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MIMESIS LA SCALA E L’ALBUM

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Academic year: 2021

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LA SCIENZA RICERCATA

SAGGI E TESTI: LA FILOSOFIA E LA SUA STORIA

N. 17

Sezione diretta da Luigi Ruggiu

COMITATO SCIENTIFICO

Franco Biasutti (Università di Padova) Silvana Borutti (Università di Pavia)

Giuseppe Cantillo (Università Federico II di Napoli) Franco Ferrari (Università di Salerno)

Massimo Ferrari (Università di Torino) Elio Franzini (Università Statale di Milano)

Hans-Helmuth Gander (Albert-Ludwigs-Universitaet Freiburg) Jeff Malpas (University of Tasmania, Australia)

Salvatore Natoli (Università di Milano-Bicocca) Stefano Poggi (Università di Firenze)

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MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it

mimesis@mimesisedizioni.it Collana: La scala e l’album, n. 17 Isbn: 9788857529318

© 2015 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI)

Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935

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Francesco Mora

INTRODUZIONE 7

SEZIONE PRIMA

LA COSTRUZIONE DELL’UOMO E LE SUE INTERPRETAZIONI

Giuseppe Cacciatore

LA CRITICA IN SOCCORSO DELL’UMANO. FILOLOGIA E UMANESIMO 17

Bruno Pinchard

KARL MARX À L’ÉPREUVE DE LA GLOBALISATION.

GEANTS, ATHEISME ET CAUSE DE SOI 33

SEZIONE SECONDA L’IRRUZIONE DELLA TECNICA E LE TRASFORMAZIONI DELL’ONTOLOGIA

Stefano Poggi

TRA ORIENTE E OCCIDENTE. LA TECNICA, LA MISTICA, IL NULLA 49

Luigi Ruggiu

NUOVE TECNOLOGIE E NUOVA ONTOLOGIA 75

Silvana Borutti

ONTOLOGIA DELL’INCOMPIUTEZZA.

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LA METAMORFOSI DELL’UOMO E LA RICADUTA NELLA CULTURA OCCIDENTALE

Günter Figal

LEBEN ALS GRUNDTHEMA DER PHÄNOMENOLOGIE 123

Mario Ruggenini

L’EMERGENZA DELL’UMANO NELLA PAROLA 135

Francesco Mora

L’UOMO È UN «ANIMALE RAZIONALE»? 151

INTERVENTI

Giampiero Chivilò

ANTROPOGENESI E TEMPORALITÀ NELLA FILOSOFIA DI KOJÈVE 179

Francesca Zugno

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INTRODUZIONE

I saggi che vengono di seguito qui presentati sono la coerente elabora-zione delle relazioni e del dibattito tenutisi all’interno del Convegno In-ternazionale «Metamorfosi dell’Umano» svoltosi presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia nell’aprile del 2013. Il Convegno rientra in una serie di eventi e manifestazioni nell’ambito del Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale (PRIN) 2009, che ha avuto come coordinatore nazionale Luigi Ruggiu, oggi professore emerito di Storia della fi losofi a.

L’evento si è articolato in tre sessioni: la prima riguardante le interpreta-zioni circa l’uomo e la sua costruzione; la seconda si è incentrata sulla ir-ruzione della tecnica e le conseguenti trasformazioni dell’ontologia; infi ne, la terza ha descritto i possibili scenari e le ricadute nella cultura occidentale della metamorfosi dell’uomo contemporaneo.

La proposta consiste nell’indagare le interpretazioni fi losofi che e scien-tifi che della trasformazione, della crisi e del mutamento della nozione com-plessa di uomo e di humanitas, a partire dal XX secolo per giungere a questo primo decennio del nuovo millennio.

L’epoca della tarda modernità, che con celebre, anche se poco calzante defi nizione, è stata detta “secolo breve”, si confi gura nel porre una serie di problematiche pluridisciplinari che sono tuttora presenti, con aspetti mo-difi cati e tonalità forse più accentuate, ma che nella sostanza rimangono le medesime nella nostra contemporaneità.

L’espandersi della metropoli come forma della città e delle sue moda-lità di vita è strettamente connesso allo sviluppo, sempre più prepotente, dell’economia monetaria che assieme al processo di globalizzazione – in-tesa come l’esportazione del modello politico-fi nanziario dell’Occidente, in prevalenza anglo-americano, piuttosto di quello del Vecchio Continente – sono lo zenit e il nadir della civilizzazione occidentale.

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della “mobilitazione totale” e del dominio della tecnica, che mutano le mo-dalità della guerra e del morire del uomo, per giungere al consolidamento delle democrazie occidentali, mostra con tutta evidenza differenti “forme-uomo” che storicamente si succedono.

Per un verso, l’homo animal rationale – costruito dalla metafi sica gre-ca e dalla tradizione ebraico-cristiana – trova la sua origine geopolitigre-ca in quella che viene defi nita Romanitas, ossia sta a fondamento di quell’uma-nismo che assumerà via via la forma di «persona», individuo, res cogitans, io, soggetto, volontà di volontà ma anche di homo oeconomicus e homo

tecnologicus.

L’idea che guida l’uomo dotato di ratio – senza qualità perché le possie-de tutte, come scrive Musil – è l’ipossie-dea di progresso infi nito e illimitato che si scontra – era questo già il problema della Scuola Classica dell’economia e di Adam Smith – con la scarsità delle risorse naturali.

Per un altro lato, il tentativo portato avanti sia dai teorici della rivolu-zione conservatrice sia da Martin Heidegger è quello di fondare un “uomo nuovo”, che tuttavia nulla ha a che vedere con la fi gura distopica (e tut-ta anch’essa fi glia del nichilismo metut-tafi sico e tecnico) del post-umano contemporaneo, descritta da sociologi quali Bauman, Sennett, Virillo, Nussbaum.

Va detto, allora, che non si può intendere i mutamenti – anche tragici – delle forme-Stato, delle istituzioni sociali del terrore, delle macroeconomie fi nanziarie, senza prendere in considerazione il fenomeno-uomo che stori-camente viene a determinarsi in destinazioni particolari. Tutto ciò non va letto da un’angolazione etno-antropologica, come potrebbe essere quella di Gehlen o di Plessner – entrambi legati a un organicismo pericolosamen-te vicino al biologismo razziale – ma in virtù di un’ottica eminenpericolosamen-temenpericolosamen-te fi losofi co-ontologica, che possa chiarire la differenza tra l’uomo della

Zi-vilization e l’uomo della Kultur, tra Occidente e Oriente, tra, come direbbe

Schmitt, Terra e Mare, tra Mercanti ed Eroi, per citare il titolo di un inte-ressante pamphlet del 1915 di Werner Sombart.

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specifi ca della metafi sica, uscire e liberarsi dalla tirannia del Sé e della soggettività, dalla tirannia dei valori come direbbe Carl Schmitt, per una nietzscheana transvalutazione di tutti i valori.

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che fa di Marx, con la sua opera, un Titano nel “calvario” della globalizza-zine (Pinchard).

La seconda sezione individua i problemi centrali che la tecnica e le tecnologie moderne creano all’uomo, come queste lo mutano nella sua essenza e come trasformano il mondo e l’Umwelt in cui vive. Il primo intervento (Poggi), corposo e ricchissimo di spunti e suggestioni, ci foto-grafa un ambito geografi camente e temporalmente determinato – quello della Germania degli anni 1915-1935 – decisivo per poter comprendere non solo la discussione sulla tecnica e sul nichilismo, ma anche quella rinascita religiosa, spiritualistica e mistica di fi ne secolo, evidente, oltre che in Germania, anche in Francia, in Gran Bretagna, in Russia e in Italia; esperienza mistica in quanto condizione dell’animo umano in cui la volon-tà viene meno. Ma agli inizi del XX secolo in Germania la mistica investe il rapporto Oriente-Occidente, in virtù soprattutto di Martin Buber e della

Kierkegaard-Renaissance; infatti, il fi losofo danese è centrale nella rifl

es-sione della mistica speculativa tedesca e per la conoscenza della sapienza orientale. E poi l’analisi si sposta in Russia, basti pensare a I demoni di Do-stoevskij e al personaggio di Stavroghin, per continuare in Germania: Ru-dolf Otto, Bloch, Spengler, Bäumler, questi due legati molto di più non solo al rapporto Oriente-Occidente ma anche al tema del nulla e di un radicale nichilismo che porterà alla catastrofe del nazionalsocialismo. Ovviamente qui ci limitiamo a citare i protagonisti di questo affresco che getta una luce chiarifi catrice in un periodo cruciale anche per la nostra contemporaneità. Vi è un’assenza che si fa pesare ed è quella di Martin Heidegger, ma è un’esclusione cosciente e voluta, perché questo invitato di pietra, infl uireb-be troppo sulla ricostruzione storico-fi losofi ca di un milieu decisivo per la crisi dell’umanismo.

