IL FOCUS SUI BAMBINI E I RAGAZZI IN SITUAZIONE DI DISAGIO
TAVOLA 1.2. BAMBINI E RAGAZZI DI 0-17 ANNI FUORI DALLA FAMIGLIA DI ORIGINE (STIME E TASSO) DALL’1 GENNAIO 2010 AL 31 DICEMBRE
3.4. Nuove concezioni per il sostegno dei minori e delle loro famiglie in difficoltà.
Vi sono degli interventi che chi si occupa di pensare, implementare, valutare nuovi servizi e progetti nell’ambito della protezione cura dei bambini, possono mettere in atto per creare dei fattori di opportunità per i bambini e le loro famiglie. Alcuni studiosi hanno messo in luce come vi siano delle condizioni che impediscono, direttamente o indirettamente, lo sviluppo del bambino, definendole come fattori di rischio, mentre ve ne sono altre che migliorano, direttamente o indirettamente, lo sviluppo del bambino, che ne promuovono o contribuiscono a un funzionamento, definendole come fattori di opportunità (nella letteratura anglosassone opportunity
factors o protective, potentiating, resilient, invulnerability). Secondo tale impostazione
infatti, vi è una relazione tra i fattori di rischio e di opportunità e il comportamento è correlato sia ai fattori di rischio, che di opportunità, ovverosia alla loro interazione.
Bronfenbrenner, riteneva che il comportamento e lo sviluppo sono funzioni di un insieme di forze a due livelli:
a) le esperienze ambientali attraverso cui si sviluppa una persona (per esempio, i fattori di rischio e di opportunità);
b) le caratteristiche personali che influenzano lo stesso ambiente.
Il comportamento è correlato sia ai fattori di rischio e di opportunità, sia alle caratteristiche personali, alla loro combinazione e interazione (si veda, ad esempio, la resilienza).
Le influenze favorevoli o sfavorevoli allo sviluppo dell’individuo dipendono dalle caratteristiche personali dell’individuo stesso, che lo rendono vulnerabile o resiliente alle condizioni avverse.
Partendo da tale considerazione, nella cultura anglofona (Nord America e Nord Europa), si è sviluppato un importante corpus di programmi di sostegno alla genitorialità, soprattutto nell’ambito dell’early intervention (intervento precoce), il cui presupposto è che, per sostenere la famiglia e la funzione genitoriale nello specifico, occorre investire nella riduzione dei fattori di rischio, che possono essere presenti soprattutto in alcuni contesti sociali, anche con il fine di aumentare i fattori di opportunità. Ad esempio, in alcune situazioni problematiche, caratterizzate da elementi obiettivi di rischio, come l’uso di droga da parte dei genitori, l’early intervention può costituire un fattore di opportunità e quindi, fornire delle condizioni ottimali in grado di influenzare positivamente il bambino, i genitori e il funzionamento familiare. Ognuno di noi, nella sua vita, vive gli effetti delle relazioni tra fattori di rischio e di opportunità, i quali sono complessi, cumulativi e interattivi.
Ciò che va tenuto ben presente, in particolare nel momento in cui si interviene con un allontanamento di un bambino, è che questo possa essere inteso come un mezzo e non un fine, per costruire, attraverso gli opportuni interventi, benessere, che è la risultante di relazioni genitoriali, familiari e sociali. Paola Milani ritiene, a tal proposito, che “questo assunto è confermato oggi da alcune ricerche evidence-based che dimostrano che il buon esito di ogni collocamento esterno dipende non tanto dalla gravità della situazione iniziale della famiglia, quanto dalla qualità del processo della presa in carico, dalla quantità e soprattutto dalla qualità delle risorse disponibili in quello specifico progetto di intervento, dalla adeguatezza e dalla pertinenza degli interventi e soprattutto dalla partecipazione e dal coinvolgimento della famiglia di origine (bambino e genitori) nel processo di intervento secondo un programma coerente e sistematico di visite e incontri orientato alla riunificazione familiare”204. Il “buon esito”
di un intervento quindi è legato a ciò che la letteratura definisce safety, stability,
permanency, cioè alla fine del progetto, il bambino si trova in una situazione relazionale
migliore di quella iniziale e la sua collocazione, dovrà essere stabile, sia essa un’adozione, un affido sine die, il rientro in famiglia o l’avvio ad una situazione di autonomia personale. La letteratura, quindi, non ha messo in luce una condizione intrinseca al bambino e/o alla sua famiglia, che sia garanzia di un “buon esito”. Piuttosto, sembrano essere le condizioni esterne, cioè quelle legate al progetto e alle risorse messe a disposizione dall’ambiente sociale, ad influenzare maggiormente l’esito degli interventi.
