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Due operazioni traduttive a confronto: M A Salvà e J M López-Picó Una delle prime traduzioni di Pascoli che la Salvà realizzò e pubbli-

147El petit somni (Il sonnellino), La bicicleta (La bicicletta), El retorn de les vaques

III. Due operazioni traduttive a confronto: M A Salvà e J M López-Picó Una delle prime traduzioni di Pascoli che la Salvà realizzò e pubbli-

cò fu Amb els àngels (Con gli angioli), secondo componimento della serie

Dolcezze della raccolta Myricae, già inclusa nella sua terza edizione, del

che la Salvà conoscesse due edizioni diverse dei Canti, quella del 1910 e quella del 1914, per cui, siamo dell’opinione che solo usò quella del 1914, la quale conobbe molto tardi, come abbiamo visto sopra.

29 Citato da Arnado Colosanti in G. Pascoli, Tutte le poesie, a cura di A. Colosanti,

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1894. Questa traduzione ebbe una notevole fortuna, poiché fu più volte ripresa (con varianti), e pubblicata, per prima, insieme con altre poesie, nella serie Lírics Italians. Giovanni Pascoli su «La Revista» il 16 novembre 1919 (pp. 326-328); e in seguito anche sull’«Almanac de La Revista» del 1919 (p. 134). E, ovviamente, nell’edizione antologica del 2002 di cui ci siamo occupati sopra.

Di questo componimento esiste, però, anche una versione catalana di Josep Maria López-Picó, che fu pubblicata su «La Revista» nel 1928 sotto il titolo Música celestial, de Pascoli.30 Di queste due versioni catalane del componimento pascoliano Con gli angioli vogliamo occuparci in seguito.31 Il paragone fra le due operazioni traduttive, abbastanza vicine nel tempo (una pubblicata nel 1914 e l’altra nel 1928), ci illuminerà sulle riflessioni intorno alla traduzione poetica che ci ponevamo all’inizio di questo saggio.

La prima cosa che va notata è che tutt’e due i traduttori offrono una traduzione in verso dell’originale, che consiste in un’ottava siciliana di endecasillabi secondo lo schema AB AB AB AB. Le caratteristiche di

30 Mª. J. lóPez-Picó, Música celestial, de Pascoli, in Exerciscis de geografia lírica. Com els

epigramas de l’Antologia, «La Revista», XIV, gennaio-giugno 1928, p. 53. Raccolto anche in Temes. Exercici de geografia lírica, Barcellona, Imprenta Altés, 1928, p. 70.

31 La versione di M. A. salvà (pubblicata nell’edizione del 2002) è la seguente:

Amb els àngels Eren en flor lilàs i olivelles; ella cosia son vestit d’esposa; encara no s’obrien les estrelles,

ni fulla de mimosa s’era closa; i ella va riure, oh negres oronelles, de sobte; mes amb qui? de quina cosa? Va riure... amb els àngels, amb aquelles

boirines d’or i de color de rosa. Ecco la versione di J.M. López-Picó:

Música celestial, de Pascoli Quan els lilàs havien tret florida

ella cosia el seu vestit d’esposa. Els rams d’estrelles eren flors de vida

damunt de la mimosa encara closa. Del vol de l’oreneta a l’embranzida ella rigué. Amb qui? de quina cosa? Reia amb els àngels, reia embadalida

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metro e rima del poema pascoliano si conservano in entrambi i casi. Ciò nonostante, i testi risultanti differiscono molto, anche se il poema è abba- stanza breve. Per primo, López-Picó si presenta non come “traduttore”, ma come “interprete” di Pascoli (come lui stesso sostiene), quando offre questa traduzione all’interno di una serie di versioni poetiche di più au- tori e anche più lingue (diverse dall’italiano), dal titolo, tanto indicativo:

Exercicis de geografia lírica, Com els epigrames de l’Antologia: esercizi poetici,

quindi, tratti da tradizioni liriche diverse, a seconda del gusto e degli interessi del traduttore. Il quale, nel presentarsi come “interprete”, punta su un’operazione traduttiva più libera e creativa: una riscrittura poetica, che gli permette di vendicare contemporaneamente una condizione non tanto secondaria, più autorale, nei confronti dell’originale. E in effetti, lo stesso titolo (Música celestial, de Pascoli, cioè Musica celestiale, di Pascoli) che López-Picó dà al componimento pascoliano da lui “interpretato” rende evidente la libertà con la quale il poema (del quale non si dà in nota né il titolo originale, né un minimo riferimento alla raccolta da dove proviene) verrà trattato in seguito.

Contrariamente, la versione della Salvà, presentata sotto il titolo, in traduzione letterale, Amb els àngels, è notevolmente molto più fedele al poema di Myricae. La sua traduzione presenta, infatti, pochi cambiamenti nei confronti dell’originale, com’è solito nella Salvà.32 Ci troviamo, è vero, le sue ricorrenti esitazioni in materia di punteggiatura: per esempio, nelle sue abituali trasformazioni dei due punti italiani in punto e virgola (v. 2, v. 4 o v. 6), o del punto e virgola in virgola (v. 7); e persino l’eliminazione del punto e virgola o della virgola in favore della costruzione copulativa (v. 5 e v. 8). Sono caratteristiche abituali della Salvà che si ripetono spesso nelle sue versioni pascoliane, a volte comportando cambiamenti importanti all’interno del poema, ma non in questo caso. L’unica alterazione rilevante dell’ordine delle parole in questa sua traduzione avviene fra i versi 5-6, quando trasferisce l’aggettivo “negres” (“nere”) al verso anteriore, collo- candolo in posizione di epiteto, alterando il ritmo del verso ed eliminando l’enjambement originale. Oltre a questo, ci sono altri piccoli cambiamenti: la soppressione di “l’aria” e di “bocci” (v. 3); del “così”, fra virgole, del v. 7, il quale viene sostituito dai punti sospensivi; l’inserimento di “color” al v. 8, che rende più esplicito il verso in modo innecessario; e la trasformazione

32 Si veda anche il mio saggio dove vengono analizzate in concreto queste traduzioni

pascoliane, in: A. camPs, Giovanni Pascoli hoy: la revisión de un clásico italiano a través de la traducción. XIV Congreso de la SEI (Murcia), in corso di stampa.

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libera delle “nuvole” in “boirines” nello stesso verso. Molto probabilmente l’aggiunta di “color de rosa”, che abbiamo commentato prima, ubbidisce al desiderio di rispettare la disposizione dei due membri dell’ultimo verso (non attraverso la virgola, ma con la copulativa, com’è abituale in lei). A nostro avviso, la soppressione più espressiva avviene fra i versi 3-4, quando elimina l’anafora (“né”). Ma, per il resto, possiamo dire che si tratta di una versione abbastanza felice, che si attiene fortemente al poema originale, pur rispettando il metro e la rima. E non a caso, fu una delle traduzioni della Salvà più pubblicate prima del manoscritto dell’antologia che la Salvà preparò nel 1941.

La situazione è completamente diversa nella versione di López-Picó dello stesso poema di Myricae, l’unico che lo scrittore tradusse di Pascoli per la serie che abbiamo accennato sopra. Oltre al titolo, che trasforma completamente il significato del poema originale e non ha nessun rap- porto con il contenuto del poema, l’“interprete” introduce cambiamenti di tutti i tipi nella sua versione: per esempio, altera la punteggiatura, sulla scia della Salvà; reinterpreta i versi 1 e 3; sopprime “ulivelle” del v. 1, l’a- nafora dei versi 3-4, il “così” fra virgole del v. 7, la ripetizione del verbo “rise” – che López-Picó trasferisce dal v. 5 al v.7, perdendo forza espressiva e trasformandolo in un imperfetto –, e l’enjambement esistente fra i versi 7-8. Ma, soprattutto, interpreta molto liberamente l’originale nei versi 1, 3, 4 e 8, fino al punto di esprimere proprio il contrario del componimento pascoliano (per esempio: in Pascoli, nel v. 4, non “s’era chiusa foglia di mimosa”, mentre che nella traduzione “la mimosa [era] encara closa”, cioè “era ancora chiusa”). Le alterazioni nella versione di López-Picò sono costanti, tranne che per quanto riguarda le caratteristiche di metro e rima del poema pascoliano, che si traducono fedelmente, confermando la condizione di esercizio poetico di questa traduzione, già manifestata dallo stesso López-Picó dal titolo.