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aiuta a comprendere la complessità biologica della nostra epoca, in cui la dialettica Natura/Tecnica, sembra essere venuta meno. Così lo sviluppo delle nanotecnologie ha prodotto un “salto” nella struttura della tecnica, confi gurando la natura come il mondo del dato. La tesi heideggeriana del compimento della metafi sica individua nella stessa tecnica l’apice della metafi sica, proprio perché “la macchina nanotecnologica” serve a proget-tare un futuro artifi ciale con il quale, tuttavia, la fi losofi a ha il compito, e anche l’obbligo, di confrontarsi.

Lo sguardo antropologico e antropo-poietico mette in luce una conce-zione della cultura formale e simbolica ma non sovrastrutturale. Nell’ottica dell’antro-poiesi, cioè della produzione dell’uomo, “l’animale umano non

fi nisce mai di diventare ciò che è” in virtù del processo di “costituzione cul-turale dell’esistenza”. Preliminare a tale visione sta l’ontologia fi losofi ca

dell’essere uomo, questione alla quale hanno tentato di rispondere fi losofi del calibro di Heidegger e Wittgenstein; l’uomo, si dice, è un essere di cul-tura perché è un essere fi nito, nel senso di mortale, e quindi esposto all’in-sensatezza. Già Kant aveva intravisto questa ontologia dell’incompiutezza nel concetto di fi nitudine dell’uomo, ripreso nel Kantbuch di Heidegger, così come tutta la rifl essione di Wittgenstein sul linguaggio e sul limite in-dica un’ontologia dell’indicibile, una chiusura del campo di senso, e la for-ma-vita umana è socializzazione non rappresentabile, struttura nomade e dinamica dell’accordo (Übereinstimmung, consonanza). Per ultimo Freud ci permette di ripensare la mancanza d’origine dell’uomo e la cultura nel suo ruolo di supplenza, nel suo incoscio non dicibile, nella sua angoscia, in un uomo senza luogo (ou-topico), spaesato e angosciato (Unheimlich, termine usato anche da Heidegger), l’uomo come il deinotaton dell’Anti-gone sofoclea. Ed è qui che si gioca l’esistenza umana tra eros e thanathos, tra spaesatezza e ritorno all’origine (das Heimliche) nel ritmo incessante e inquietante del fort-da (Borutti).

La terza sezione vede gli interventi di Günter Figal, Mario Ruggenini e mio.

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inter-pretato come evento (Ereignis) della vita propria, elabora già dal 1922 la fi gura complessa di Dasein, passando così da una “ontologia della vita” a una “ontologia del Dasein”, che sarà poi sviluppata e resa centrale in Sein

und Zeit. Il ricco ed esplicativo contributo prende poi in considerazione il

Dasein come apertura (Offenheit) e aperturalità (Erschlossenheit). Entram-bi i fi losofi che hanno segnato il corso del Novecento non si liberano, tut-tavia, dalla questione della vita, e anche il Dasein di Heidegger può essere colto soltanto a partire dal Leben, poiché “vivere è vivere se stessi”.

Da più tempo, la rifl essione fi losofi ca di Mario Ruggenini si è incentrata sulla problematica cruciale della parola; la differenza della natura umana sta nel fatto che uomini e donne parlano, come spiega Aristotele, e questo

logos, “la parola del discorso”, è ciò che permette la koinonia. Ma come sta

al mondo l’uomo? Egli vive in una fattualità drammatica in quanto mortale (in greco gli uomini sono detti anche brotoi, i mortali). Esperienza di essere mortali è esperienza della nostra fi nitezza che si inscrive nella differenza della parola. L’uomo che vuole essere interprete e artefi ce della natura, fugge di fronte al perturbante, all’altro, in quanto diverso e sconosciuto; l’enigma dell’altro e il fenomeno dell’apertura dell’umano al mondo sono gli aspetti che defi niscono la differenza antropologica ed è la parola che fonda l’umano e apre il mondo all’interlocutore. Senza la parola non solo l’uomo ma anche il divino non sarebbero. Ogni uomo appartiene a una re-altà già parlata e interpretata e la parola da sempre previene ogni esistenza. Si rende così necessario un congedo dall’ontologia metafi sica e non, antro-pocentrica e non, poiché solo la parola fa vivere tutti gli enti.

Infi ne, il mio contributo ha come tema fondamentale la crisi dell’uma-nismo, analizzata da Heidegger nel suo Brief über den «Humanismus». Centrale risulta la critica della defi nizione di uomo in quanto animal

ra-tionale, traduzione già compromessa dello zoon logon echon aristotelico

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dell’u-manismo non ha nulla a che vedere con il biologismo e la teoria della razza del nazionalsocialismo, al quale Heidegger resta dal punto di vista teorico e movimentista fedele; non ha nulla a che vedere con lo sterminio sul quale tuttavia Heidegger non dirà una sola parola di condanna, ma risponde alla ricerca di una nuova forma di vita alla quale l’uomo può accedere e che non sia quella della tecnologia contemporanea e della pianifi cazione globaliz-zata e omologante delle culture e dei popoli.

Anche per questo motivo sia Schmitt, che Jünger, che Heidegger – che hanno attraversato diversamente l’abisso del più tetro dei totalitarismi – hanno voluto rifugiarsi in luoghi isolati, vivere in provincia, per poter as-solvere il compito del pensiero: meditare sull’uomo. Altri come Paul Ce-lan, Jean Amery, Stefan Zweig o Ghérasim Luca, stimatissimo da Deleuze, scelsero tutti la via del suicidio.

Forse anche per questo, essere contro l’umanismo non signifi ca essere inumani.

Desidero qui ringraziare tutti i partecipanti al Convegno che con le loro relazioni hanno fornito un decisivo impulso a questo tema che credo essere cruciale per comprendere l’epoca che ci è data da vivere.

Ringrazio anche il prof. Perniola che non ha potuto inviare il suo con-tributo.

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LA CRITICA IN SOCCORSO DELL’UMANO

FILOLOGIA E NEOUMANESIMO

1. Credo che si debba prendere molto sul serio il tema di ricerca sugge-rito dagli organizzatori di questo convegno: «analizzare la crisi dell’idea di uomo e di umanismo che si è venuta a creare nel XX secolo e il mutamento essenziale della sua costituzione». E questo perché crisi e mutamento del senso dell’umano sono all’ordine del giorno non soltanto della rifl essione fi losofi ca, ma anche di quei comparti del sapere che indagano le forme dell’umano dal punto di vista delle biotecnologie o delle neuroscienze, sen-za ovviamente trascurare le tradizionali forme (oggi più che mai riproposte con forza sullo scenario della crisi) della politica e della religione e, anche, più in generale, di ciò che già la cultura umanistico-rinascimentale indica-va come le condotte di vita.

Io vorrei provare a ragionare di critica e di senso dell’umano, utilizzando un concetto di critica proprio della tradizione umanistica. Ne parla, tra gli altri, in un libro della fi ne degli anni ’50 del secolo scorso, Reinhart Kosel-leck. Nel contesto della rivoluzione umanistica della prima età moderna, il concetto di critica è ancora esente da una sua declinazione in chiave epistemologica o anche ontologico-trascendentale e si lega, piuttosto, ad una varietà di signifi cati nati, in modo particolare, nel campo della fi lologia e, in generale, nell’insieme di ciò che è riconducibile all’originario signi-fi cato della critica come arte del giudicare. «Già nel concetto di critica è insito il fatto che mediante la critica si opera una separazione. La critica è un’arte del giudizio, la sua attività consiste nel vagliare l’esattezza o la verità, la giustezza o la bellezza di un contenuto già dato, per ricavare dalla conoscenza così ottenuta un giudizio»1. Non a caso, nel corso

dell’esposi-zione, Koselleck cita anche Vico2, nella cui fi losofi a si può individuare un

consapevole tentativo di composizione dialettica tra critica e topica, anche

1 Cfr. R. Koselleck, Kritik und Krise. Ein Beitrag zur Pathogenese der bürgerlichen

Welt, Verlag Alber, Freiburg-München, 1959 (tr. it., Critica illuministica e crisi della società borghese, di G. Panzieri, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 120).

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in questo caso sviluppando temi della tradizione umanistica, a partire dalla funzione non solo tecnica, ma anche fi losofi ca e metodologica della critica fi lologica3.

