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ONTOLOGIA DELL’INCOMPIUTEZZA L’ANTROPOLOGIA INCONTRA LA FILOSOFIA

Nel documento MIMESIS LA SCALA E L’ALBUM (pagine 105-121)

1. Antropologia dell’incompiutezza

Da venti anni, un gruppo di antropologi, un grecista e un fi losofo (Fran-cis Affergan-Paris V, Ugo Fabietti-Milano Bicocca, Mondher Kilani-Lau-sanne, Franco Remotti-Torino, Claude Calame-École des Hautes Études en Sciences Sociales de Paris, Silvana Borutti-Pavia), nell’ambito di un accordo di cooperazione internazionale inaugurato nel 1993 e rinnovato nel 2010, ha condotto una ricerca interdisciplinare volta ad analizzare i concetti e le metodologie di una scienza umana, l’antropologia, che re-centemente ha assunto rilievo nell’ambito dello studio della nostra società multiculturale. Le ricerche comuni, attraverso un’analisi delle procedure concettuali e discorsive della rappresentazione antropologica delle culture

altre, hanno dato luogo allo studio delle rappresentazioni dell’umano nelle

varie culture1.

Questo gruppo di ricerca, rifl ettendo sui fondamenti epistemologici e concettuali del sapere antropologico, si è prefi sso di studiare l’effi cacia

del-la cultura in rapporto aldel-la formazione dell’umano, e ha edel-laborato a questo

fi ne il concetto operatore (direi quasi un concetto-metodo, un concetto-mo-dello) di “antropo-poiesi”: produzione o fabbricazione dell’umano, attra-verso un fare (poiein). Il concetto di antropo-poiesi assume una concezione della cultura come funzione formale o simbolica, che ha l’effetto “poietico” di proiettare dei mondi intersoggettivi di senso in cui gli uomini possano vivere: una vera e propria costituzione culturale dell’esistenza, che gli an-tropologi del gruppo hanno studiato in processi rituali in atto presso culture primitive. Il gruppo di ricerca ha studiato riti di iniziazione, maschere, in-terventi estetici sul corpo, cannibalismo, tassonomie uomo-animale, rituali

1 F. Affergan, S. Borutti, C. Calame, U. Fabietti, M. Kilani, F. Remotti, Figures de

l’humain: les représentations de l’anthropologie, Éditions de l’École des Hautes

Études en Sciences Sociales, Paris 2003; trad. it. Figure dell’umano. Le

della poesia melica in ambiti cultuali in Grecia. Due precisazioni vanno fat-te sul concetto di produzione dell’uomo attraverso la cultura. Antropo-poiesi non signifi ca un’idea di cultura come sovrastruttura, da ricostruire nel suo carattere arbitrario e relativo. Né signifi ca addizione di modelli concreti di comportamento a un animale umano completo e già costituito. Nella pro-spettiva dell’antropopoiesi, l’animale umano non fi nisce mai di diventare

ciò che è, attraverso un processo di costituzione culturale dell’esistenza:

an-tropopoiesi signifi ca dunque una vera e propria produzione di questo stesso animale, che è in sé ontologicamente incompiuto2.

Il lavoro di poiesis delle culture, in quanto supplenza di un’incompletezza ontologica, in quanto produzione modellizzante non sorretta da un determi-nismo ontologico (non c’è un’essenza dell’umano), ha necessariamente un aspetto fi nzionale: ma va sottolineato che la parola “fi nzione” è spesa qui nel senso del signifi cato latino di fi ngere, che rimanda non al campo semantico della menzogna e dell’illusione, ma al signifi cato di modellare, plasmare (to

shape in ingl., darstellen e bilden in ted.)3. La cultura è fi nzione in quanto supplisce alla mancanza di origine e di radici determinate e vincolanti: il senso che è l’umano (nei suoi aspetti fondanti: cultura, civiltà, storia) appare come un’elaborazione necessaria, ma nello stesso tempo libera e aperta, di vincoli e condizioni che, pur instaurandosi su uno zoccolo duro biologico e fi siologico, restano ontologicamente aperti – come mostrano anche gli svi-luppi delle neuroscienze, che rivelano l’estrema plasticità del cervello uma-no. La cultura è dunque fi nzione non solo nel senso epistemologico di poiesis modellizzante, ma anche nel senso ontologico di produzione dell’umano che supplisce a una mancanza di predeterminazioni originarie: nel senso appunto di antropopoiesi, o formazione attraverso cui diventiamo umani.