Pertanto, anche di fronte a gravi problemi, possiamo avere dei buoni esiti e non è impossibile trovarsi anche una situazione scarsamente problematica, che dia dei cattivi esiti.
Vi sono quindi dei fattori esterni che sono predittivi di insuccesso come, ad esempio, l’impatto di molteplici collocamenti, il quale risulta essere maggiormente negativo, quanto più i bambini che li subiscono sono piccoli. Come dimostrano alcuni studi di tipo longitudinale, i legami tra le caratteristiche positive del bambino e un ambiente sociale di supporto, sono fondamentali per i bambini, ma è interessante conoscere come alcuni bambini, che non vivono in un ambiente favorevole, possano crescere, nonostante ciò, in modo positivo.
Appare molto importante, conoscere quali sono i fattori di opportunità e non solo quelli di rischio, per lo sviluppo umano, in quanto, gli interventi che vengono messi in atto, possono attivare quelle risorse che più di altre, favoriscono l’esito positivo degli interventi. L’intervento, può, cioè, essere finalizzato a ricreare quelle condizioni positive che alcuni bambini hanno trovato, nonostante alcune condizioni avverse, nel loro contesto sociale, riuscendo così a crescere sviluppando le loro potenzialità anziché perdendole. In questo senso la resilienza, intesa come aspetto psicobiologico dell’individuo, ovverosia la sua robustezza, la sua capacità di affrontare i colpi della sorte, in ogni circostanza, la sua endurance, che implica una capacità di impegno, sfida e controllo, in situazioni di rischio, rappresentano il contrappeso necessario per superare i momenti di difficoltà.
Che cos’è la resilienza? La resilienza è la capacità di funzionare bene malgrado gli eventi stressanti. È legata a delle situazioni difficili da vivere, inscritte nella durata e non soltanto connesse a eventi maggiori, brutali, ma episodici. Il comportamento resiliente è stato definito da alcuni autori come “un comportamento adattivo positivo”. Il termine resilienza si ritrova in metallurgia, a proposito della resistenza dei materiali, in particolare dell’acciaio, materiale che resiste all’usura, non cede, non si rompe, né si spezza sotto l’effetto di un urto. La resilienza si apprende a qualunque età e il background genetico del bambino giocherebbe un ruolo importante nei meccanismi che la rendono operativa. Anche le conferme raccolte attraverso l’esperienza del successo in un ambito specifico della vita, la riuscita scolastica, per esempio, possono sviluppare la resilienza di un bambino, che può quindi essere in grado di fronteggiare una situazione difficile a livello familiare.La capacità di endure, di resistere, di essere resiliente, è una mediazione necessaria nell’interazione tra il soggetto e l’ambiente. Nella resilienza, l’individuo sviluppa dei meccanismi di protezione, che riducono l’incidenza del rischio. Questi
meccanismi protettivi fanno nascere delle occasioni di tipo positivo. In questa concezione, il sostegno sociale ha una posizione più che rilevante, intendendo quest’ultimo come un insieme di relazioni interpersonali, che sviluppano un legame affettivo positivo e un aiuto pratico.