Nelle due versioni si avverte che l’operazione intrapresa punta so- prattutto agli aspetti formali della poesia di Pascoli, in modo particolare, la rima e il metro. Ciò nonostante, mentre la traduzione della Salvà si attiene molto di più all’originale, quella di López-Picó si presenta come una versione molto libera dello stesso. Metro e rima sono, per la verità, il vero “contenuto” al quale questi si mostra assolutamente “fedele” nel suo “esercizio poetico”: quel tratto che il traduttore/interprete si sforza per preservare dell’originale.

All’inizio di questo saggio ci interrogavamo sulla condizione del tra- duttore: è colui che riscrive il testo di origine o è un intermediario; è un

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artista o uno che si eclissa per dare voce ad un altro? Dal confronto fra le due versioni di Con gli angioli di Pascoli analizzate, sorge non solo la costatazione di due letture alquanto diverse, anche se contemporanee, di questo poema, ma sorgono, soprattutto, due approcci diversi all’originale da parte del traduttore e, in fin dei conti, due nozioni diverse di intendere la traduzione poetica.

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F

elice

m

astroianni

moderno interPrete delle Favole antiche1

L’intera opera poetica di Felice Mastroianni respira originalmente l’atmosfera del mito dell’Ellade antica, della patria remota/del suo cuore (La favola di Eutichio: Tu Ellade, vv. 4-5), mito reso più suggestivo, e più moderno, dal profumo calamitante delle favole antiche del Leopardi, alle quali assegna, anche lui, il compito di renderci più sopportabile la soma

della vita, richiamata nel Cantico del gallo silvestre, o il male di vivere di mon-

taliana memoria.

Come per il suo Leopardi,2 anche per lui vissero i fiori e l’erbe,/vissero i

boschi un dì, e, riproponendo in chiave moderna le antiche immagini consa-

crate da una lunga e feconda tradizione umanistica, invoca, col Recanatese, la vaga natura a rendere la favilla antica al suo spirito (Alla primavera o delle

favole antiche, vv. 40-41, 90-91). A tale condizione dell’animo rispondono

perfettamente i titoli delle sue raccolte poetiche: L’arcata sul sereno (1963),

Favoloso è il vento (1965), Lucciole sul granturco (1965), Il vento dopo mezzodì

(1968), Il riso delle nàjadi (1971), Luna, santa luna (1974), e le sillogi in ne- ogreco Quaderno di un’estate (1975), Primavera (1977) e, con maggior forza,

La favola di Eutichio, uscita nel 1982, anno della sua morte, che si chiude

epigraficamente, e certo non casualmente, coi versi di Epilogo:

Qui finisce

- come un gioco, come un’illusione – il mio canto ellenico,

1 Conferenza tenuta a Lamezia Terme, il 10 aprile 2011, presso il Teatro Umberto,

organizzata dal Rotary Club lamentino e dall’Associazione Culturale ‘Felice Mastroianni’.

2 Si tenga presente il giovanile, interessante saggio, L’infinito leopardiano, edito nel

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il canto di ‘Eutichio’ (‘Eutichio’ mi chiamano i fratelli poeti greci). E verrà il vento

a cancellare la mia voce e la favola di ‘Eutichio’.