Il concetto operatore di antropopoiesi è stato defi nito soprattutto dalle ricerche di Franco Remotti e applicato negli studi dei rituali di iniziazione che presiedono alla nascita sociale dell’uomo, una vera seconda nascita (già Herder, Idee per la fi losofi a della storia dell’umanità, parlava di cultu-ra come vecultu-ra e propria seconda genesi dell’uomo «che forma e deforma»)4.

2 C. Calame, M. Kilani (a cura di), La fabrication de l’humain dans les cultures et

dans l’anthropologie, Payot, Lausanne 1999.

3 S. Borutti, Fiction et construction de l’objet en anthropologie, in F. Affergan, S.

Borutti, C. Calame, U. Fabietti, M. Kilani, F. Remotti, Figures de l’humain: les

représentations de l’anthropologie, cit., pp. 307-326; trad. it. Finzione e costru-zione dell’oggetto in antropologia, cit., pp. 91-119.

4 J.G. Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, 1784-1791;

trad. it. Idee per la fi losofi a della storia dell’umanità, a cura di V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 159.

Alcuni aspetti rilevanti del concetto di antropo-poiesi vanno sottolineati. Questo modello esclude non solo il determinismo biologico, ma anche il determinismo culturale: società e cultura non hanno esistenza indipendente dalle persone che sono costantemente coinvolte nel processo di creazio-ne e ricreaziocreazio-ne «degli ambienti psichici e materiali»5. La rimodellazione continua dell’ambiente culturale è per l’uomo nello stesso tempo una rimo-dellazione continua del sé: il che signifi ca un alto grado di libertà, libertà che è nello stesso tempo, da una parte, segnale di grandezza, nel senso di apertura di possibilità, ma anche, dall’altra, segnale di indigenza, di man-canza. Signifi ca anche che il lavoro antropo-poietico deve necessariamente far riferimento a modelli di umanità che sono essi stessi prodotti culturali, e che come tali possono essere reifi cati e destorifi cati attraverso processi di ideologizzazione etnocentrica6. I Giava, ad esempio, ci spiega Geertz7, sostengono che «Essere umani è essere giavanesi», affermano cioè l’auten-ticità, se non la superiorità, della propria umanità, e distinguono i “ndurung djava”, i non ancora giavanesi, e i “sampun djava”, i già giavanesi, quelli che hanno completato il processo di umanizzazione, superando una certa soglia. Altre culture arrivano invece ad esercitare la rifl essione e il dubbio sul completamento della formazione dell’umano. Remotti racconta dei ba-nande del Nord Kivu: i maschi devono diventare abakondi, abbattitori di alberi; ma il rito di iniziazione maschile, l’olosumba, che deve operare la trasformazione, si apre con la domanda dubitante, ripetuta due volte, rivolta non agli antenati, ma alla divinità: «un uomo, che cos’è?», denunciando un vuoto e un’insoddisfazione culturale, e si chiude con un canto che invoca:

Che il nostro viaggio generi degli uomini,

O dio Katonda, insegnaci ad abitare queste colline8.

Il processo rituale assume così in sé una valenza rifl essiva e fi losofi ca. Gli antropologi sono ben consapevoli della questione filosofica dell’essere dell’uomo. Un’antropologia dell’incompletezza che sia epistemologicamente accorta non può non rivolgere alla filosofia la

5 S. Rose, R. Lewontin, L. Kamin, Not in our genes. Biology, ideology, and human

nature, Penguin, Harmondsworth 1983; trad. it. Il gene e la sua mente. Biologia, ideologia e natura umana, Mondadori, Milano 1983, p. 297.

6 Cfr. F. Remotti, Tesi per una prospettiva antropopoietica, in S. Allovio, A. Favole,

Le fucine rituali. Temi di antropo-poiesi, Il Segnalibro, Torino 1996, pp. 18 sgg.

7 C. Geertz, The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York, 1973; trad. it.

di E. Bona, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 97. 8 F. Remotti, Le antropologie degli altri, Scriptorium, Torino 1997, pp. 36-37.

