organizzazione viene attribuito alla frenetica attività espositiva estera, con un cenno agli inviti internazionali ricevuti da Berlino, Parigi, Ginevra, Zurigo, Amsterdam. Se è vero che le esposizioni all'estero impegnano il movimento per larga parte del periodo 1926-1932, è d'altra parte innegabile che le vicende nazionali diventino sempre più problematiche e il clima intorno al gruppo sempre più ambiguo, se non ostile. In senso più ampio, il trasferimento di Margherita Sarfatti assume il valore simbolico di uno spostamento dell'asse culturale e politico da Milano a Roma, aspetto che emerge con evidenza dopo il 1926. Il capoluogo lombardo, così tenacemente difeso e sostenuto da Margherita nei primi anni venti, diventa quasi materia del passato, del primo Fascismo, ormai soppiantato dal Fascismo- regime, concentrato sempre più sulla rinascita della città eterna quale capitale dell'impero. Roma è anche la città della Chiesa, e giova ricordare che durante il periodo del concordato sembra che Sarfatti stessa si sia convertita al cattolicesimo, secondo la Wieland proprio nel 1928, seguita dai figli Fiammetta nel 1930 e Amedeo nel 1931. Senza entrare nel merito della sua conversione, sulla quale a tutt'oggi non esistono documenti né sono emersi nuovi elementi dall'archivio roveretano, è possibile che il mutamento dei rapporti tra Fascismo e Chiesa romana possa aver

veda anche la lettera di Benito Mussolini ad Alberto Salietti (18 settembre 1926) conservata nell'Archivio Salietti di Chiavari, riportata in R. Bossaglia, Il Novecento italiano: storia,

documenti, iconografia, cit., p. 99, dove il Duce scrive che due esposizioni consecutive di

Novecento italiano non gli sembrano consigliabili, e opta per una mostra nella primavera del 1929 che «deve avere, a mio avviso, la sua naturale sede a Roma.» In una lettera successiva (17 maggio 1928), sempre riportata in R. Bossaglia, Il Novecento italiano:

storia, documenti, iconografia, cit., p. 104, il Duce parla di febbraio 1929 e chiude «Non

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coinvolto anche Margherita; del resto il suo legame con l'ebraismo, come si accennava, era rimasto sempre molto ambiguo e la donna non aveva mai abbracciato il pensiero sionista, di cui era stato invece fervido promotore il marito Cesare.

L'allontanamento di Sarfatti da Milano è anche interpretabile come la fine del suo ruolo di promotrice della cultura lombarda e dell'attività della città, cosa che corrisponde al suo parallelo e graduale allontanamento dalle vicende di Novecento italiano. Non che sconfessi il gruppo e con esso la sua idea di rinnovamento culturale del Paese, ma piuttosto si assiste ad un cambio di strategia. A queste date ella utilizza sempre più spesso la parola ”romanità” al posto di “classicità”, suggerendo di voler consolidare il proprio ruolo nella capitale culturale e politica dell'impero. In risposta alle titubanze di Mussolini, che non vuole o non può riconoscere in un solo movimento artistico l'interprete del Fascismo, Sarfatti capisce che la sua azione deve essere prima di tutto vicina, anche fisicamente, al potere. Inoltre, intuisce precocemente che la difesa del movimento da lei promosso può ricevere più forza se condotta in parallelo dall'esterno, da una piattaforma internazionale, e il gruppo di Novecento riceve la sua legittimazione, a cavallo del decennio, proprio attraverso le mostre estere.

Se il progetto di esportazione della cultura nazionale, attuato attraverso le esposizioni, le conferenze e le attività di divulgazione condotte da Margherita per tutto il decennio, si rivelerà vincente, non altrettanto si può dire del suo trasferimento romano. A Milano lei aveva esercitato un ruolo centrale nella vita culturale degli anni venti, ma a Roma non può più avvalersi di un simile potere. La capitale le rimane parzialmente preclusa e, mentre il movimento novecentista viene sempre più coinvolto nelle vicende internazionali, anche la situazione milanese sfugge gradualmente al suo controllo.

Se ancora nel 1927 è sua l'introduzione alla mostra “Quindici artisti del Novecento italiano” presso la galleria Scopinich, nel 1928 per iniziativa di Salietti nasce il gruppo “Sette pittori moderni” con Bernasconi, Carrà, Funi, Marussig, Sironi e Tosi; nel 1929 esce dal gruppo Bernasconi ed entra Wildt, e gli artisti

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espongono alla galleria Milano, con presentazione di Somarè e Nicodemi223. La galleria Milano assume in breve tempo il ruolo di riferimento per l'intero gruppo e questo aspetto, unitamente all'assenza di Margherita, non solo fisica ma anche decisionale e di sostegno morale, conduce in breve tempo ad un mutamento degli equilibri interni alla compagine224.