Eutichio è nome certamente caro al poeta. Evoca, com’è noto, stupendamente, il tema maliardo degli spiriti che, dalla Mastellaria di Plauto approdano nella pensosa farsa teatrale Eutichio e Sinforosa di Giovanni Gi- raud, nato a Roma nel 1776, da genitori francesi, morto a Napoli nel 1834, nella quale due poveri sposi sfidano gli spiriti pur di avere un ricovero.

In questa visione della vita, e dell’alternarsi delle vicende umane, Felice Mastroianni si ritrova, e fa suo, quanto Leopardi scriveva, da Recanati, il 6 marzo 1820, a Pietro Giordani: «Vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore».3

Tale humus, che riporta l’animo alla sua purezza ancestrale, rimane l’asse portante della parola poetica di Mastroianni. In tale direzione, segnano momenti centrali, che al lettore attento non possono sfuggire, alcuni componimenti delle singole raccolte: Mi cantano le fate del mio monte e La

‘centenaria’ de L’arcata sul sereno; Fiera a S. Bernardo, Pègaso e Scalzi musici silvani di Favoloso è il vento; Ho misurato gli anni, Mio paese di Platani e Con- sonanze di Lucciole nel granturco; Lavagna e Farfalle dell’Eden de Il vento dopo mezzodì; Parole alla luna e La lampada magica de Il riso delle Najadi; Parole ad Omero e Come un suono alto di vento di Luna, santa luna.

Certo, come egli ritiene opportuno precisare:

Forse i sogni e le fole

erano solo un dorato egoismo. Ma non sapremmo sorriderne senz’ombra d’amarezza.

(Favoloso è il vento: Pègaso, vv. 15-18).

Tuttavia, tali forti venature del caro immaginare non vanno intesi come perentorio rifiuto del presente pur doloroso e agro, come voce di

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un patetico laudator temporis acti, ma – ed è qui la sua ‘modernità’ – come imprescindibili radici della nostra identità, da tenere presenti sempre, per rendere più accettabili, se non godibili, le ragioni del nostro essere nel mon- do. E ripropone, in sostanza, elegantemente, ma significativamente, come accennavo, il motivo leopardiano degli ameni inganni e del caro immaginar.4

* * *

Fatta questa premessa – essenziale, a mio parere, per una lettura non rapsodica e svagata della sua opera poetica e letteraria – Mastroianni si cala decisamente nell’aria del suo e del nostro tempo. In tale direzione, dà certamente gli esiti più persuasivi e si colloca come una delle voci più autentiche della poesia europea del Novecento.

In una splendida ‘prosa lirica’, dal titolo Poeti ‘nuovi’, compresa nelle

Prose dell’antiquario, libretto di rara qualità evocativa e stilistica, esprime il

suo pensiero su ciò che debba intendersi per ‘poesia’, suggerendo, forse inconsapevolmente, e senza prescindere, naturalmente, dall’atmosfera del pensoso evocatore delle ‘favole antiche’, la chiave di lettura della sua produzione poetica:

La ‘novità’ della poesia, l’unica, è sempre la fortunata circostanza, ignota al poeta stesso nell’atto creativo, di dar voce cordiale e umana e sincera a certi sentimenti perenni, a certe esigenze spirituali, fuori d’ogni impostazione programmata e preventivata nei laboratori d’alchimìa editoriale e di calcolo commerciale. La ‘novità’, insomma, è dovuta al corrispondere d’una data poetica alle disinteressate ed eterne istanze del cuore, che nella poesia vera ha trovato sempre nei secoli l’approdo naturale.5

Cerchiamo, ora, di vedere quali sentimenti umani perenni, quali disinte-

ressate ed eterne istanze del cuore, lievitino la sua poesia, e, ciò che più conta,

con quale voce cordiale sappia esprimerli, perché possano calarsi nella mente e nel cuore di noi suoi lettori.