domanda sulla questione ontologica che l’antropo-poiesi di fatto pre-suppone. È quanto è successo nella nostra esperienza di ricerca: ri-flettendo sulla legittimazione del proprio sapere, gli antropologi del nostro gruppo hanno chiesto alla filosofia le categorie per pensare l’ontologia dell’incompiutezza che consegna l’essere umano al lavoro di fabbricazione esercitato dalla vita in società; hanno chiesto cioè concetti alla filosofia per pensare il problema dell’origine “umana” del senso. “Origine” intesa naturalmente non come punto di partenza di una cronologia lineare, ma come condizione ontologica che richiede un’elaborazione supplementare e che è in quanto tale costantemente presente nella costruzione culturale9. Con un gioco grafico di parole: la cultura come utopia, come costruzione del senso, si erge sullo sfondo dell’ou-topia, dell’infondato dell’uomo, offrendone la supplenza. Un tema, quello della supplenza culturale, che può essere espresso con la nozione di Gehlen di esonero (Entlastung), secondo cui il linguaggio, le forme culturali, le attività economiche sono altrettanti esoneri, stru-menti di trascendenza in relazione all’immediato; ma che può essere espresso anche con la nozione di desiderio umano che Kojève riprende dalla Fenomenologia di Hegel: la struttura del desiderio come ciò che scinde l’unità naturale e l’elemento immediato della natura, aprendo una temporalità e una storia. In un convegno del 199910, Françoise Héritier ha raccontato un mito africano legato a un fantasma di incom-pletezza, in cui il desiderio impedisce a gruppi maschili e femminili, originariamente separati e autosufficienti, di restare tali. Il desiderio di un gruppo verso l’altro (degli uomini verso le donne) è la struttura che apre l’umano e invia l’uomo nella cultura, in cui non finisce mai di diventare ciò che è. Nella cultura, si realizza la libertà necessaria di diventare umani: per l’uomo, c’è sempre scambio e doppio legame tra, da una parte, la possibilità, la libertà, la non determinazione della costruzione culturale, e, dall’altra, la necessità di supplenza a cui la cultura cerca di dare una risposta.

9 F. Remotti, De l’incomplétude, in F. Affergan, S. Borutti, C. Calame, U. Fabietti,

M. Kilani, F. Remotti, Figures de l’humain: les représentations de

l’anthropolo-gie, cit., pp. 19-74; trad. it. Sull’incompletezza, cit., pp. 21-89) mostra che il

le-game tra incompiutezza e supplenza riguarda non solo il culturale, ma il rapporto complesso tra il biologico e il culturale che concerne tutti gli animali.

2. Ontologia dell’incompiutezza

Dal punto di vista fi losofi co, la questione ontologica dell’essere

dell’uo-mo va posta preliminarmente rispetto alla questione antropologica

dell’“uo-mo”. Come tutti i saperi, l’antropologia non ha oggetti evidenti, o addirittu-ra natuaddirittu-rali. Cos’è dunque l’anthropos, che è dato come evidente nel nome della disciplina? A questa questione, l’antropologia (ogni antropologia) non è in grado di rispondere attraverso gli strumenti e i metodi propri della disciplina, per la semplice ragione che l’antropologia presuppone già l’uo-mo in quanto uol’uo-mo, in quanto regione determinata dell’ente, in quanto ente in relazione con un mondo. Come scrive Heidegger:

[…] la questione relativa a ciò che è più originario dell’uomo stesso non può, per principio, essere una questione antropologica. Ogni antropologia, an-che fi losofi ca, pone in partenza l’uomo già come uomo11.

La fi losofi a impone dunque la formulazione di una domanda che è deci-samente ontologica: che cos’è l’essere dell’anthropos? Abbiamo già detto che un percorso ontologico è richiesto dalla stessa prospettiva dell’antro-popoiesi, che presuppone un’ontologia, in quanto assume l’incompletezza originaria dell’uomo.

Ora, come possiamo pensare questa ontologia dell’incompiutezza che concerne gli aspetti più inquietanti dell’essere umano? Numerosi percorsi analitici di Heidegger, di Wittgenstein e di Freud ci presentano una co-stellazione di temi ontologici che concernono l’infondatezza dell’uomo e implicano tutti lo stesso doppio legame tra la mancanza originaria e la supplenza attraverso la produzione umana di senso. L’uomo è un essere di cultura perché è un essere “fi nito” – “fi nito” nel senso di incompiuto, esposto all’altro (all’alterità del mondo e all’alterità dell’altro); “fi nito” nel senso di mortale, esposto all’insensato della morte. Egli non può far al-tro che riscattarsi dall’infondatezza (mancanza radicale di origine) e dalla fi nitezza (mancanza radicale di avvenire) attraverso l’attività plasmatrice dell’immaginazione, che proietta temporalmente del senso sui dati sensibi-li. Non avendo una “ipseità” ontologica sostanziale, né una costanza tem-porale, l’uomo si forma un’identità fabbricando e distruggendo, costruendo e decostruendo dei mondi collettivi e storici di segni, di simboli, di modelli. La domanda che dobbiamo porci è dunque come il tema dell’infondatezza

11 M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik, Klosterman, Frankfurt a.

M. 1973; trad. it. a cura di Valerio Verra, Kant e il problema della metafi sica, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 197.

