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CAPITOLO III I PADRI NEL CINEMA E IN LETTERATURA 115

1. I L PADRE NEL CINEMA 117

1.1. I PADRI DI FIGLI DISABILI E LE AUTOBIOGRAFIE 125

L’autobiografia come pratica utilizzata per “la cura di sé” ha origini lontane. Si basa, infatti, sulla scia di una tradizione molto antica e la si può indagare come un genere letterario con caratteristiche proprie che fanno riferimento a forme narrative come il diario, le confessioni, le memorie, le epistole. Diversa dalla biografia, l’autobiografia prevede che sia lo scrittore stesso a parlare di sé in prima persona ponendo l’accento su particolari e curiosi aspetti della propria esistenza. La storia, la letteratura, la sociologia,

la psicanalisi, la psicologia sociale, e non ultima, la pedagogia si cimentano senza posa con il discorso autobiografico, rinvenendovi sempre nuovi confini tematici nonché spunti e materiali molto preziosi per le loro ricerche281.

Una definizione quanto mai appropriata è sicuramente quella del saggista Philippe Lejeune che prima di tutto propone una definizione di autobiografia come "il racconto retrospettivo in prosa che un individuo reale fa della propria esistenza, quando mette l'accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della propria personalità"282. Lejeune ha inoltre teorizzato il concetto, appunto, di patto autobiografico che prevede introspezione da una parte ed esigenza di verità dall'altra: un diritto all’autobiografia283 che prevede la possibilità per tutti di entrare nella parte più intima del proprio sé. E’ necessario distinguere la pratica autobiografica che prevede un uso meramente privato di questa- e quindi quello di valersi del racconto di sé in senso formativo e autoformativo, come pratica per crescere, riflettere e migliorarsi- da quella che invece aiuta il lettore a entrare empaticamente in contatto con una storia diversa dalla propria, ma nella quale può ugualmente apprendere, valutare e pensare alla propria condizione. Il pensiero pedagogico, però, si dedica all’autobiografia non tanto in questo senso, quanto per il suo potenziale autoformativo, grazie a cui lo scrivente ha la possibilità di pensare all’esperienza trascorsa e pertanto orientarsi al meglio, così da rinvenire

una nuova direzione e un nuovo slancio per vivere284.

Come ricorda Cambi:

281 M. Zedda, Scrivere di sé: autobiografia e formazione, in 25 saggi di pedagogia, op.cit., p. 74. 282 P. Lejeune, Patto autobiografico, Il Mulino, trad. it., Bologna, 1986.

283 D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina, Milano, 1996. 284 M. Zedda, Scrivere…, op. cit. p. 75.

la narrazione si è manifestata anche, e sempre più, come lo statuto chiave del soggetto, la sua forma specifica. Un soggetto a “identità aperta” è in quanto si fa, ma si fa solo nella narrazione: in quel dialogo con il proprio vissuto che lo riesamina, lo interpreta, lo riorienta. Senza questo lavoro narrativo di sé, l’io si riduce a puro vissuto e perde identità […] e senso (e direzione). Solo il narrarsi produce, nel magma, identità e senso, poiché il narrare implica un dare- ordine (qualunque sia) e fissare nuclei, passaggi se non traguardi, poiché questo complesso lavoro sta nella narrazione stessa.285

È evidente, quindi, quanto il lavoro autobiografico assuma un valore di senso e di formazione in quanto si ha l’occasione di riflettere sulla propria vita nel momento presente ed ha un grande valore catartico e formativo per chi legge e per chi scrive286.

Le narrazioni autobiografiche non sono da considerare come sfoghi o semplici testimonianze, ma piuttosto come strumenti pedagogici perché cambiano il modo con cui osserviamo il mondo diventandone, così, testimoni privilegiati287. Questo appare tanto più vero se consideriamo i genitori di figli disabili come persone coinvolte a pieno titolo nella scrittura autobiografica: le competenze genitoriali elaborate attraverso l’esperienza diretta vanno infatti ad arricchire le conoscenze tecniche, acquisite attraverso lo studio e l’interiorizzazione di approcci scientifici288.

