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OVVERO “CRITERIA OF REASONABLENESS”.

Il riconoscimento, nel nostro panorama giuridico, del diritto di cittadinanza ai pericula libertatis in ambito cautelare è il frutto di stratificazioni profonde e di acquisizioni relativamente recenti consacrate in modo esplicito solo con il varo del codice di procedura del 1988. Discorso diverso invece dovrà farsi con riferimento al modello anglosassone che ha ispirato i compilatori della Convenzione.

In Italia, in particolare, fino al 1982 – quando venne emanata la legge istitutiva del Tribunale della libertà (L. n. 532/1982) – il codice del 1930 non menzionava in alcun modo le esigenze cautelari cui ancorare la legittimità dei provvedimenti restrittivi. Una lacuna che mal si sarebbe conciliata con il dictat dell‟art. 13 Cost., che al legislatore impone la predeterminazione di casi e modi cui subordinare la legittimazione delle occasioni di privazione della libertà.

Alla babele degli orientamenti che da sempre ha invaso la teorica della coercizione cautelare ha fatto da contraltare un quadro politico dominato per anni non solo dall‟avvento della dittatura e dal tumulto della guerra, ma, dopo l‟entrata in vigore della Costituzione repubblicana, da quello dell‟emergenza terroristica. E, d‟altro canto, il vuoto di fini lasciato dall‟art. 13 Cost. aveva contribuito non poco ad alimentare i più disparati esperimenti interpretativi dal momento che, nel silenzio del codice Rocco, l‟accertamento sulle esigenze cautelari costituiva facoltativo orpello di alcune, più sensibili, motivazioni giudiziali, assurgendo né più né meno che ad una linea di tendenza. Certo è che il criterio della stretta necessità (111) intuito dalla più sensibile dottrina liberale sarebbe stato destinato a non restare nel limbo in cui era stato relegato con l‟avvento della legislazione fascista, ma a trovare una sponda, all‟indomani dell‟entrata in vigore della Carta fondamentale, nel principio della presunzione di non colpevolezza che, fu detto chiaramente dalla Corte costituzionale, avrebbe dovuto assumere il significato di un limite esterno al potere coercitivo dello Stato (112), ponendo un freno alle

(111) Comparso per la prima volta con la L. 30 giugno 1876, n. 3183. Per una analisi del contesto storico che ha condotto fino alla elaborazione dei principi costituzionali, si rinvia a V. GREVI, Libertà personale dell‟imputato, cit., 315-424.

(112) Corte cost., sent. 23 aprile 1970, n. 64, in Giur. cost, 1970, 663 e ss. con nota di M. CHIAVARIO, La scarcerazione automatica tra la «scure» della Corte Costituzionale e la «restaurazione» legislativa, ivi, 665 e ss., che dichiarando incostituzionale l‟art. 253 c.p.p. del 1930

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tentazioni, ancora ricorrenti, di sovrapporre la dimensione cautelare a quella punitiva. La carcerazione preventiva, si legge nei passi decisivi della sentenza costituzionale del 1970, può essere disposta solo «in vista di esigenze di carattere cautelare o strettamente inerenti al processo». Come a dire che non sarebbe costituzionalmente tollerabile, perché lesiva della guarentigia della presunzione di non colpevolezza, qualsiasi finalizzazione della custodia cautelare disposta per fronteggiare esigenze estranee al processo e di sapore preventivo e sostanziale.

Se questa pronuncia avesse trovato seguaci più obbedienti - come pure talvolta è parso se non altro nelle proclamazioni di principio di alcune decisioni seguenti, tuttavia, nella sostanza, dissonanti (113) – probabilmente le successive esperienze normative che hanno aperto la strada alla redazione del Codice Vassalli, avrebbero senz‟altro avuto più pudore nel postulare soluzioni volte a costruire una disciplina della materia cautelare improntata anche alla verifica della sussistenza di un pericolo per la collettività e, forse, neppure la direttiva n. 59 della legge delega per il nuovo codice di procedura penale avrebbe imposto al legislatore di avallare identica prospettiva. È noto che a dominare la scena della disciplina cautelare siano spesso il pubblico interesse, la tutela della collettività, la sicurezza, l‟emergenza e persino l‟idea che sull‟imputato venga spesse volte calata la maschera del capro espiatorio. Questo aspetto non è mai sfuggito né ai legislatori che si sono avvicendati nella disciplina delle misure cautelari né ai giudici della Corte costituzionale (114). È del 1980 la sentenza che può a pieno titolo essere considerata antesignana della lett. c) dell‟art. 274 c.p.p., la quale, superando il precedente di dieci anni prima, afferma che non vi sarebbe una sostanziale differenza tra le esigenze strettamente inerenti il processo ed altre che abbiano fondamento nei fatti per cui è processo purché dotate di rilevanza costituzionale. Di tal che anche