o della mancanza radicale d’origine, e il tema della fi nitezza o della man-canza radicale di futuro, possano essere legati alla natura “façonnante ou

fi ctionnante” dell’animale umano, cioè alla produzione immaginativa di

senso12. Una risposta può essere trovata nella nozione di immaginazione su cui Heidegger basa la propria interpretazione di Kant. Questa nozione di immaginazione dice infatti che tra la fi nitezza umana e la produzione di senso c’è un legame di supplenza, un legame retto da una vera e propria logica supplementare. Nel suo Kantbuch, Heidegger ha mostrato il legame intravisto da Kant tra la fi nitezza dell’uomo, in quanto ente consegnato al tempo, e la supplenza immaginativa: l’immaginazione è ciò che rende in-direttamente presente un mondo che non è creato né colto immediatamente attraverso l’intuizione, ma formato attraverso la donazione sensibile e fi gu-rativa, e attraverso il tempo – vale a dire, attraverso le strutture mediatrici che connettono il livello sensibile dell’aisthesis al livello intellettuale della forma e della legge. È a partire dalla sua fi nitezza e dalla sua mancanza co-stitutiva che l’uomo prende il rischio del senso, costituendosi come essere di immaginazione.

L’immaginazione è in fondo la contropartita della mancanza costitutiva insita nella fi nitezza umana. Per dirlo nei termini con cui Kant elabora nella

Critica della ragion pura la nozione di schematismo: l’immaginazione (in

quanto funzione schematizzante e temporalizzante, che presenta qualcosa nell’intuizione) ha la funzione di mediare tra i due livelli incommensurabili dell’intelletto e della sensibilità. L’immaginazione è cioè una struttura a doppia faccia, che mette in relazione due domini opposti: non è sponta-neità pura, né passività pura. Non è forma pura (pura funzione relazionale dell’intelletto), ma forma che presenta qualcosa nell’intuizione; non è intu-izione empirica, ricezione pura, passività, ma intuintu-izione formatrice; non è né l’una, né l’altra, ma è ad un tempo entrambe le cose. L’immaginazione è l’attività produttiva che fa in modo che un pensiero abbia un’intuizione: dà dunque signifi cato e realtà alla pura relazionalità che è il pensiero, lo rende vitale, vivente, attraverso un riempimento immaginativo13. Ciò vuol

12 Ph. Lacoue-Labarthe, Typographie, in S. Agacinski (a cura di), Mimesis: des arti-culations, Flammarion, Paris 1975, p. 197.

13 «Immaginazione è la facoltà di rappresentare un oggetto, anche senza la sua

presenza, nell’intuizione» (I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Kants gesammelte Schriften, hrsg. v. der Akademie der Wissenschaften, vol. III, de Gruyter, Berlin

1904; trad. it. Critica della ragion pura, a cura di G. Gentile e G. Lombardo Radice, riv. da V. Mathieu, Laterza, Bari 19659, p. 150). L’immaginazione porta in presenza la cosa lasciandola essere assente, e presentandola in una fi gura sche-matica che è insieme forma (cfr. S. Borutti, Immaginazione e pensiero del limite.

dire che non c’è concettuale puro e a-temporale; al contrario, non c’è con-cettuale che nella donazione sensibile e nella temporalità.

L’immaginazione come luogo di una ricezione formatrice, luogo della possibilità di presentare qualcosa in fi gura, suggerisce che l’origine per

l’uomo non è mai forma pura, ma è già legata alla contaminazione con l’alterità, cioè alla contingenza di un corpo, al ritardo temporale, a un

in-forme che deve essere trasformato in un orizzonte fi gurativo. La non com-pletezza originaria rende necessaria la produttività formatrice, che deve supplire all’assenza dell’oggetto attraverso la forma fi gurativa.

Analizzeremo ora come il legame tra la funzione formale di supplenza (forma), e il fondo non rappresentabile (informe), sia espresso in Wittgen-stein attraverso il tema del limite, inteso come non rappresentabilità del

senso. Ma è un tema che si può analizzare anche attraverso la

nozione-limi-te che è la mornozione-limi-te, in quanto non rappresentabile per eccellenza, e attraverso il nesso tra la morte e la sua supplenza utopica che è la volontà di senso. Ricaveremo questo ultimo tema da una rilettura del Disagio della civiltà di Freud, dove si ritrova l’idea di una costruzione culturale del senso che supplisce all’inquietante dell’origine e all’insensato del futuro.