Anche sul fronte internazionale, territorio su cui si concentra maggiormente la sua attenzione e la sua capacità di azione, la presenza è discontinua; in alcuni casi il suo coinvolgimento è più stretto, in altri delega quasi tutto a Salietti, all'architetto Alberto Sartoris o alla stessa galleria Milano.

Malgrado la presenza altalenante, il progetto estero è tuttavia fortemente sentito e rientra nella strategia culturale da lei elaborata a partire dal 1927. Questa prevede un vero e proprio “lancio” internazionale della produzione artistica italiana, in parallelo alla personale e rinnovata battaglia in difesa dell’arte moderna, condotta sempre più spesso fuori dai confini italiani.

Inoltre, Sarfatti non elabora solo una nuova strategia di politica culturale ma anche un diverso approccio alla critica d'arte. Abbandonato l'aspetto militante e cronachistico, talvolta disorganico e a tratti confuso, ancora presente in Segni,

colori, luci del 1925, sullo scorcio del decennio porta a compimento la Storia della pittura moderna, che sarà pubblicata nel 1930. Il livello della discussione

critica si fa più complesso, e non si tratta solo di promuovere un gruppo di artisti o selezionare le nuove tendenze ma di presentare, in modo coerente e organico, una propria personale genealogia della modernità e una visione originale dell’orizzonte contemporaneo (vedi capitolo 2.4). Per condurre questa battaglia di livello più alto, Margherita può avvalersi dei lunghi periodi trascorsi a studiare ed approfondire la storia dell'arte e dei numerosi interventi sulla produzione contemporanea redatti fin dagli anni dieci. Il suo pensiero si fa più articolato, la trattazione più serrata e sicura, mentre giungono a compimento le riflessioni

223 Nel 1931 i “Sei pittori moderni”, senza Wildt, espongono anche alla galleria Codebò di Torino, presentati da Emilio Zanzi.

224 Sul ruolo della galleria Milano a cavallo del decennio, l’autore desidera ringraziare Nicoletta Colombo per le preziose indicazioni ricevute.

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elaborate in modo talvolta frammentario e discontinuo nei decenni precedenti. L'impianto critico di Sarfatti è a queste date ormai definito e le permette di affrontare con coerenza una personale interpretazione della storia dell'arte dall'Ottocento ad oggi (vedi capitolo 2.3). Non che ella abbandoni l'attività critica sulle nuove tendenze che via via si affacciano sul panorama europeo; anzi, la sua battaglia affonda le radici nella storia dell'arte proprio per giungere a parlare con più organicità e autorità della produzione contemporanea.

È necessario fare un'ulteriore riflessione sul pensiero sarfattiano in quegli anni cruciali, malgrado le molte interpretazioni che della sua attività sono state fatte fino ad oggi. Sarfatti è “animale politico” nell'Italia fascista e interpreta il suo potere quale strumento per imporre una propria linea culturale; ciononostante, la battaglia si gioca sempre dentro i territori della critica, a disprezzo di ogni tentativo della politica di influenzare direttamente l'ambito culturale. Quest’aspetto emerge con particolare evidenza al volgere del decennio, quando la prospettiva del regime muta ed esso cerca una maglia sempre più regolamentata dove inserire le arti. Molte sono le voci che si avvicinano per certi versi al pensiero sarfattiano, tra cui quelle autorevoli di Soffici e Bottai, pur tuttavia è innegabile che la figura della donna diventi difficilmente collocabile nella complessa organizzazione dello Stato fascista. È questa una delle cause più profonde della decadenza di Sarfatti, al di là del suo allontanamento da Mussolini che, come emerge anche dall'archivio del Mart, non è definitivo fino a metà degli anni trenta.

Il pensiero di Margherita sui rapporti tra arte e politica non muta dagli anni venti in poi, anzi, lei stessa detta la prima linea dell'approccio fascista alla cultura, come già evidenziato nel discorso di Mussolini del 1926. È il Fascismo che invece cambia prospettiva e, pur senza abbracciare nessuna poetica in modo esclusivo, sancisce il deciso coinvolgimento del potere nell'ambito artistico. Gli storici hanno evidenziato quanto, negli anni venti, Mussolini e il Fascismo non abbiano tempo ed energie per occuparsi in modo capillare della vita culturale della nazione, mentre l’azione diretta dello Stato, secondo i due livelli, dell’alta cultura

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e della propaganda, emerga solo verso la fine del decennio.