La mia prima lettura di alcuni suoi componimenti poetici risale al

4 Basti ricordare i vv. 110-115 di Al conte Carlo Pepoli: «Ben mille volte/ fortunato

colui che la caduca/virtù del caro immaginar non perde/ per volger d’anni; a cui serbare eterna/ la gioventù del cor diedero i fati». Ricorda anche i vv. 100-102 di Ad Angelo Mai e il v. 89 de Le ricordanze.

5 F. mastroianni, Poeti ‘nuovi’, in Prose dell’antiquario, Soveria Mannelli, Rubbettino,

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1974. Su suggerimento di due amici comuni, Alberto Frattini e Vittorio Vettori, m’aveva inviato, con una cordialissima lettera, un suo libretto di versi, Luna, santa luna. Era alla sua quinta, smilza raccolta. La prima, L’arcata

sul sereno, era uscita nel 1963. Non aveva avuto un rilevante pubblico di

lettori. Cosa quasi naturale per un poeta del Sud. Ma Mastroianni non accettava quell’indifferenza. Avevano espresso giudizi positivi poeti come Mario Luzi, nel 1968, in una stringata Prefazione alla raccolta Il vento dopo

mezzodì, e Vittorio Sereni, nel 1970, con una altrettanto sintetica Lettera- Prefazione a Il riso delle Najadi.

Luna, santa luna mi rivelava un poeta nuovo e originale. Ogni volta,

però, che torno a leggere i suoi versi mi accorgo che è poeta che sor- prende sempre, che ha sempre una cosa nuova da dire, un fascino speciale che ti prende e ti piega a ragionamenti profondi, appunto sui sentimenti

perenni, sulle disinteressate ed eterne istanze del cuore, di cui parlava nella pa-

gina ricordata.

A mio avviso, questa speciale area della nostra Calabria ha dato alla poe- sia del Novecento una triade eccezionale: Michele Pane, Felice Mastroianni e Franco Costabile. A costoro va aggiunto, non ultimo, Vittorio Butera.

Dobbiamo impegnarci tutti – a partire dalla scuola – a farli conoscere sempre meglio e a un pubblico sempre più vasto.

* * *

In un tempo convulso e frastornato come il nostro, votato alla retorica e alla prevaricazione, al vaneggiamento linguistico, alla parola mistificata ed equivoca, Felice Mastroianni offre, anzitutto, l’esempio di una poesia colloquiale, distesa, partecipe. In cima ai suoi pensieri è il desiderio di farsi capire, di scendere nei meandri più riposti del cuore dell’uomo. La sua parola è essenziale e lucida, originalmente fecondata da quella grecità che è una delle ragioni prepotenti e imprescindibili delle nostre radici. Mastroianni si amareggiava che anche i poeti della nostra terra a lui coevi si lasciavano prendere la mano dalla ventata delle cosiddette avanguardie, o si adagiavano su una retorica linguistica provinciale e stucchevole. Intuì allora che la prima operazione da realizzare era quella del rinnovamento linguistico, ch’egli vedeva possibile soltanto nel filtro che può operare un serio recupero della lingua materna, dell’essenzialità e del rigore semantico della lingua della madre ellenica. Era consapevole che fosse possibile, per quanto non facile, il recupero di una lingua autentica e rigorosa, anche invadendo – e lo fece prestigiosamente – il campo del dialetto.

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che intitolò Noterella sul poetare in dialetto, che premise in un manipolo di diciotto componimenti lirici nel parlato del suo paese natio, “il paesello dei platani”, dal titolo significativo ’U cantu ’ngola (Il canto in gola), apparso nel 2001.6 In perfetta sintonia con la linea tracciata da Graziadio Isaia Ascoli sul finire dell’Ottocento [il Proemio all’Archivio glottologico è del 1873], ri- badita, nel Novecento, da Giacomo Devoto, Benvenuto Terracini, e da altri eccellenti linguisti, Felice Mastroianni, con esemplare semplicità, scrisse:

Il poeta dialettale deve immaginare che ci siano sempre, ad ascoltarlo mentre legge i propri versi, degli uditori paesani che lo intendano, sorridano o si commuovano, si esaltino per una gioia sana e schietta, come di famiglia, scoprendo che la loro parlata è capace del miracolo della poesia. E ciò è meraviglioso, riporta il concetto di poesia al suo primitivo e genuino senso rituale.