2. Proprio evocando Vico, si può dire – come ho sostenuto anche in un mio saggio4 – che la fi lologia è una disciplina a vocazione

antiessenziali-stica, adatta per comprendere la complessità del reale grazie alla sua forza interpretativa. In una ben nota Degnità della Scienza nuova Vico distingue la fi losofi a, che contempla la ragione, da cui deriva la scienza del vero, dalla fi lologia, che considera l’autorità delle scelte umane, su cui si fonda la coscienza del certo. Filologi sono stati «tutti i gramatici, istorici, critici, che son occupati d’intorno alla cognizione delle lingue e de’ fatti de’ po-poli, così in casa, come sono i costumi e le leggi, come fuori, quali sono le guerre, le paci, l’alleanze, i viaggi, i commerzi»5. Mi pare che si possa

ben porre in evidenza la struttura “teoretica” dell’argomento vichiano, im-pegnato a ritrovare i nessi tra verità e certezza, tra universalità “fi losofi ca” delle idee e storicità “ermeneutico-fi lologica” dei costumi umani e delle istituzioni civili. Qui certamente non sfugge uno dei passaggi più

radical-3 Sul tema Koselleck torna nella voce Krise, scritta nel 1982 per i Geschichtliche

Grundbegriffe, a cura di O. Brunner-W. Conze-R. Koselleck, Klett-Cotta, Stuttgart,

1972-1997, vol. 3, pp. 617-650. Vedine la tr. it. di G.Imbriano e S. Rodeschini,

Crisi. Per un lessico della modernità, intr. di G. Imbriano e S. Rodeschini,

post-fazione di A. Zanini (Crisi: concetto e condizione), ombre corte, Verona, 2012. Koselleck mostra come la parola crisi, al di là degli ambiti disciplinari specifi ci nei quali essa è evocata, almeno a partire dalla seconda metà del secolo XIX, sia diventata tratto distintivo della modernità, concetto epocale capace di esprimerla e comprenderla. I concetti di critica e crisi si compenetrano nella misura in cui la ricerca delle cause del dissolversi del vecchio mondo e dei motivi fondativi del nuovo ha bisogno di fondarsi sul lavoro critico della storiografi a e della com-prensione concettuale, che è poi la prassi di studio e di ricerca della begriffene

Geschichte. Ma la base di partenza del metodo storico-criticco di Koselleck resta

– potremmo dire vichianamente – la ricerca della genesi linguistica e lessicogra-fi ca dei concetti, così da consentire l’individuazione delle modilessicogra-fi cazioni storiche e politiche delle diverse epoche storiche e, innanzitutto, di quella moderna. Una indagine complessiva ed esauriente del pensiero e dell’opera di Koselleck è quella di D. Fusaro, L’orizzonte in movimento. Modernità e futuro in Reinhart Koselleck, Il Mulino, Bologna, 2012.

4 Cfr. G. Cacciatore, Verità e fi lologia. Prolegomeni ad una teoria

critico-storici-stica del neoumanesimo, in “Nóema”, n. 2, 2011, http://riviste.unimi.it/index.php/

noema.

5 G.Vico, Scienza nuova del 1744, p. 498 (cito dall’edizione a cura di A. Battistini,

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mente innovativi di Vico che, nella critica agli eccessi del razionalismo, utilizza al contempo il richiamo alla tradizione retorica classica e la consa-pevole fondazione di un moderno modello di conoscenza volto ad indaga-re quegli ambiti del sapeindaga-re umano (storici, poetici, favolosi, etico-pratici) non riducibili all’universalità e legalità delle verità razionali. Si comprende allora perché Vico leghi – anche con un sapiente ed effi cace dosaggio ter-minologico – il vero alla scienza e il certo alla coscienza. Nella Degnità IX Vico, infatti, afferma: «Gli uomini che non sanno il vero delle cose proccu-rano d’attenersi al certo, perché non potendo soddisfare l’intelletto con la scienza, almeno la volontà riposi sulla coscienza»6. È aperto così il terreno

a quella notissima degnità XIV che costituisce, per così dire, l’ouverture teoretica della ricerca fi lologico-genealogica da Vico proposta e, in molte parti, compiuta. «Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose»7. I due ambiti conoscitivi (quello del vero e quello del

cer-to) mantengono una loro autonomia, nel senso cioè che la conoscenza del certo – del mondo storico prodotto dalla umana volontà – ha una sua piena dignità metodologica e gnoseologica. Gli uomini non riusciranno mai ad attingere completamente il vero – quel vero perfetto ed universale che solo la mente di Dio riesce a contenere – ma possono almeno attenersi al certo offerto dai saperi storici, dalle sapienze della poesia, dagli istituti e dalle leggi degli uomini, dalle azioni di individui e popoli. Anche per questo, dunque, la dimensione pratico-conoscitiva della coscienza umana diventa uno degli oggetti fondamentali della nuova scienza dell’uomo.

La ragione fi losofi ca con le sue «pruove»8 aiuta a distinguere e a chiarire

le prove fi lologiche, così da poter «ridurre a certezza l’umano arbitrio». Insomma, conclude Vico, per questa via si può ridurre la fi lologia «in for-ma di scienza»9. Questo spiega perché, avendo l’uomo per lungo tempo

affi dato il suo processo di incivilimento al senso comune e alla «autorità del certo», accanto alle «pruove fi losofi che» di cui si serve la nuova scienza si affi ancano quelle «fi lologiche»10. Sono queste prove che mostrano, ad

esempio, come i miti non sono immagini forzate e distorte della realtà, ma le «istorie civili de’ primi popoli, i quali si truovano dappertutto essere stati

6 Ibidem.

7 Ivi, p. 500. Non a caso è proprio a partire da una precisa curvatura interpretativa che privilegia la storicità e l’identità della nozione di natura in Vico, che muove la lettura di Auerbach, S. Francesco Dante Vico, Bari, 1970, pp. 70 e ss.

8 Cfr. G. Vico, cit., p. 553. 9 Ivi, p. 579.

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naturalmente poeti» e come le «frasi eroiche» siano comprensibili «con tutta la verità de’ sentimenti e tutta la propietà dell’espressioni». Ed è an-cora attraverso queste prove che si defi nisce l’importanza dell’etimologia, dell’origine e della storia dei signifi cati delle parole, ma anche il ruolo che la storia delle lingue ha nella formazione del «vocabolario mentale delle cose umane socievoli».

3. Credo che sia comprensibile, a questo punto, perché io abbia inserito Vico all’inizio di una ideale genesi di una critica che è anche premessa fon-dativa di una esplicita forma di umanesimo fi lologico che da Vico a Gramsci, da Auerbach e Grassi sino a Said, tenta di ridefi nire le basi teoriche di un percorso che si defi nisce anzitutto come riproposizione dell’etico-politico, contro ogni forma di «oggettivismo metafi sico e scientifi co» e contro «il primato dell’istituzionalismo o dell’economico»11. È dunque la fi lologia

e, con essa, il riconoscimento del primato del linguaggio, che costituisce l’essenza dell’umanesimo, storico e teoretico. Il tema di fondo della rivolu-zione rinascimentale italiana non è più tanto la scoperta dell’uomo e la fon-dazione di una antropologia, sia razionalistica, sia ontologica o metafi sica. Quel che viene al centro, piuttosto, è la centralità del linguaggio, special-mente della parola poetica, lungo un percorso che, come si è visto, giunge sino all’idea vichiana di sapienza poetica. Ancora in un mio intervento recente12, ho riproposto un antico convincimento, e cioè che Vico

appar-tenga a pieno al dibattito fi losofi co della modernità. Si può sostenere che il suo linguaggio e la stessa struttura dei suoi argomenti siano ancora radicati nella tradizione fi losofi ca classica e rinascimentale, ma non si può negare quanto questi argomenti abbiano inciso su alcuni momenti centrali del mo-derno. Si pensi alla critica del razionalismo, alla scoperta della storicità del mondo umano, alla defi nizione del sapere umano attraverso la storia e la fi lologia, l’idea della poesia e dell’immaginazione, infi ne, come condizioni di possibilità del fare umano. Poesia ed immaginazione, fantasia e attività ingegnosa – senza che l’accostamento tra tali termini voglia indicare un processo di identità tra essi – non stanno a rappresentare soltanto momenti specifi ci dell’esperienza conoscitiva e antropologico-culturale dell’uomo. Si tratta, infatti, di oltrepassare il livello di schematismo al quale spesso

11 Cfr. F. Battistrada, Per un umanesimo rivisitato, Jaca Book, Milano, 1999, p. 15. 12 Cfr. G. Cacciatore, Per una critica della ragione poetica: l’altra razionalità di

Vico, in M. Vanzulli (a cura di), Razionalità e modernità in Vico, Mimesis,

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si è voluto ridurre il concetto vichiano di storicità, cioè alla semplice ed iterativa affermazione della “scoperta” della dimensione storica della realtà umana. Vico non si limita a riconoscere nella disposizione alla socialità il tratto coagulante della genesi storica degli istituti politici e dei processi cul-turali dell’umanità e a fare di essa l’oggetto speciale della nuova scienza. Egli tenta, altresì, di individuare e defi nire, insieme al peculiare metodo di studio da applicare a tale oggetto, i principi e gli elementi normativi di ca-rattere fi losofi co-concettuale che sono all’origine del processo di graduale umanizzazione e antropologizzazione del mondo e della natura.