3. Wittgenstein: il linguaggio o il non rappresentabile all’origine Tutta la rifl essione di Wittgenstein sul linguaggio e sul senso converge verso il tema del “limite”, secondo il quale la nostra esperienza del senso è legata all’indicibile. La nozione di limite non signifi ca semplicemente che c’è del non rappresentabile, vale a dire qualcosa cui non perveniamo a causa di un nostro difetto epistemico; questa nozione rinvia piuttosto a un’ontologia del limite: la sottrazione della presenza data, il limite e il non rappresentabile costituiscono le condizioni di produzione del senso. Con-sideriamo per esempio due proposizioni del Tractatus: «I limiti del mio

linguaggio signifi cano i limiti del mio mondo» (5.6); «La proposizione

non può rappresentare la forma logica» (4.121)14. Si può presentare così il tema che Wittgenstein tratta con la nozione di limite: la nostra esperienza del senso è abitare una forma linguistica non rappresentabile, dalla

qua-Darstellung e Einstimmung in Kant e in Wittgenstein, «Paradigmi», vol. XXVII, 3, 2009, §§ 1 e 2).

14 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, a cura di D. F. Pears e B. F.

McGuinness, Routledge & Kegan Paul, London 1961; trad. it. Tractatus

logico-philosophicus e altri scritti non postumi, a cura di A. G. Conte, Einaudi, Torino

le non possiamo allontanarci prendendone una distanza rappresentativa. Wittgenstein ci parla in fondo di un doppio legame non rappresentabile tra il linguaggio e il mondo: il rapporto col mondo, la semantica, ce l’abbiamo solo in quel “rappresentante” che è il linguaggio; ma il linguaggio è in sé irrappresentabile. Il linguaggio è nello stesso tempo la nostra forma (ciò che ci apre un mondo signifi cante) e il nostro limite (non possiamo stac-carcene, per riformarlo metalinguisticamente dall’esterno: lo abitiamo cioè radicalmente). Da una parte, il linguaggio è forma perché ci apre il mondo del dicibile; ma, dall’altra, la forma del linguaggio è in sé indicibile: non posso uscire dal linguaggio, non posso parlare in modo tematico del rap-porto tra il linguaggio e il mondo, perché ho un mondo solo nella fi nzione linguistica, nella confi gurazione che me ne offre il linguaggio. Attraverso il nesso tra forma e limite, tra il fi gurabile e il non rappresentabile

ontolo-gico15, Wittgenstein ci mostra in fondo il legame tra un’estetica dell’aper-tura dell’esperienza e un’etica dell’assunzione dei limiti dell’esperienza. Il linguaggio come forma e limite signifi ca anche il carattere immemoriale

dell’origine: noi nasciamo al senso, ma cominciamo a parlare e a

conosce-re a particonosce-re da una stratifi cazione e da una sedimentazione di signifi cati che sono per noi impensati, inconsci, e che tuttavia sono condizioni del senso; siamo in fondo parlati da un tesoro di parole cariche di una memoria per noi immemoriale e inconoscibile.

In Wittgenstein, del resto, il tema della chiusura del campo del senso, cioè il tema del limite visto come orizzonte, contorno, sfondo (Hintergrund, con l’espressione degli ultimi scritti)16 è all’origine non solo dell’indicibile e del silenzio del Tractatus, ma anche della nozione di “gioco linguistico” delle Ricerche fi losofi che. E, infatti, che cos’è un gioco linguistico se non

la presentazione del senso e insieme del suo orizzonte? Il gioco è di fatto

un universo chiuso che non è rappresentabile nelle sue regole. Le regole del gioco non sono tanto leggi che si possano enunciare e apprendere at-traverso una conoscenza teoretica, quanto strutture pratiche che impariamo costituendoci come soggetti nella vita comunitaria17. La nozione di gioco linguistico è il punto di arresto di una rifl essione che mostra l’esperienza

15 Cfr. S. Borutti, Filosofi a dei sensi. Estetica del pensiero tra fi losofi a, arte e

lette-ratura, Raffaello Cortina, Milano 2006, I, cap. 1.

16 L. Wittgenstein, Über Gewissheit, a cura di E. Anscombe e G. H. von Wright,

Blackwell, Oxford 1969; trad. it. a cura di M. Trinchero, Della certezza, Einaudi, Torino, 1978, § 94.

17 L. Wittgenstein, Philosophical Investigations, a cura di G. E. M. Anscombe e R.

Rhees. Blackwell, Oxford 1953; trad. it. Ricerche fi losofi che, a cura di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1967, I, § 241.

del senso risalendola dall’interno. Parlare nell’orizzonte di un gioco è pra-ticare il limite, è ripetere e confermare l’universo di senso assunto nell’ap-prendimento e nella socializzazione come la nostra “forma di vita”, una

Nel documento MIMESIS LA SCALA E L’ALBUM (pagine 105-121)