mandato di cattura obbligatorio, pur non censurando la legittimità dell‟istituto, affermava il principio per cui la presunzione di non colpevolezza non è tout court incompatibile con meccanismi privativi della libertà personale in itinere iudicii, ma solo con quelle misure che dovessero assumere le sembianze di una anticipata sentenza di condanna. La carcerazione preventiva, infatti, può essere disposta solo «in vista di esigenze di carattere cautelare o strettamente inerenti al processo».

(113) G.ILLUMINATI, Presupposti e criteri di scelta delle misure cautelari, in AA.VV.a cura di G.CONSO, Il diritto processuale penale nella giurisprudenza costituzionale. I cinquant‟anni della Corte costituzionale, Napoli, 2007, 396. Ed infatti la sentenza della Corte cost., 6 luglio 1972, n.

124, pur richiamando il precedente del 1970, affermava che il senso della presunzione di non colpevolezza risiedeva nella principio secondo cui «durante il processo non esiste un colpevole ma

un imputato».

(114) Cui non sono estranee affermazioni come quella esibita nella motivazione della sentenza 27 gennaio 1974, n. 17, in Giur. Cost., 1974, 1212, secondo cui la custodia cautelare costituisce un «rafforzato presidio di difesa sociale».

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l‟esigenza di tutela della collettività dalla commissione di gravi reati, può giustificare la decisione di privare l‟imputato della propria libertà personale in itinere iudicii, qualora, avuto riguardo alla personalità del medesimo, appaia fondato il pericolo che commetta reati con l‟uso di armi o di altri mezzi di violenza contro le persone e che assumano una direzione lesiva verso le condizioni di base della sicurezza collettiva o dell‟ordine democratico.

Il codice di procedura del 1988, uscito da un faticoso travaglio, ha attinto al bacino culturale della giurisprudenza costituzionale nel tradurre in disciplina normativa quel principio della tridimensionalità funzionale delle misure di coercizione personale che era stato accolto dal legislatore delegante nella direttiva n. 59, badando, per di più, ad irrobustire il laconico invito a predisporre misure in tutela della collettività con la previsione di un regime più articolato che di fatto si poneva in immediata contiguità con gli approdi della sentenza costituzionale del 1980 e che consentiva di superare il rischio di una possibile tensione con il principio di tassatività imposto dalla Costituzione.

Superati così gli interrogativi circa la compatibilità della presunzione di innocenza con un sistema di privazione della libertà in itinere iudicii senza dover più ricorrere alla distinzione, da taluno sostenuta, tra questa –considerata certamente incompatibile – e quella di non colpevolezza -che sarebbe stata accolta dal legislatore costituente proprio al fine di scongiurare il vizio di un‟insuperabile antinomia-, i moderni scenari della dottrina e della giurisprudenza sembrano piuttosto incentrati sulla verifica della rispondenza di ognuna delle tre esigenze cautelari, nella loro concreta dimensione processuale, con il principio in questione.

E‟, questa, una prospettiva cui tende anche la Corte europea dei diritti dell‟uomo incline a verificare che il sacrificio imposto al singolo in conseguenza del perdurare della detenzione pending trial sia compatibile con il suo status di presunto innocente. Ed infatti, nonostante il testo della Convenzione consenta di affermare che per legittimare forme di privazione della libertà personale ante iudicium sarebbe sufficiente la mera verifica della sussistenza del fumus commissi delicti e, solo in alternativa (115), la concreta ricorrenza del pericolo «to prevent him

(115) «[…] reasonable suspicion of having committed an offence and risk of flight are

alternative (and not cumulative) justifying reasons for imposing a pre-trial detention», così Corte

EDU, Shannon c. Lituania, 24 novembre 2009,§49. Nel caso di specie la Corte concludeva per l‟omessa violazione dell‟art. 5, §1, lett. c) dal momento che sebbene il ricorrente avesse fornito prove sufficienti che non si sarebbe allontanato dal Paese, il mantenimento dello stato detentivo si

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committing an offence or fleeing after having done so», la Corte, ormai con cadenza costante, afferma che il mero accertamento del livello di attendibilità del quadro indiziario in relazione alla commissione dell‟offesa se può sorreggere l‟emissione dell‟iniziale ordinanza cautelare, non sarebbe più idoneo, nel progredire del procedimento, a fondare la decisione delle autorità nazionali di perseverare nel mantenimento della detenzione. Esse, infatti, dovranno mirare a verificare anche l‟esistenza di «specific indications of a genuine requirement of public interest wich, notwithstanding the presumption of innocence, outweights the rule of respect for individual liberty» (116).