Penso, perciò, che sia plausibile una chiave di lettura dell’opera vichia-na nel senso di uvichia-na radicale svolta non solo gnoseologica, ma soprattutto

umanistica, inaugurata dal centrale argomento teoretico del verum factum13.

A sostegno di questa tesi basti rileggere attentamente uno dei passi più noti e citati della Scienza nuova del 1744. È il passo in cui Vico, adottando una terminologia che potrebbe coerentemente adattarsi al lessico illuministico, parla dell’improvviso squarcio di luce che si apre nella «densa notte di tene-bre ond’è coverta la prima da noi lontanissima antichità». Ed ecco apparire il «lume eterno, che non tramonta, di questa verità, la quale non si può a patto alcuno, chiamare in dubbio; che questo mondo civile egli certamente è stato

fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i

principi dentro le modifi cazioni della nostra medesima mente umana»14.

Ad una conclusione analoga – almeno per quanto riguarda la tradizione umanistica e il suo riverberarsi in Vico – è giunto Roberto Esposito che sia pur forzando in modo problematico l’interpretazione dell’heidegerriana

Lichtung, individua «al centro della cultura umanistica italiana (…)

l’a-pertura originaria in cui il mondo viene alla luce attraverso la rivelazione della parola poetica»15. Anche se attraverso una intenzionalità più

teoreti-ca che storico-fi losofi teoreti-ca, la conclusione di questa interpretazione giunge anch’essa alla determinazione della questione fi lologica come discorso non solo metodico e specialistico, ma anche attento alla «costituzione intrin-secamente linguistica» dell’Essere che, nel caso della sapienza poetica e dell’immaginazione, diventa costitutiva «della comunità e delle sue istitu-zioni storiche». Lungo questo percorso, Vico è il fi losofo che riesce «a

con-13 Il tema è oggetto di una bibliografi a nutritissima. Mi limito perciò a citare per una utile e intelligente ricognizione M. Martirano, Vero-Fatto, Guida, Napoli, 2007, in part. cfr. le pp. 15-37.

14 Vico, Scienza nuova 1744, cit., pp. 541-542.

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ferire all’intero sapere umanistico l’unità di una straordinaria narrazione fi losofi ca, lontana e opposta all’arido razionalismo cartesiano»16.

4. Altrettanto esemplare, ai fi ni del discorso che qui intendo svolgere, mi pare la posizione di Ernesto Grassi. L’antico allievo di Heidegger e studio-so dell’Umanesimo studio-sostiene che Vico, al di là di una vulgata interpretativa che semplifi ca i termini stessi del confronto, si è sforzato di superare il dua-lismo tra pathos e logos17. L’elemento concettuale di cui in questo sforzo

Vico si serve è il verosimile. Ciò che Grassi sostiene – e che io condivido – è che Vico non propone la sostituzione del metodo critico con quello topico, ma una sequenza che colloca certamente il topico in una posizione di precedenza, che tuttavia ha pur sempre il suo esito nella razionalità della critica18. Ciò che comunque caratterizza l’apporto di Grassi alla fondazione

teoretica e all’analisi storiografi ca dell’umanesimo retorico – che dal Rina-scimento italiano passa attraverso Vives e Gracián per arrivare a Vico – è la riformulazione dei concetti di mimesis e di verosimile e la delineazione di una vera e propria logica dell’ingegno19. Tutto questo, però, comporta

16 Per questa e le precedenti citazioni cfr. R. Esposito, op. cit., pp. 40-41. Ho discus-so il libro di Esposito in «Pensiero vivente» e pensiero storico. Un paradigma

possibile per ripensare la tradizione fi losofi ca italiana, in “Iride”, XXV, n. 65,

aprile 2012, pp. 135-142.

17 Cfr. E. Grassi, Vico e l’umanesimo, introduzione all’edizione italiana di A. Verri, prefazione di D. Ph. Verene, Guerini, Milano 1992, p. 28.

18 Ivi, p.33.

19 Una recente interpretazione del ruolo importante avuto da Grassi nel ripensamen-to di una prospettiva umanistica è quella del fi losofo spagnolo J.M. Sevilla,

Pro-legómenos para una critica de la razón problemática. Motivos en Vico y Ortega,

presentación de E. Hidalgo Serna, Anthropos, Barcelona, 2011. In particolare cfr. il cap. III, Retórica como fi losofía. Vico, Heidegger, Grassi y el problema del

humanismo retórico, pp.146 e ss. Nella prospettiva dell’umanismo retorico non

metafi sico, «la fi lologia non viene abbassata a un rango inferiore epistemico, né la retorica si trova ad essere relegata a una dimensione ornamentale del linguaggio, ma anzi conquistano il grado di fi losofi a». Così, il progetto grassiano è teso a riscattare il valore della retorica per la fi losofi a. Questo percorso implica «una interpretazione dell’ermeneutica umanista (ossia della comprensione e interpre-tazione della realtà fondata nella “parola”, vale a dire di una retorica fi losofi ca), che non può ovviare, a sua volta, un’argomentazione tra interpretazione e retorica. Questa rivalutazione disintegra l’immagine (affi data alla Lettera sull’umanismo di Heidegger) che rinserra l’umanesimo dentro il perimetro storico di un antro-pologismo idealista» Al libro di Sevilla rinviamo anche per la bibliografi a critica su Grassi. Sul tema cfr. P. Carravetta, Retorica ed ermeneutica. Il contributo di

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una interpretazione dell’umanesimo retorico inteso non più come elemento ornamentale del discorso e della stessa fi lologia assunta nel suo signifi cato ampio di storia della cultura. La retorica20 diventa, nell’itinerario fi

loso-fi co di Grassi, un nuovo, radicale metodo della rifl essione loso-fi losoloso-fi ca che, grazie ai principi della Scienza nuova di Vico, mette in discussione la tesi «che l’essenza della fi losofi a si riduca esclusivamente al processo razionale deduttivo»21. Lungo questo tragitto, Grassi era destinato a scontrarsi – come

si è visto – con l’interpretazione riduttiva che dell’umanesimo aveva dato il

Philology as Philosophy. The Sources of Ernesto Grassi’s postmodern Humanism from Vico’s Scienza Nuova to Contemporary Neohumanism, in “Annali di

Italia-nistica”, XXVI, 2008, pp. 223-248 Cfr. inoltre J. Sánchez Espillaque, Ernesto

Grassi y la fi losofía del humanismo, presentazione di E. Hidalgo Serna, Biblioteca

Viquiana, Fénix, Sevilla, 2010.

20 Cfr. a tal proposito E. Grassi, Retorica come fi losofi a. La tradizione umanistica (ed. originale Rhetoric as Philosophy. The Humanist Tradition, The Pennsylvania State University Press, 1980), tr. it. di R. Moroni, a cura di M. Marassi, La Città del Sole, Napoli, 1999. Grassi – come ben argomenta Marassi nella sua intro-duzione – muove dal riconoscimento dell’alternativa tra linguaggio razionale e linguaggio metaforico, ma non nel senso di una astratta contrapposizione, ma in quello più complesso di diverse modalità «con cui la modernità intende compren-dere e progettare se stessa» (ivi, pp. 15 e ss.). Avendo come punto di riferimento proprio Vico, Grassi individua nel linguaggio retorico quella forma del sapere (altrettanto fondativa della modernità come quella del linguaggio razionale) che non è meramente dimostrativo-deduttiva, ma inventivo-immaginativa. A conclu-sione di un altro suo importante libro (Potenza dell’immagine. Rivalutazione della

retorica, Guerini, Milano, 1989, p. 261), Grassi così scrive: «Il rovesciamento

della fi losofi a, la rivoluzione copernicana, non ha avuto luogo né con Descartes né con Kant, ma con l’Umanesimo italiano. Ma le conseguenze che derivano dalla nuova valutazione della fantasia, dell’ingenium, della preminenza dell’immagine, possono essere discusse solo sulla base di un’ulteriore ricerca sull’essenza della tradizione umanistica italiana». Sull’interpretazione della fi losofi a dell’umanesimo, anche e soprattutto a partire dal confronto con Heidegger, cfr. E. Grassi, La fi

-losofi a dell’umanesimo. Un problema epocale (ed originale tedesca Einführung in philosophischen Probleme des Humanismus, Wissenschaftliche Buchgesellschaft,

Darmstadt, 1986) a cura di A. Trione, premessa di L. Rossi, Tempi Moderni, Na-poli, 1988. Rinvio anche alla postfazione di M. Marassi, Retorica, storicità ed

umanesimo. Cfr. inoltre R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, presentazione di E. Mattioli,