Del resto finché è in auge Sarfatti non si danno scelte come il Premio Cremona o il quadro storico alla Biennale del 1930, episodi singoli in un panorama composito ma che molto ci dicono del mutato orizzonte ideologico nell'Italia degli anni trenta. Anche la sua evidente difesa della gloria nazionale non deve essere intesa quale sciovinistica superiorità; com’è sempre attenta alle manifestazioni del genio umano da qualunque paese provengano, aspetto sottolineato in Storia della pittura

moderna, Margherita è altresì vigile rispetto ai gretti provincialismi che

avvelenano la cultura italiana o a qualsiasi chiusura verso l'esterno.

A proposito di questi temi, nell'archivio del Mart è conservato il manoscritto dell’articolo Nuova e vecchia Italia artistica del 1927, in cui Sarfatti critica con violenza la proposta di nominare il pittore Ettore Tito a capo del Sindacato delle Arti Plastiche a Venezia. Si tratta di un testo significativo per comprendere la battaglia di Margherita in difesa dell’autonomia del dato artistico, al di là di ogni interesse personale o politico 225. L'incipit ricorda i toni di critica militante tipici della sua prosa nei primi anni venti: «Una strana notizia ci giunge da Venezia: si sussurra circa la nomina di un triumvirato provvisorio, a capo del Sindacato delle Arti Plastiche, il quale triumvirato comprenderebbe insieme con i nomi del pittore Brass e dello scultore Martinuzzi, anche il nome del pittore Ettore Tito. A chi conosce i valori veri dell’arte italiana, e la battaglia fervida che in questo momento si combatte da ogni parte, contro i vecchi non-valori, in favore della rinnovazione della vita spirituale della nazione nel campo dell’arte, questa notizia, per quanto ipotetica, riuscirà dolorosa e incomprensibile, quasi sbalorditiva, un colpo e incomprensibile. Ne rimarrà sbalordito come da un fulmine. Tanto per dare ai profani e agli estranei un’idea di che cosa ciò rappresenterebbe nella battaglia per l’arte nuova: è come se a capo dei fasci della Basilicata fosse stato posto nel triumvirato, sia pure provvisorio, Francesco Saverio Nitti. Ettore Tito è precisamente il Nitti o l’Orlando dell’arte: l’esponente della [illeggibile] facilità,

225 Sar 3.3.41 (vedi Appendice).

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la maledetta faciloneria, la bravura e il bluff; questo napoletano degli artisti italiani.»

Sarfatti prosegue, affermando ancora una volta la necessità della battaglia per l'arte moderna, di cui è interprete Novecento italiano: «Oggi- anno V- ci si batte in Italia per l’arte d’Italia. Un’arte che non escluda nulla, che accolga tutto, che sia sensibile a tutto, capace di assimilare tutto, secondo la vera grande tradizione italiana, che sempre fu sana, che mai fu morbosa, e perciò capace di accogl/ mai temette i contatti con il di fuori.e perciò mai tenette morbosamente i contatti estranei; serena e forte, fiduciosa di se stessa, certa di potersi servire delle indicazioni, delle espressioni, e dei suggerimenti altrui secondo il genio proprio senza snaturarsi, anzi arricchendosi ed evolvendosi nel senso del proprio genio. Questo ha inteso sicuramente di affermare il Capo, quando si onorò onorando l’arte, e. quando inaugurò di persona a Milano, con un discorso che rimarrà memorabile, la prima Mostra del Novecento italiano, analizzandone con acuto intuito le aspirazioni e i valori nuovi, uno per uno ed in sintesi; questo intese quando più recentemente ancora mandò una lettera di adesione al simpatico piccolo gruppo dei Salvatici fiorentini, e delegò S. E. Bottai a incoraggiarlo. Queste sono le diverse, multiformi e in fondo unanimi manifestazioni dell’Italia nuova, nei capi dello spirito, e sopratutto nel campo, che è suo per eccellenza, delle arti plastiche. Ma qui si parla di rinnovazione fascista come di fenomeno grande maestoso profondo. Non si parla della piccola politica contingente e personale dei fasci locali, che può essere, ed è talvolta, in verità, assai diversa cosa. Tali interferenze possono anche essere- e non di rado sono, come il Capo stesso le definì anche in altra materia nella memorabile stupenda circolare ai prefetti- argomenti in contraddizione e in conflitto con la rinnovazione genuina. La nomina, sia pure provvisoria, di un Ettore Tito a capo di un Sindacato fascista

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