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Se si osserva con attenzione la realtà del welfare europeo attuale, si può facilmente constatare che, molti paesi hanno già nei fatti una sorta di reddito di cittadinanza.

Capitolo III: La Facoltà di Scienze della Formazione: una opportunità per lo sviluppo dell’impresa sociale.

Risposta 8: Se si osserva con attenzione la realtà del welfare europeo attuale, si può facilmente constatare che, molti paesi hanno già nei fatti una sorta di reddito di cittadinanza.

Alcuni di essi prevedono un livello di reddito di sicurezza che viene definito in maniera diversa a seconda dei contesti: si chiama ad esempio “reddito minimo garantito” in Germania, “reddito minimo d’inserimento” in Francia. Questi benefici sono destinati a supportare economicamente le persone più povere, ma essi tuttavia non configurano un vero e proprio reddito di cittadinanza (universale ed incondizionato secondo l’approccio del filosofo Philippe Van Parijs) dal momento che questi sussidi sono condizionati da un lato dal livello di reddito (prova dei mezzi) e dall’altro dalla messa in atto di certi comportamenti da parte dei beneficiari, come ad esempio la ricerca attiva di un lavoro. In aggiunta a queste prestazioni tendenzialmente generali, esistono anche una serie di prestazioni complementari destinate a certe categorie sociali quali ad esempio gli assegni familiari a favore delle famiglie che hanno figli, indipendentemente dal reddito del beneficiario ma che dipendono esclusivamente dalla presenza di figli all’interno del nucleo familiare; le pensioni sociali per gli anziani e le integrazioni al minimo per quelli che non raggiungono autonomamente un determinato livello

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di trattamento economico. Per tutti i cittadini poi, ci sono deduzioni o detrazioni fiscali in relazione a certe tipologie di reddito e di oneri, che il contribuente può dedurre dal reddito o detrarre dall’imposta, che non sono altro che mancate entrate per lo Stato e in questo senso, capovolgendo l’ottica d’analisi, sono dei sussidi che vengono concessi a certe categorie sociali in relazione a certe spese.

Quindi, non tanto in Italia, in cui esiste una sorta di “lacuna verso il basso” (manca infatti la garanzia di un reddito seppur minimo per i poveri e gli assegni familiari sono di natura categoriale), ma nella maggior parte dei Paesi europei a democrazia matura esiste già ora, di fatto, una sorta di reddito di cittadinanza, inteso come una quota di risorse monetarie che in una forma o in un'altra, arriva virtualmente a tutti i cittadini o perché sono poveri, o perché hanno figli o perché sono pensionati o perché hanno diritto a delle deduzioni/detrazioni fiscali in relazione alla normativa tributaria vigente. Di conseguenza, sono relativamente pochi i cittadini che non hanno un sussidio diretto sotto forma di trasferimento monetario o indiretto sotto forma di “sconto fiscale”.

Alla luce della situazione esposta, il ragionamento che molti studiosi stanno portando innanzi mira in via principale alla correzione delle storture che un sistema così articolato e complesso necessariamente ha comportato e comporta. Questo sistema, che già di fatto configura un flusso continuativo e diretto da parte dello Stato al bilancio di ciascun cittadino, produce infatti una serie di effetti perversi (quelle che sono state definite “trappole” del welfare) che si concretizzano poi in disincentivi, in una ripartizione di benefici che favorisce delle categorie sociali che non hanno veramente bisogno, ovvero crea delle sperequazioni tra diverse categorie sociali a seconda della diversa capacità di lobbying (ci si riferisce in questo caso al fenomeno delle coalizioni categoriali).

L’idea di base del filosofo Philippe Van Parijs è quella di razionalizzare questo sistema, questo coacervo di trasferimenti e di dispense fiscali dirette e di istituire al loro posto un reddito di cittadinanza (questa volta universale ed incondizionato) che sia uguale per tutti,

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permettendo quindi di superare le trappole che si sono prima evidenziate. Evidentemente poi, siccome il reddito di cittadinanza sarebbe fiscalmente imponibile, coloro i quali raggiungono livelli di reddito più alti ne riceverebbero un importo, al netto delle imposte, proporzionalmente inferiore.