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suo maestro Heidegger nel famoso Brief über den Humanismus22. Ciò che

la fi losofi a umanistica mette in gioco non è solo una mera visione antropo-centrica della realtà e della vita e, dunque essenzialista e poco attenta alla genesi e alla vera temporalità dell’Essere, ma un nuovo modo di pensare fi losofi camente il mondo, con l’ausilio della retorica e della fi lologia. Il processo della vichiana metafi sica della mente umana attiva un procedi-mento di rinveniprocedi-mento (topico) della genesi delle cose nelle modifi cazioni della mente e questo procedimento «presuppone inevitabilmente un’altra attività, quella dell’”invenire”, che lo precede. Vico identifi ca la dottrina dell’invenzione con la fi losofi a topica»23. La centralità dell’ingegno, la

pre-valenza accordata alla parola metaforica e alla fantasia, rimettono in primo piano uno dei passaggi fondamentali della tradizione umanistica, quello della comprensione e dello studio della parola nell’alleanza tra retorica e fi lologia. «Il pensiero umanistico – scrive Grassi – si è costantemente pre-occupato dell’unità di res et verba, di contenuto e forma, che una volta di-sgiunti non potranno mai più venire riuniti. Se si ammette solo l’elemento razionale come contenuto del nostro eloquio, non sarà più possibile dare a esso una “forma” che scuota gli animi: sempre più la fi losofi a rimarrà nelle zone obliate della storia»24. L’evento fi losofi co basilare della distinzione tra

vero e verosimile è ciò che maggiormente caratterizza la tradizione

uma-nistica, e non soltanto in riferimento all’esperienza poetica e letteraria, ma anche e soprattutto per ciò che riguarda la «rifl essione sull’essenza dell’at-to politico e il fi orire della tradizione giuridica»25. L’allievo di Heidegger

non rinuncia all’idea del “disvelamento” della parola originaria dell’Es-sere, e dunque va al di là del mero segno antropologico. Solo che questo oltrepassamento mette in gioco non solo la mossa originaria della parola poetica, ma anche il mondo umano storico in cui essa nasce e si evolve. Anche Vico – sostiene Grassi – ragiona di Lichtung e di disvelamento, ma lungo una direzione che non è assimilabile alla tesi di Heidegger. «Per

22 Cfr. E. Grassi, L’umanesimo italiano e la tesi di Heidegger della fi ne della fi

lo-sofi a, in Vico e l’umanesimo, cit., pp. 113 e ss. L’esordio dell’argomentazione

grassiana appare sin da subito come una netta presa di distanza dalle tesi di Hei-degger. «Ci si deve accostare all’Umanesimo dal punto di vista del suo signifi cato e della sua importanza fi losofi ca odierna. Altrimenti la ricerca umanistica non ha alcun interesse fondamentale». Ma l’obiettivo polemico non è solo Heidegger, dal momento che «la presente situazione comporta la consapevolezza, da parte della fi losofi a, di essere giunta alla fi ne, in quanto metafi sica, e precisamente nel modo proposto dalla logica formale».

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Vico è la parola fantastica che dà origine al mondo dell’ “esserci” umano. La parola poetica è il tentativo originale e unicamente umano di conferire signifi cato allo spaventoso potere dell’essere che si rivela in ciò che è. Solo col tentativo di conquistare questo potere può sorgere il mondo storico»26.

È proprio questo il motivo della diversa visione che Vico propone dell’ori-gine poetica e linguistica dell’umano. È la sapienza poetica, la verità origi-naria dei primi popoli, l’oggetto a un tempo della fi losofi a e della fi lologia e non la verità astratta e ragionata che promana dalla boria dei dotti.

5. Si delinea e si perfeziona, sul piano del metodo come su quello del-la sua ricostruzione storica, un’idea deldel-la fi lologia come scienza storico-critica. Ed è un grande fi lologo come Auerbach a formulare una delle più convincenti defi nizioni storicistiche della storia nel suo rapporto privile-giato con la fi lologia. «La storia è ciò che ci tocca più direttamente, ci coinvolge più profondamente e ci porta più insistentemente alla coscienza di noi stessi, perché costituisce l’unico oggetto di studio in cui gli uomini si presentano davanti a noi nella loro interezza. [...] La storia interna degli ultimi millenni, oggetto della fi lologia in quanto disciplina storicistica, è la storia dell’umanità giunta a un’espressione propria»27. Ho discusso ed

approfondito in mie pagine dedicate al tema del rapporto tra verità e fi lo-logia28 l’intelligente utilizzazione che Auerbach compie della defi nizione

goethiana di Weltliteratur. Essa serve a capire una delle trasformazioni più radicali del moderno: il restringersi dello spazio della letteratura mondiale e la progressiva perdita del carattere di molteplicità del mondo. Il rinnovato appello alla funzione della Weltliteratur fa, però, che si colga quel positivo e particolare aspetto dell’umanità: «la fecondazione reciproca del moltepli-ce; suo presupposto è la felix culpa della frammentazione dell’umanità in una moltitudine di culture»29. Secondo Auerbach, la fi lologia è una

disci-plina innanzitutto interpretativa, capace di connettere lo sguardo sul dato singolo, sull’evento isolato, sul testo particolare con la visione più ampia offerta dalla prospettiva sulla realtà propria di ogni età storica. Il sapere fi lologico assunse consapevolezza teorico-critica nel momento in cui non si limitò alla raccolta e alla selezione dei materiali trovati, ma si impegnò alla «sua penetrazione e utilizzazione per una storia interna dell’umanità, volta

26 Ivi.

27 E. Auerbach, Filologia e letteratura mondiale, a cura di E. Salvaneschi e S.

Endri-ghi, Book Editore, Castelmaggiore, 2006, pp. 37-39. 28 Vedi il saggio citato alla nota 4.

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ad acquisire una nozione dell’uomo unitaria nella sua molteplicità»30. Si

profi la, dunque, anche per Auerbach, una visione attiva e propositiva della fi lologia, vera e propria scienza storico-etica della modernità. «All’inter-no della realtà del mondo, la storia è ciò che ci tocca più direttamente, ci coinvolge più profondamente e ci porta più insistentemente alla coscienza di noi stessi, perché costituisce l’unico oggetto di studio in cui gli uomini si presentano davanti a noi nella loro interezza: e per oggetto della storia, in questo contesto, non si intende solo il passato, bensì il procedere degli eventi in generale, inclusivo, quindi, di ciò che, volta per volta, è presente. La storia interna degli ultimi millenni, oggetto della fi lologia in quanto

disciplina storicistica31, è la storia dell’umanità giunta a una

espressio-ne propria. Essa contieespressio-ne i documenti della spinta potente e avventurosa grazie alla quale gli uomini prendono coscienza della loro condizione e realizzano le loro possibilità intrinseche»32. Quest’idea, come si è visto,

30 Ivi, p. 35.

31 Guido Mazzoni ha giustamente osservato, in un saggio di qualche anno fa, come Auerbach dia «al termine fi lologia un signifi cato che si richiama a Giambattista Vico. La fi lologia non è più una disciplina soltanto tecnica: essa fa parte del-la Geistesgeschichte, deldel-la rifl essione suldel-la storia interiore dell’uomo che trova la sua origine in ciò che Auerbach chiama la vera rivoluzione copernicana delle scienze dello spirito: lo storicismo». Con una scelta teorica non lontana dall’idea orteghiana di circostanza, Auerbach defi nisce prospettico il suo storicismo. Tut-tavia, la svolta copernicana dello storicismo non produce relativismo anarchico, dal momento che, ancora ispirandosi a Vico, «lo spirito umano può ritrovare se stesso dentro le sue modifi cazioni». Cfr. G. Mazzoni, Auerbach: une philosophie

de l’histoire, in P. Tortonese (a cura di), Erich Auerbach. La littérature en perspec-tive, Presse Sorbonne nouvelle 2009, p. 38. Di prospettivismo critico ispirato da

Vico a Auerbach, parla, nello stesso volume, anche Carlo Ginzburg, Tolérance et

commerce. Auerbach lit Voltaire, ivi, p. 119.

32 Auerbach, cit., pp. 37-39. Il corsivo è mio. Ma di Auerbach cfr. il fondamentale

Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo (1958),

Feltrinelli, Milano, 20073, pp. 26 e ss. Cfr. infi ne il ben noto saggio auerbachiano

La “scienza nuova” e l’idea di fi lologia (1936), sta in ID., San Francesco Dante Vico ed altri saggi di fi lologia romanza, cit., pp. 53-65. Il grande fi lologo tedesco

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derivava a Auerbach da Vico33 (che, non si dimentichi, egli aveva tradotto in

tedesco) e dalla sua teoria dell’unità dei cicli storici. La scienza fondata da Vico leggeva, ad esempio, i poemi omerici, non come se fossero stati scritti nel XVIII secolo, ma come il frutto dei tempi primitivi da cui scaturivano, l’età – la giovinezza dell’umanità – in cui metafora e poesia erano ancora utilizzate per comprendere e costruire la realtà.