Appare chiaro e va posto in particolare evidenza che esperienze qualitative di integrazione si possono costruire solo attraverso reti di sostegno e supporto con le principali agenzie educative, quali la famiglia, i

285 F. Cambi, L’autobiografia come metodo formativo, Laterza, Roma- Bari, 2002, p. 81.

286 L. Bichi, Disabilità e pedagogia della famiglia. Madri e padri di figli speciali, Edizioni ETS, Pisa, 2011.

287 A. Moletto, R. Zucchi, Se i genitori salgono in cattedra, “Animazione sociale”, Anno XXXIV, agosto- settembre 2004, n. 185 fascicolo 8/9.

288 E. Barone, E. Cecchini, Pedagogia dei genitori. La metodologia attraverso le esperienze, Ed. ETS, Pisa, 2009, p. 18.

servizi specialistici e gli enti locali289. La famiglia, prima di tutti gli altri, diventa un elemento prezioso proprio perché a contatto quotidiano con la disabilità e ha la possibilità di sperimentare le migliori strategie e tecniche efficaci di intervento.

In ultima analisi, l’educazione deve essere intesa come il principale agente di trasformazione culturale.

Mettersi in relazione con l’altro significa guardarsi allo specchio e riconoscersi. Riconoscersi in una uguale diversità.

Ricoeur ci insegna che noi viviamo grazie all’altro:

la persona ci appare come una presenza volta al mondo e alle altre persone, senza limiti […] Le altre persone non la limitano, anzi le permettono di essere e di svilupparsi; essa non esiste se non in quanto rivolta verso gli altri, si ritrova soltanto negli altri. La prima esperienza della persona è l’esperienza della seconda persona: il tu; quindi il noi viene prima dell’io, o perlomeno, l’accompagna.290

L’educazione è cosa del cuore, affermava Don Bosco291. Amare implica la capacità di attribuire senso e significato agli eventi, una capacità fondamentale in ordine al benessere della persona adulta. Nel momento in cui un adulto, all’interno di un rapporto affettivo, narra al bambino, con il linguaggio della verità, la sua storia, lo aiuta ad attribuire un significato agli eventi, che divengono, in siffatta maniera, comprensibili e accettabili. E il bambino costruisce così la sua identità narrativa, in cui anche i traumi sono letti attraverso uno sguardo di tenerezza.

289 L. Cottini, L’autismo a scuola. Quattro parole chiave per l’integrazione, Roma, Carocci, 2011. 290 P. Ricoeur, Sé come un altro, Feltrinelli, Roma, 2011.

La famiglia, prima fra tutte, non può essere considerata come entità disfunzionale intrappolata perennemente nella “crisi”, né in una posizione di subordine e inferiorità a cagione del suo polimorfismo culturale292. In termini specifici, la famiglia con persona disabile è a contatto quotidiano con il problema della diversità, e possiede, quindi, la possibilità di sperimentare le migliori strategie e le tecniche più efficaci di intervento.

Nota Bruner: “l’educazione non è a sé stante e non può essere progettata come se lo fosse”293.

Da tali presupposti si evince come la dimensione relazionale sia la chiave di volta del sostegno alla disabilità.

Don Milani ci ricorda, in un’ottica ecologica, come non si possa fare a meno di amare la scuola, senza amare il ragazzo, la famiglia del ragazzo e il mondo che li circonda: “non si può far scuola senza amare e non si può amare un ragazzo senza amare la sua famiglia e non si può amare la sua famiglia senza amare il suo mondo”294.

Sembra quasi un gioco di parole, ma esprime, invece, una verità fondamentale. Quando un bambino compie poi il suo ingresso a scuola sperimenta, comunque, per la prima volta, l’altro, diverso dalla sua famiglia.