Un reddito di cittadinanza così configurato e definito non sarebbe da solo sufficiente per garantire la sussistenza, almeno inizialmente, ai suoi percettori. Il ragionamento sulla sua introduzione quindi andrebbe fatto in prospettiva. Lo stesso Philippe Van Parijs è peraltro molto chiaro su questo punto, la proposta non è quella di calibrare l’importo subito su un livello di sussistenza o su un “paniere di beni” per garantire la sussistenza a tutti, ma l’ammontare del contributo erogato a titolo di reddito di cittadinanza deve essere commisurato alle capacità complessive di finanziamento che il sistema economico riesce ad assicurare. Recentemente anche taluni studiosi americani hanno fatto una proposta interessante in questa direzione: si propone di sostituire tutte le prestazioni del welfare state americano, comprese le cosiddette tax expenditures, con un reddito di cittadinanza universale incondizionato di 10.000 dollari all’anno pro capite. La soglia di povertà negli USA è molto più alta, e quindi questo sussidio non garantirebbe la sussistenza a tutti i beneficiari, tuttavia questa idea, a mio avviso, evidenzia gli interventi che si possono fare senza spendere di più, ma semplicemente spendendo in maniera diversa.

La mia proposta si pone quindi nei termini anzidetti. Già abbiamo sul tavolo una serie di programmi che fanno arrivare risorse e trasferimenti un po’ a tutti in maniera talvolta anche disordinata: ogni programma ha la sua ratio e spesso non ci si chiede come questa ratio sia compatibile con quella degli altri interventi. Gradualmente quindi, si potrebbe cercare di sostituire questi interventi con un’erogazione sul modello del reddito di cittadinanza, tenendo sempre in considerazione tanto le implicazioni politiche quanto quelle etiche della questione. Queste ultime sono peraltro già state ampiamente sollevate dal filosofo americano John Rawls nel famoso dibattito all’Università di Harvard con lo stesso Philippe Van Parijs: dal punto di

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vista etico, argomentava Rawls, la domanda che ci si potrebbe porre deve essere: “perché

dobbiamo sussidiare i surfisti?”. In altre parole, si fa fatica a capire perché lo Stato dovrebbe

sussidiare tutti indistintamente, compresi i ricchi e addirittura quelli che non vogliono lavorare (nel nostro caso appunto i surfisti).

Van Parijs sostiene che siccome il surfista si sottrae volontariamente alla competizione sul mercato del lavoro, così facendo agevola indirettamente chi invece cerca un’occupazione. Anche se il ragionamento è un po’ debole dal punto di vista economico ed anche filosofico, rimane comunque il fatto che si tratta di un ragionamento non privo di una logica; il principale punto di debolezza di questa riflessione è che il lavoro non può essere considerato solo un modo per garantirsi il sostentamento ma esso è anche un’attività attraverso la quale l’individuo cerca principalmente la propria realizzazione (probabilmente solo poche persone rinuncerebbero a lavorare a fronte dell’erogazione di cittadinanza).

Una semplice considerazione: adesso chi si colloca al di sotto della soglia di povertà può avere un disincentivo ad iniziare un’attività lavorativa in quanto, qualora lavorasse, e quindi si trovasse a superare questo livello, perderebbe il sussidio; si cade quindi inevitabilmente nella cosiddetta trappola della dipendenza. Se invece questo sussidio rappresentasse una base (magari di sussistenza) a cui si può aggiungere quando e se si decide di lavorare altro reddito, la trappola della dipendenza verrebbe completamente ed immediatamente disattivata.

Il ragionamento di Van Parijs mi sembra quindi possa tenere. Sappiamo infatti che programmi selettivi rispetto al reddito e rispetto ad una serie di altre condizioni, di fatto, producono spesso disincentivi e trappole, e quindi varrebbe la pena di sperimentare questa tipologia di interventi.

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Nel caso italiano, se si volesse cercare di introdurre questo sistema bisognerebbe:

1. trasformare le prestazioni familiari in prestazioni universali: questo darebbe già una sorta di reddito di cittadinanza a tutte le famiglie con figli;

2. introdurre interventi analoghi al reddito minimo garantito o d’inserimento per i più poveri per evitare che ci siano persone completamente deprivate e senza sussidi di sorta;

3. promuovere l’istituzione di una quota uniforme ed universale di pensione garantita sulla base della cittadinanza indipendentemente dalla storia contributiva: questo tra l’altro avrebbe il vantaggio di contrastare il rischio del lavoro precario, delle interruzioni nel corso della vita lavorativa che non consentono di avere una pensione con il calcolo contributivo.

Rispetto poi all’introduzione del reddito di cittadinanza al fine di garantire un reddito minimo di base, la mia idea è che la concretizzazione di questo tipo di riforma potrebbe essere assegnata all’Unione Europea, che in modo sempre più rilevante si pone come coordinatore delle politiche sociali degli Stati membri.

Domanda 9: L’attuale sistema di welfare abbandona sempre di più i tradizionali