6. Vengo ora all’ultimo momento di questa ideale critica della ragione storico-fi lologica che, partita da Vico e discussa da Grassi e Auerbach, toc-ca, da un lato, l’idea di fi lologia vivente elaborata da Gramsci e, dall’altro, quella di fi lologia come critica democratica pensata da Edward Said34.

Nel saggio Il ritorno alla fi lologia Said tematizza il nesso tra fi lologia e storia: la fi lologia è «il dettagliato e paziente esame delle parole stesse e delle strutture retoriche con le quali gli esseri umani usano il linguaggio, esseri umani che vivono nella storia»35. Qui Said rievoca anch’egli la

Scien-za nuova di Vico quale opera che «propugna una rivoluzione interpretativa

basata su una sorta di eroismo fi lologico»36. Sulla base del suo attivismo

politico e sociale Said sostiene che gli uomini in tutto il mondo possono essere mossi, e di fatto lo sono, da ideali di giustizia e di uguaglianza, alla cui base vi sono quegli ideali umanistici di libertà e cultura che possono ancora svolgere un ruolo vitale e positivo. Ma qui non si tratta soltanto di una petizione ideologica. Ciò che consegue dalle posizioni di Said in difesa dell’umanesimo ha una forte rilevanza teoretica. Si può, infatti, accogliere la critica al fondazionalismo ed utilizzare l’utile analisi della linguisticità in cui si manifestano gli eventi. E, tuttavia, sono da respingere le

dichiara-33 Su Auerbach e Vico restano ancora preziosi gli spunti interpretativi offerti da F. Tessitore, Su Auerbach e Vico, in “Bollettino del Centro di Sudi Vichiani”, II, 1972, pp. 81-88. Tessitore, tra l’altro, discute anche il saggio di D. Della Terza,

Auerbach e Vico, in Critica e storia letteraria. Studi offerti a M. Fubini, Padova

1970, pp. 820-841. Tessitore mette opportunamente in luce la lettura storicistica di Auerbach, nella linea però non dello storicismo crociano, quanto piuttosto di quello critico e problematico di Troeltsch e di Meinecke. Ma Auerbach giunge, secondo Tessitore, ad una originale proposta di relazione tra «storicismo prospet-tico e fi lologia (…) dove fi lologia è scienza dei parprospet-ticolari che non smarrisce la capacità di valutare e giudicare nell’hic et nunc di ogni esistenza da cui sono fatte le opere da interpretare» (cit., p. 87).

34 Utilizzo qui parzialmente alcune mie pagine già apparse in Verità e fi lologia.

Pro-legomeni ad una teoria critico-storicistica del neoumanesimo, cit.

35 E. Said, Umanesimo e critica democratica, Milano, il Saggiatore, 2007, p. 87.

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zioni di morte del soggetto e le improponibili tesi sulla storia senza sogget-to o sulla fi ne stessa della ssogget-toria. Sono proprio il signifi casogget-to e l’effetsogget-to della storicità dell’agire umano a dimostrare che ogni mutamento appartiene alla storia, è la storia, storia delle azioni umane che, da un lato, dà senso alla storia stessa e, dall’altro, costituisce la base metodica ed epistemologica delle discipline umanistiche.

La tesi centrale di Umanesimo e critica democratica può così riassumer-si: si può criticare l’umanesimo solo in nome dell’umanesimo. Anche i peg-giori esempi di teoria e pratica di eurocentrismo e di imperialismo hanno spesso fatto leva sulle “radici” umanistiche (e talvolta cristiane, purtroppo) della civiltà occidentale. Per questo occorre, secondo Said, un approccio umanistico alternativo, che abbia tra i suoi fondamenti il cosmopolitismo democratico e un’idea della fi lologia come scienza storico-umanistica dei testi, dei contesti culturali, dei linguaggi plurali delle diverse culture, tutte da porre su un medesimo piano di dignità e di valore. Per sostenere queste tesi Said si appoggia come già si è detto – a due grandi fi gure di fi losofi e fi lologi: Vico e Auerbach. Il richiamo a Vico signifi ca andare alla radice originaria della rivoluzione umanistica: «nel cuore dell’umanesimo si trova la convinzione, laica, che il mondo storico è fatto dagli uomini e dalle don-ne, e non da Dio, e che può essere compreso razionalmente secondo i prin-cipi formulati da Vico nella Scienza nuova»37. Said mette in luce non solo il

ben noto nesso gnoseologico e metafi sico verum/factum (sapere equivale a vedere una cosa dal punto di vista di chi l’ha fatta) ma dà rilievo anche alla straordinaria concezione vichiana di sapienza poetica. Vico è consapevole della possibilità logica e gnoseologica di una “razionalità altra”, di una for-ma di conoscenza storica che può essere favorita soltanto dalla fi lologia, di un sapere, ma anche della ricerca della verità, che non sono soltanto mera accumulazione di fatti e nozioni, ma creatività e produttività dell’essere storico dell’uomo. L’orientamento teorico che emerge dalla lettura saidia-na di Vico è l’idea di usaidia-na conoscenza umanistica le cui radici stanno nel pensiero primitivo, nella originaria sensibilità corporea, che si esprime in linguaggio poetico e in universali fantastici. Vico ha dunque intuito che nel mondo umano «c’è sempre qualcosa con cui occorre confrontarsi [...] che si pone al di là e al di fuori del mero senso logico»38. La conoscenza umana

è segnata da una costitutiva fallibilità, da una provvisorietà, che imprime sull’umanesimo vichiano e post-vichiano non il marchio della certezza e

37 Ivi, p. 40.

38 E. Said, Vico e la disciplina dei corpi e dei testi, in Nel segno dell’esilio, cit., p.

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della verità assolute o dell’essenzialismo, ma quello di un’originaria im-perfezione e di una costitutiva plurale fi nitudine, fi no a prefi gurare, senza con ciò istituire fi n troppo meccanici precursorismi, le linee di un possibile neoumanesimo. Oggi come non mai, ad esempio, l’umanesimo va inteso in un’ottica democratica, aperto a tutte le classi e a tutte le provenienze, come un processo in fi eri di scoperta della verità e, al contempo, di autocritica: «l’umanesimo – si spinge a dire Said – è critica, critica diretta allo stato attuale delle cose, fuori e dentro l’università [...] e che trae la sua forza e la sua rilevanza dal proprio carattere, secolare e aperto»39. Sostenendo

che l’attività umanistica e la pratica di una cittadinanza partecipativa non si escludono a vicenda, Said pensa che lo scopo degli studi umanistici è riuscire a far passare ogni cosa attraverso il fi ltro dell’indagine critica: si tratta di sottoporre a questo esame tanto il frutto delle energie e del lavo-ro umani tesi alla diffusione della cultura, quanto i fraintendimenti e le interpretazioni errate del passato e del presente collettivo. L’umanesimo è allora «l’esercizio delle facoltà di ognuno, attraverso il linguaggio, per capire, reinterpretare e cimentarsi con i prodotti della lingua nella storia, in altre lingue e in altre storie»; esso è «un mezzo per interrogare, mettere in discussione e riformulare ciò che ci viene presentato sotto forma di certez-ze già mercifi cate, impacchettate, epurate da ogni elemento controverso e acriticamente codifi cate. Incluse quelle contenute nei capolavori archivia-ti sotto la rubrica “classici”»40. Se c’è un’essenza dell’umanesimo, essa,

secondo Said, consiste nel guardare alla storia umana come un processo ininterrotto di autocomprensione e autorealizzazione che non investe solo noi, maschi, europei e americani, ma tutti, l’intera umanità.

L’idea di tenere insieme in un unico plesso storiografi co e teorico tanto Il rapporto tra fi lologia e critica democratica quanto autori così apparen-temente distanti – Vico, Grassi, Auerbach, Gramsci – mi è stata suggerita dalle pagine di Edward Said di Umanesimo e critica democratica. In modo particolare mi ha colpito l’intelligenza ermeneutica ed etico-politica con la quale Said rilegge il concetto gramsciano di Filologia vivente. Così, si possono leggere, nei Quaderni del carcere, passi che ci aiutano a capire il nesso tra fi lologia e critica politica. Gramsci invita a guardarsi da una sto-ria che faccia violenza ai testi, che manipoli il passato e sovverta l’ordine dei valori. Perciò la fi lologia è vivente, nel senso che il rigore fi lologico, il rispetto della verità, l’aderenza ai testi e alle testimonianze ci aiutano a guardare obiettivamente al passato. Sul piano teorico la fi lologia vivente

si-39 E. Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 51.