Il poetare in dialetto richiede inoltre serenità d’animo e disposi- zione naturale al buon umore e, occorrendo, all’amenità.

[…]

Nella parlata natìa si può soddisfare più liberamente la necessità, ormai non avvertita che da pochissimi, di dar vita e forma al sentimento poetico, perché appunto quella può fornire un linguaggio il meno letterario, il meno adatto alle presuntuosità sperimentali, e, al contrario, il più vivo, il più immediato, il più naturale.7

Ne sono esito eccellente, ad esempio, liriche dal taglio epigrafico come

Semplicità e ’E fate ’e Riventinu: Quantu predicaturi àmu sintutu, cchi tturre de babele!

’A santa verità

dicìmula: ’e stu mundu s’é pirdutu ’u caru anticu mele

de tie, simplicità.

(’U cantu ’ngula: Simplicità). Dduv’eravu?... Era ssulu ’na ciotìa? Ma iu ve circu ancòre

6 F. mastroianni, ’U cantu ’ngola (Il canto in gola), Soveria Mannelli, Rubbettino,

2001. La cit. è a p. 9.

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ann’angulicchiu de l’anima mia, fate de Riventinu.

M’ammagàstivu ch’era nna criatùra e mmo ve pùartu cumu nu distìnu duce e amaru chi ’a vucca me ’nsapùra de nnucénza pirdùta

e dde malincunìa.

(Ivi: ’E fate ’e Riventinu).

Facendo corpo con questa raccolta di versi in dialetto platanese, me- ritano un cenno Le prose dell’antiquario, propedeutici, in qualche misura, per una puntuale interpretazione della sua poesia. Intanto, il poeta passa in rassegna, con brevi, incisivi giudizi critici, poeti e letterati che sente fraternamente consoni alla sua formazione e alla sua cognizione della Poesia: Manara Valgimigli, Pietro Pancrazi, Antonino Anile, Angelo Barile, Adriano Grande, Ettore Serra, Diego Valeri, e, naturalmente, Vittorio Sereni e Mario Luzi. In sintonia con le loro voci, esalta il dono salvifico della Poesia, sola capace di tramandare le memorie nei secoli avvenire. Scrive, in Bucolica:

Se fosse ancora possibile l’ingenuità del canto, se trovasse le vie del cuore l’umile poesia d’una piccola (grande, immensa come la tristezza) storia, come quella che voglio qui annotare, comporrei un ‘canto’ te- nero e triste che vivrebbe a lungo nei meriggi delle mie verdi vallate e si spegnerebbe con l’ultimo raggio del sole, e di padre in figlio lo ripeterebbero a lungo come una cara favola d’un tempo perduto.8 E in Il paese degli uomini sempre vivi:

Ogni paese del mondo può essere un paese d’uomini sempre vivi, ma a due condizioni: che, come nel mio, su ogni culla che dondola e su ogni bara si ripieghi, in sorriso o in pianto, il volto di tutti, il cuore di tutti, e che ci sia un cuore di poeta che sappia ricreare una favola d’uomini sempre vivi.9

Sono pagine che dichiarano una malinconia che il lettore non può dimenticare, che sfiora, a volte, un pessimismo senza scampo. Tuttavia, a

8 F. mastroianni, Le prose dell’antiquario, cit., p. 90. 9 Ivi, p. 96.

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mio parere, va letta come richiamo ammonitore ad impegnarsi a ritrovare la via per poter uscire dal pelago nel quale ci ha cacciati un secolo tragico e impietoso come quello trascorso, il più disumano della storia dell’uma- nità, malgrado tutti i progressi scientifici e tecnologici. Mastroianni era addolorato per la perdita insensata, non soltanto del dono dell’amicizia