Già da queste prime riflessioni appare evidente il fatto che il momento della verifica della sussistenza del periculum libertatis sia intimamente connesso al sindacato sulla ragionevolezza della durata dello stato detentivo, il cui perdurare potrebbe risultare non giustificato qualora non fossero rinvenute quelle esigenze cautelari che, non necessarie nell‟iniziale decisione di privazione della libertà, divengono, al contrario, indispensabili presupposti della legittimità del suo mantenimento.

In presenza di un immutato quadro indiziario ed in assenza di ulteriori pericoli da fronteggiare nel caso concreto, non vi sarebbero alternative legittimamente praticabili, dopo un certo lasso di tempo, rispetto alla immediata liberazione del detenuto.

Una prospettiva, questa, completamente estranea alla disciplina del codice di rito italiano.

Del resto, basti considerare che l‟ordinanza cautelare di un giudice italiano che tralasciasse la verifica della sussistenza, in concreto, del periculum libertatis sarebbe, stando alla disposizione dell‟art. 292, lett. c), c.p.p., affetta dal vizio della nullità, per comprendere la distanza tra i due sistemi.

Il nostro legislatore ha infatti preteso di anticipare al momento genetico di privazione della libertà personale il presidio rafforzato della verifica duplice e contestuale del fumus e del periculum sul rilievo che solo il ricorrere delle esigenze cautelari potrebbe giustificare una limitazione della libertà personale che

giustificava, tuttavia, anche sulla base di meri sospetti di commissione del reato, irrobustiti, secondo la Corte, dalla sopravvenienza di nuove prove. Si tratta di una decisione poco convincente sotto il profilo della tensione con il principio della presunzione di innocenza.

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altrimenti non conterrebbe alcun significativo discrimen con la sentenza di condanna.

Per quanto l‟analisi del sistema delineato dalla Corte europea consenta, tutto sommato, di affermare che la deminutio di tutela corrispondente al momento iniziale di privazione della libertà personale sia compensato dai successivi obblighi di revisione della ragionevolezza della durata della detenzione, riesce difficile non pensare che, se anche un solo giorno di privazione di libertà costituisce di per sé sacrificio estremo, tale cioè da imporre agli organi nazionali la massima prudenza, il criterio del doppio accertamento preteso dal legislatore italiano sin dall‟inizio della vicenda cautelare sia maggiormente rispondente allo standard di tutela più adeguato al tipo di diritto che viene ad essere compromesso.

Non va sottaciuto, tuttavia, che i principi elaborati dalla giurisprudenza di Strasburgo vengono immaginati come operanti in un sistema processuale non inquinato, come il nostro, dalla macroscopica dilatazione dei tempi necessari per raggiungere il risultato conclusivo della sentenza definitiva. Ed allora, in un contesto nel quale l‟imperativo della speditezza trova immediato riscontro sulla conduzione del processo di merito, quell‟obbligo, preteso dalla Corte, di monitoraggio costante e ad intervalli regolari sulla legittimità della detenzione consente di recuperare, sul fronte del rispetto della presunzione di innocenza, un livello di tutela non poi così distante da quello che risulta garantito dalla contestuale e duplice verifica, sin dall‟inizio della vicenda cautelare, della sussistenza di entrambi i presupposti applicativi, fumus e periculum.

Vero è che attestandosi lo scrutinio della Corte di Strasburgo anzitutto sulla conformità della detenzione al diritto interno, non sarebbe consentito ai nostri giudici adottare provvedimenti restrittivi della libertà personale che avessero unicamente ad oggetto la valutazione della sussistenza del fumus commissi delicti, dovendo necessariamente – a pena di nullità- motivare anche sulla esistenza delle esigenze cautelari che, in concreto, giustificano la misura disposta.