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gnifi ca l’acquisizione di uno dei principali motivi del materialismo storico: il rifi uto di una concezione eterna, fi ssa ed immutabile della natura uma-na e l’idea, invece, che la uma-natura dell’uomo è condiziouma-nata storicamente e che dunque ogni fatto storico deve essere accertabile con il metodo della fi lologia e della critica. Non deve allora stupire che Gramsci individui nel marxismo – con una movenza che anche Said avrebbe adottato – non solo la fi losofi a della rivoluzione, non solo la critica dell’economia politica, ma anche una vera e propria “fi lologia della storia e della politica”. La fi

lolo-gia vivente, per Gramsci come per Said, è “l’espressione metodologica dei

fatti particolari”, delle “individualità defi nite e precisate”. Nel Quaderno 16, § 341, Gramsci sostiene che occorre sottoporre alcune tendenze della

fi losofi a della prassi allo stesso tipo di critica che lo storicismo moderno ha rivolto alla vetusta fi lologia (come del resto al vecchio metodo storico). Il genere di fi lologia e di metodo storico a cui si riferisce Gramsci si erano cristallizzati in forme ingenue di dogmatismo e sostituivano l’interpreta-zione e la ricostrul’interpreta-zione storica con la descril’interpreta-zione esteriore e l’elencal’interpreta-zione delle fonti grezze spesso accumulate in modo disordinato e incoerente. Nel Quaderno 7, § 642, dove appare l’espressione «fi lologia vivente», si legge

che «l’esperienza del materialismo storico è la storia stessa, lo studio dei fatti particolari, la “fi lologia”». Qui Gramsci contrappone il metodo fi lolo-gico al metodo statistico, mutuato dalle scienze naturali. «La “fi lologia” è l’espressione metodologica dell’importanza dei fatti particolari intesi come “individualità” defi nite e precisate». Il metodo della statistica, invece, noto come metodo dei grandi numeri, non contempla il particolare nella sua in-dividualità e tende a considerare l’ambito della politica e della storia come statico e riducibile a leggi generali. In realtà la legge dei “grandi numeri” può essere applicata alla storia e alla politica solo fi no a quando le masse sono ritenute passive in rapporto alle questioni che interessano lo storico e il politico. Rispetto a tale «incitamento alla pigrizia mentale e alla su-perfi cialità programmatica», l’azione politica tende a far uscire le grandi moltitudini dalla passività e dunque a smantellare la legge statistica. Que-ste considerazioni tornano nel Quaderno 11, § 2543, dove Gramsci intende

allargare la sfera della fi lologia rispetto a come è intesa generalmente: «la fi lologia è l’espressione metodologica dell’importanza che i fatti partico-lari siano accertati e precisati nella loro inconfondibile “individualità”».

41 A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975,

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Qui il contesto è esplicitamente politico: Gramsci sta meditando sull’affer-marsi, nella funzione direttiva dell’arte politica, di organismi collettivi (i partiti) a detrimento di singoli individui, di capi individuali o carismatici. A riguardo Gramsci rileva che, con il consolidamento dei partiti di massa e il loro rapportarsi in modo organico alla vita economico-produttiva della massa stessa, si modifi ca la percezione dei sentimenti popolari. La cono-scenza e il giudizio di tali sentimenti non nasce più, come quando al vertice politico c’è un capo-interprete delle condizioni del popolo, da un’intuizio-ne combinata con leggi statistiche, cioè per via razionale e intellettuale, ma, nel caso degli organismi collettivi, avviene «per “compartecipazione attiva e consapevole”, per “con-passionalità”, per esperienza dei particolari immediati, per un sistema che si potrebbe dire di “fi lologia vivente” ». Gramsci così riafferma il convincimento che la fi lologia non sia un chiu-dersi dell’intellettuale nel mondo dei testi isolandosi dalle dinamiche vive del reale, ma possa valersi di un’accezione più ampia – l’aderire organica-mente ed empaticaorganica-mente alla vita più intima delle masse senza sacrifi care l’individualità alla generalità – che stimola un’idea e una pratica di cultura simbioticamente innestate nella sfera politica.

Già da qualche anno ho iniziato a indagare la possibilità di defi nire e sviluppare un plausibile modello teorico per una idea di umanesimo come

critica. Resto convinto che sia ampiamente plausibile un percorso

storico-critico che non si limita solo a un tentativo di riabilitazione storiografi ca e concettuale dell’umanesimo, ma intende riattivare quelle categorie della concezione storicistico-critica della realtà capaci di mettere in feconda ten-sione il neoumanesimo e la fi losofi a interculturale. Per questo ho utilizzato e discusso le posizioni di Said che si è sforzato di ridefi nire il ruolo stra-tegico che le Humanities oggi possono assumere, sia per una migliore e complessiva visione della crisi profonda, economica, sociale, culturale, che sta attraversando il mondo intero, sia per individuare ed affi nare strumenti concreti di intervento nella pratica educativa e formativa delle nuove gene-razioni, sia, infi ne, ed è il compito forse più ambizioso e per questo arduo, per riformulare l’idea della cultura umanistica come insostituibile terreno di fi oritura e di crescita dello spirito critico e democratico.

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forza e la sua rilevanza dal proprio carattere, secolare e aperto»44.

L’uma-nesimo critico, così, si presenta come la possibile, per così dire, interfaccia

teoretica di ogni pratica democratica. Questo signifi ca che gli studi uma-nistici e la loro difesa non sono da ritenere come una nostalgica battaglia di retroguardia e neanche possono ridursi a una pur importante funzione di apprendimento letterario, artistico e storico-fi lologico dell’eredità passata. Come affermava ancora Said, bisogna oltrepassare la contemplazione uma-nistica del classico e delle sue possibili ricadute sul contemporaneo (che pure è esercizio da non mettere nell’angolo). Gli studi umanistici devono piuttosto scoprire e perseguire una fi nalità ben precisa: applicare il metodo dell’indagine critica e storico-fi lologica al testo-mondo e al testo-società. Essi non solo potranno dar senso ed effi cacia ai contenuti dei saperi umani-stici e alla loro protezione e diffusione, ma dovranno costituire la premessa di una rinnovata “critica dell’ideologia” e dei suoi fraintendimenti, tanto del passato storicamente indagato, quanto del presente politicamente ed eticamente vissuto.

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KARL MARX

À L’ÉPREUVE DE LA GLOBALISATION

GEANTS, ATHEISME ET CAUSE DE SOI

En ces périodes de trouble pour l’humanité entière, je désire interroger les géants plus que les hommes. Je me réfère évidemment à l’approche du phénomène anthropologique par Giambattista Vico (1768-1744). Giambat-tista Vico ne pensait pas que l’homme moderne, rationnel et démocratique, épuise le phénomène humain. Il supposait que nos races tardives prove-naient de forces antiques surhumaines dont le mode de pensée était l’hal-lucination poétique et dont le principe de représentation du monde était l’invocation de dieux considérés comme les maîtres de l’avenir. Il remar-quait que l’élan initial de l’humanité était celui de la révolte contre le Dieu unique. Mais ce Dieu, selon son analyse, se serait servi de la démesure des titans originaires pour les sortir de leur propre inhumanité et les conduire à un avenir humain. Ainsi ces êtres difformes avaient en eux la capacité à croire au gouvernement du maître de foudre, qu’ils avaient nommé Jupiter. Jupiter les terrorisait, leur enseignait à ordonner leur esprit par ses lois, modifi ait leur conduite impie par la règle même de leur superstition. Plus tard, toujours selon le même auteur, avec l’âge de la Mathesis cartésienne le même processus s’est répété, mais cette fois au cœur des puissances de la raison: en Dieu les Cartésiens fondent leurs principes, clarifi ent la logi-que de leur représentation et fondent les principes de leur morale et de leur politique.

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L’orgueil de l’intelligence porte les esprits à l’athéisme par quoi les athées deviennent des géants de l’esprit, qui doivent répéter avec Horace: «Nous as-saillons le ciel avec notre folie»1.

Le monde contemporain, j’en suis persuadé, s’est constitué sur le dou-ble oubli de ces puissances gigantesques, celles des géants pieux de la su-perstition, comme celles des géants de l’esprit. Aujourd’hui, je voudrais interroger un géant parmi les géants de l’esprit et lui demander, face aux illusions des humanismes contemporains, quel jugement sa puissance porte sur notre faiblesse et sa dureté sur notre vulnérabilité. Il n’est que trop clair que l’œuvre divinatoire de Marx à laquelle je pense ici est un poème de transgression et de violence. Elle ne saurait entrer dans les formes de l’hu-manisme désiré par les hommes justes. Elle favorise le déchaînement du non-sens né de la révolte et de la guerre contre les dieux. Mais la puissance est là. Elle impose son ordre: dans la détresse des voies contemporaines de l’humanisme, il n’est pas négligeable de bénéfi cier des jugements d’un maître de l’anti-humanisme.