Ed è proprio sulla necessità di un giudizio in concreto che i due sistemi, quello nazionale e quello internazionale, tendono a convergere verso soluzioni in gran parte sovrapponibili.

La valutazione delle esigenze cautelari, che dalla Corte vengono spesso fatte coincidere con una variegata tipologia di situazioni non sempre immediatamente riconducibili ai tradizionali archetipi presenti anche nella nostra

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disciplina codicistica (pericolo di fuga, di inquinamento probatorio e di commissione di ulteriori reati) (117), deve essere condotta sempre avuto riguardo al concreto esprimersi della vicenda sub judice.

In particolare, si è affermato, utilizzando canoni valutativi che non sono estranei neppure alla nostra giurisprudenza di legittimità, che il pericolo di fuga assuma rilievo non in termini astratti – come accade nel caso in cui si pretenda di dedurre un rischio siffatto unicamente in base alla gravità delle accuse o alla severità della pena che potrebbe essere irrogata – ma concreti. Si deve aver riguardo, allora, alla personalità del soggetto così come alle specifiche modalità del fatto ovvero al contesto relazionale dell‟indagato (118).

A tal proposito la Corte ha affermato che l‟allontanamento dell‟indagato, pur se ingiustificato, dal luogo dell‟udienza, senza che questa valutazione fosse accompagnata da indagini sulla storia dello stesso, non poteva costituire legittimo fondamento del rilevato pericolo di fuga tanto più se, come in quel caso, altre misure meno invasive avrebbero potuto comunque fronteggiare quel rischio (119).

Con altrettanto rigore dovrà essere vagliato il pericolo di commissione di nuovi reati o di reiterazione di quello oggetto di accertamento, tanto più in ragione del fatto che una valutazione dotata di eccessiva genericità rischierebbe di alterare il già precario equilibrio tra esigenze di tutela della collettività, cui si ispira la previsione in parola, e il diritto alla presunzione di innocenza, minato alla radice da qualsiasi potenziale, aspecifico addebito di futura commissione del reato (120).

Questa preoccupazione, invero, è ed è stata nel punto nevralgico della problematica cautelare, la percorre in modo trasversale.

(117) In molte pronunce si fa riferimento oltre al pericolo di fuga, a quello di inquinamento probatorio o al pericolo di commissione di un altro reato anche alla necessità di protezione dell‟ordine pubblico o alla necessità di protezione del detenuto da se stesso in caso di tendenze suicide.

(118) Cfr Corte EDU, W. c. Svizzera, 26 gennaio 1993, Serie A, n. 254- A, §33 e Corte EDU, Barfuss c. Repubblica Ceca, 31 luglio 2000, (2002) 34 EHRR 37. In Italia, di recente, la Corte di legittimità, con la sentenza n. 19519 del 1 aprile 2010, in CED Cass. pen., 2010, ha affermato che « […] la sussistenza del pericolo di fuga non può essere ritenuta […] per la sola

gravità della pena inflitta con la sentenza, che è soltanto uno degli elementi sintomatici per la prognosi da formulare al riguardo, la quale va condotta non in astratto e quindi in relazione a parametri di carattere generale, bensì in concreto, e perciò con riferimento a elementi e circostanze attinenti al soggetto ed idonei a definire nel caso specifico, non la certezza, ma la probabilità che .lo stesso faccia perdere le sue tracce (personalità, frequentazioni, natura delle imputazioni, entità della pena presumibile o certamente inflitta) […]».

(119) Si legga la decisione sul caso Ambruszkievicz c. Polonia, 4 maggio 2006, §30-33. In termini altrettanto rigorosi, Corte EDU, 22 agosto 2007, Kaszczyniec c. Polonia, §54-55.

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Già nel suo primo caso (121), la Corte europea osservava che la Convenzione non permette detenzioni finalizzate a prevenire che una persona possa commettere un reato. Ed anche quando si è pronunciata sulla compatibilità delle misure di sicurezza italiane con il sistema delineato dalla Carta di Strasburgo, rilevava che l‟art. 5 Cedu «is not adapted to a policy of general prevention directed against an individual or a category of individuals who, like mafiosi, present a danger on account of their propensity to crime; it does no more than affar the Contracting States a means of preventing a concrete and specific offence» (122).

Una persona può essere detenuta in conformità con l‟ art. 5 ,§1, lett. c), solo nel contesto di un processo penale e allo scopo di essere tradotta innanzi ad una autorità competente sulla base del sospetto che abbia commesso un reato. Solo successivamente il rischio di reiterazione del crimine potrebbe legittimare il mantenimento dello stato detentivo purché se ne compia una disamina in concreto, pena, in caso contrario, una inconciliabile tensione con la presunzione di innocenza.

E del resto, la prognosi sui comportamenti futuri dell‟imputato deve sempre potersi fondare su quel materiale particolarmente ricco ed affidabile che gli inquirenti sono in grado di raccogliere solo ad uno stadio ormai avanzato dell‟indagine preliminare, onde evitare che il ragionamento, necessariamente presuntivo, sia insidiato dall‟incertezza sulla sussistenza delle premesse (123

). Tuttavia, nonostante i pur apprezzabili sforzi di adeguare siffatta previsione agli obiettivi imposti dalla presunzione di innocenza, sullo sfondo resta, insoluta, una questione nodale: come può giustificarsi una disciplina cautelare che, ponendo al centro la prognosi della pericolosità dell‟indagato o dell‟imputato, di fatto assume quale presupposto logico che lo stesso abbia commesso il reato del quale viene accusato prima ancora che un processo abbia definitivamente accertato il suo coinvolgimento nei fatti oggetto d‟imputazione? Per quanto si arrivi a sostenere che il giudizio prognostico sulla pericolosità del soggetto debba essere dissociato dalla verifica della sussistenza degli indizi raccolti nel corso dell‟indagine e dunque che esso non debba essere dedotto in base alla gravità delle accuse, resta il fatto che, per garantire il principio sancito all‟art. 27, comma 2, Cost nonché all‟art. 6, § 2,

(121) Corte EDU, 7 aprile 1961, Lawless c. Irlanda, serie A, n. 2, § 14. (122) Così Corte EDU, 6 novembre 1980, Guzzardi c. Italia, § 102. (123) E.MARZADURI,(voce) Misure cautelari personali, cit., 72.

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Cedu, un siffatto scrutinio dovrebbe seguire e mai precedere l‟accertamento della colpevolezza. In tale senso, la moltiplicazione degli argini entro cui è stato contenuto il potere discrezionale del giudice ad opera della riforma del 1995 ha segnato, certamente, un traguardo importante quanto meno attraverso una articolazione più precisa dei parametri sui quali potrà legittimamente fondarsi il giudizio in questione, ma non è riuscito, tuttavia, a sgombrare definitivamente il campo dal sospetto della sua incostituzionalità.

Vero è infatti che il riferimento aspecifico, contenuto nel nuovo art. 274 lett c) del c.p.p. alla gravità dei delitti con l‟uso di armi o di altri mezzi di violenza personale nonché l‟accostamento, disomogeneo, a quelli diretti a sovvertire l‟ordine costituzionale, hanno lasciato aperta una porta a quella discrezionalità che si pretendeva di contenere e che ha condotto verso operazioni ermeneutiche a dir poco audaci, inclini ad attribuire alla finalità specialpreventiva una atipica funzione di supplenza delle carenze di concretezza rinvenibili nel dettato della lett. a) dell‟art. 274 c.p.p., finendo per ritenere pericoloso quell‟indagato (imputato) che, sospettato di aver commesso reati connotati da un intenso livello di gravità, potrebbe essere tentato di turbare, inquinando le prove, il regolare svolgimento del processo senza poter, al contempo, godere della garanzia della limitazione temporale dello status custodiae prevista dall‟art. 292, comma 2, lett. d) e art. 301 c.p.p. (124).

Ora, la circostanza, innegabile, che il tipo di pericolosità che si intende fronteggiare con il ricorso alla misura cautelare sia intimamente connessa al fenomeno criminoso oggetto di indagine, inevitabilmente conduce a considerare il processo penale – nel quale per l‟appunto quei reati dovranno essere accertati – come la sede naturale nella quale rinvenire soluzioni idonee a proteggere, per il tramite della privazione della libertà personale, la collettività dal rischio di futura commissione di gravi reati. Perciò la contaminazione tra la finalità dell‟accertamento – tipica del procedimento penale – e quella preventiva - solitamente appannaggio del sistema amministrativo- unitamente alla lentezza con cui, soprattutto in Italia, si giunge alla sentenza definitiva, hanno finito per addossare sullo strumento cautelare la funzione preventiva di esclusiva competenza del sistema sanzionatorio.

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Allo stato sembra impossibile rincorrere l‟utopia di un definitivo tramonto