Après Spinoza dénoncé en son temps par Vico, Marx règne au pays des «géants de l’esprit». Mais quelle est sa force? Cette force a d’abord eu un visage de destruction inouïe, mais l’histoire en a été le juge. Reste la textualité de Marx, l’intelligence fulgurante qui traverse les manuscrits comme les œuvres publiées, le messianisme irrépressible de cette révo-lution millénaire toujours retardée et toujours recommencée, la radicalité d’un concept qui consonne comme aucun avec la réalité de notre temps, même si c’est à travers une textualité éparse et souvent dépareillée. Le Marx de la lettre viendrait-il au secours du Marx de l’esprit? La force de Marx, c’est son livre. Mais que peut un livre?

Un livre est une volonté qui instaure un ordre qui ne dépend que de lui. Fichte donne la formule d’une telle volonté en reconnaissant en elle «une connaissance que je ne trouve dans mon for intérieur que comme un fait et qui ne peut parvenir à moi par aucune autre voie2.»Marx est ce

philoso-phe qui a compris que le fait de la volonté conforme à une loi rationnelle dépendait à son tour d’un ordre encore plus impérieux et absolu que l’ordre suprasensible. Cet ordre, c’est celui de l’argent. Il a prêté sa voix à cette

1 G.Vico, Scienza nuova, éd. Battistini, § 502.

2 L’auteur continue: «C’est exclusivement en considérant ainsi ma volonté que je suis rapporté à un ordre suprasensible, dans lequel la volonté est cause purement par elle-même, sans aucun instrument situé hors d’elle, dans une sphère semblable à elle, une sphère purement spirituelle, qu’elle pénètre de part en part. », La

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puissance et il a écrit le Capital. Il a su reconnaître l’acte de foi par lequel l’argent ne cesse de s’engager envers lui-même : «Tu seras cause de toi-même». Telle est la promesse suprême que l’argent scelle avec lui-même et le livre enregistre cette promesse comme l’œuvre même de la loi.

Après Fichte, et dans des conditions renversées, comme sont inversés les rapports de l’esprit et de l’or, Marx a su accorder sa pensée à ce qui s’impo-se ainsi comme une Caus’impo-se de soi. Descartes en avait donné la formule ab-solue: de même que je ne peux penser une montagne sans vallée, de même je ne peux penser Dieu sans qu’il existe, et par là il est cause de soi. Mais Marx ajoute: je ne peux davantage penser l’argent sans qu’il devienne ca-pital. Dès lors, Causa sui est devenu le nom le plus intérieur du Caca-pital. Le Capital ne s’est rendu intelligible à lui-même que parce qu’il s’est reconnu Cause de soi. C’est pourquoi il est un visage suffi sant de Dieu. Nous avons déjà vu comme Marx le soutient avec une audace qui force l’admiration. Il est temps de relire cet acquis considérable avec cette lucidité nouvelle:

Maintenant la valeur se présente tout à coup comme une substance motri-ce d’elle-même, et pour laquelle marchandise et argent ne sont que de pures formes. Bien plus, au lieu de représenter des rapports entre marchandises, elle entre, pour ainsi dire, en rapport privé avec soi-même. Elle distingue en soi sa valeur primitive et sa plus-value, de la même façon que Dieu distingue en sa personne le père et le fi ls, et que tous les deux ne font qu’un et sont du même âge car ce n’est que par la plus-value de 10 £ que les 100 premières £ avancées deviennent capital; et dès que cela est accompli, dès que le fi ls a été engendré par le père et réciproquement, toute différence s’évanouit et il n’y a plus qu’un seul être: 110 £.

La valeur devient donc valeur progressive, argent toujours bourgeonnant, poussant, et comme tel capital3.

La thèse tire toute sa force du dépassement direct de l’analyse des «cent thalers»par Kant. Kant croyait en fi nir avec la puissance spéculative de la preuve ontologique par la différence entre l’idée de l’argent et la réalité de l’argent. Mais ce n’est pas la métaphysique qui enseigne la vérité à l’argent, mais l’argent à la métaphysique. Marx montre à Kant que l’argent donne raison à la preuve ontologique et confi rme le chef-d’œuvre de la rai-son humaine en devenant la première attestation d’une puissance illimitée de création. On pouvait bien croire que Marx était parti à la recherche d’un simple humanisme critique, mais voici que la Causa sui vient se

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poser à sa quête de libération et transforme soudain en philosophie de la substance nécessaire la naïveté des hypothèses militantes initiales.

Ce tournant est le génie du marxisme et aucun sauvetage entrepris pour réhabiliter son œuvre n’a cette ampleur. La Causa sui est l’entrée de l’on-tologie dans la critique de l’économie politique. La Causa sui est l’organe de toute critique de la critique: procédant en droite ligne de Descartes, voici qu’elle transforme en système universel les avancées les plus auda-cieuses de la théologie spéculative. L’argent a la puissance de s’engendrer lui-même et transforme aussitôt l’histoire en un syllogisme spéculatif réel. Mais la vie de la matière n’est pas cause de soi par ses propres formes, elle ne l’est que par une identité de l’essence et de l’existence qui contrevient à toutes les réalités physiques. C’est pourquoi toutes les critiques sociales cèdent devant la critique de l’argent. Mais l’argent est plus qu’un instru-ment critique, il est une Trinité qui engendre. C’est par la Trinité que Marx devient un philosophe. L’or exige le culte jusqu’à ces extrémités.

Les Manuscrits de 1844, qui ne sont souvent qu’un commentaire criti-que linéaire de l’Encyclopédie hégélienne, vantent une pensée capable de se libérer de ses propres abstractions pour accéder enfi n au concret. Hegel est partiellement crédité de ce mouvement: Hegel est celui qui perçoit la nécessité de ce passage, mais fi nit toujours par préférer une abstraction de rang plus élevé à l’abstraction surmontée. Marx appelle alors l’humanité à un passage défi nitif au concret, c’est-à-dire à la fi n des illusions de la con-templation, et fi nalement à la délivrance des formes dépassées de l’huma-nisation aliénée. Seulement quand ce concret est venu, quel était-il sinon le fruit de la plus puissante des abstractions, la Cause de soi et la preuve on-tologique dont elle est la formulation laïcisée (saint Thomas refusait l’une et l’autre). Le concret est ainsi revenu chargé des sortilèges de l’abstraction la plus haute et Marx est devenu métaphysicien à l’instant même où il s’est voué aux moindres variations de l’être social et empirique.

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élu le christianisme pour religion manifeste. Mais Hegel, maître des passa-ges logiques, avait encore surestimé l’Occident en supposant que le savoir absolu résulterait de la maîtrise de l’idée logique. Il fallait sonder plus loin l’abstraction et retrouver une foi plus profonde et une vérité plus délivrée de tout référence: et ce fut l’heure de la Plus-Value et de la foi dans le mar-ché. Le catéchisme n’avait pas suffi , il fallait passer à l’heure de la bourse. Marx a osé cette extravagance et il a gagné. Et c’est lui qui écrit, toujours dans le même passage lumineux:

Le capitaliste sait fort bien que toutes les marchandises, quelles que soient leur apparence et leur odeur, sont «dans la foi et dans la vérité» de l’argent, et de plus des instruments merveilleux pour faire de l’argent4.

La version allemande, plus crûment, et plus précisément écrivait: «des Juifs à l’âme circoncise». Marx arrive au sommet de son pouvoir lorsqu’il ose entrer dans les abstractions du catéchisme. Le concret social lui va mal, contrairement à ce qu’un matérialisme de simple accumulation lui ensei-gne. Qu’il entrevoie l’idée la plus éthérée, qu’il se supporte un seul instant contemplatif, ou mieux encore qu’il se laisse aller à un éclair de théologie, il est sur le champ invincible. Il devient aussitôt le docteur commun de l’Eglise des non-sens dans laquelle se complait la civilisations marchande. Nouveau Moïse il formule la Table de la loi des nihilismes, nouveau saint Pierre il décline le credo du capital.

Marx se croyait militant du concret et il a failli passer à côté de son génie. Mais parce qu’il était assez fl exible pour se soumettre aux lois constitutives de son objet, il a ouvert la voie qui conduisait à l’ontologie de l’irréalité et il est devenu notre maître. Il était tellement le confi dent de ses fétiches qu’il n’a su faire moins que de quitter les pesantes analyses des rapports de production pour livrer l’humanité entière à la plus incroyable des ab-stractions, le communisme lui-même. Jamais son pouvoir métaphysique, peut-être son pouvoir religieux et chrétien, n’est arrivé à une pareille ivres-se contemplative que lorsqu’il a décrété que l’histoire brutale dont il était l’analyste le plus crû portait en son sein l’espérance communiste. Plus que le cynisme du dandy ou la naïveté du collégien, il faut dénoncer ici une affi nité supérieure avec les abstractions, le génie naturel du fétichisme, un platonisme magique dans sa phase incandescente, à côté de laquelle les théurgies de Jamblique semblent des essais de sacristie. Marx le concret est devenu l’Enchanteur des irréalités proclamées et il a entraîné avec lui

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