Troppo poche sono ancora le ricerche relative ai programmi di educazione prosociale nelle scuole. Indubbiamente, la prosocialità non può dipendere unicamente dall’applicazione di specifici programmi educativi. Vi concorrono infatti, diverse variabili di tipo situazionale e personale, come il modello di comportamento offerto dall’insegnante, il clima

292 Cfr. A. M. Favorini, F. Bocci, Autismo, scuola, famiglia, FrancoAngeli, Milano, 2008.

293 J. Bruner, La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, Roma, 2002, pag. 42. 294 J.L,.Corzo Toral, Lorenzo Milani. Analisi spirituale e interpretazione pedagogica, Servitium, Città di Castello, 2008, pag.147

emotivo-affettivo della classe, il livello di sviluppo morale e sociale del soggetto 295.

Il nodo principale della questione è da rintracciare nella fase, per certi versi critica, in cui gli insegnanti si confrontano con un bambino disabile. Questa situazione crea disagio, primariamente perchè con la diagnosi si riesce a rilevare solo l’aspetto deficitario dell’allievo, ma non la persona.

Sono nati, proprio per la ragione che esplicavamo poc’anzi, molti progetti che hanno lo scopo di aiutare, ascoltare, sostenere e rassicurare i genitori nel momento in cui viene loro comunicata la presenza di un deficit nel figlio che sta per nascere.

Vi è, ad esempio, il progetto «A casa con sostegno», frutto a sua volta di una più ampia progettazione denominata “Superare l’handicap”, promossa nel 1995 dal Comune di Parma, che prende vita da alcune domande esistenziali sottoposte ai diretti interessati: i genitori. Una mamma, intervenendo al convegno che introduceva il progetto, esordì in questo modo:

Il momento della comunicazione della diagnosi è fondamentale, segna la vita, le dà un significato diverso da quello che ha avuto fino a quel momento. Per questo non può essere affidato al caso, alla più o meno buona volontà, alla sensibilità più o meno marcata del medico.

O ancora un’altra mamma:

Quando nasce una bambina o un bambino e quella nascita viene comunicata come diversa, perché ne viene diagnosticato un deficit, è importante la funzione di chi dovrà comunicarlo e degli operatori del territorio

295 Cfr. Lickona T., Moral development in the elementary school classroom. In W.M. Kurtines e J.L. Gewitz (a cura di), Handbook of moral behavior and development, vol. 3, Hillsdale, Erlbaum, 1991.

nell’accogliere e nel sostenere le madri e i padri in questo evento. L’impegno che viene chiesto alle madri, ai padri e alle figure professionali preposte alla nascita di un bambino o di una bambina, va al di là ed oltre il loro deficit. A questo impegno viene aggiunto qualcosa in più che significa attenzione, ascolto, risposte concrete a bisogni altrettanto concreti.

Creare un gruppo di narrazione significa, allora, entrare in contatto non con il deficit, ma con la persona: si tratta di offrire l’opportunità di costruirsi persona, come suggerisce Maria Teresa Romanini con questa efficace e sintetica espressione296.

Persone, infatti, non si nasce, ma si diventa.

Ed è nella famiglia, luogo precipuo degli affetti, come nella scuola, che la persona sperimenta il proprio valore e la propria rilevanza297.

Nell’ambito di Pedagogia dei genitori, (un volume che racconta le esperienze di genitori di bambini disabili) è stato concepito, ad esempio, uno strumento di presentazione “dal vivo”, denominato “Con i nostri occhi” che, per iniziativa individuale di una mamma, ha subito riscosso un grande successo per la sua efficacia e valenza. Difatti, le narrazioni, che i genitori forniscono agli insegnanti, offrono informazioni pratiche, concrete e emotivamente coinvolgenti, che serviranno, successivamente, alla messa a punto di piani educativi individualizzati. I genitori, d’altro canto, invitati a raccontare “il figlio”, si sentiranno parte di un sistema educativo che li vede, giustamente, protagonisti: fortificati e valorizzati per e nel loro ruolo.

296 Cfr. M.T. Romanini, Costruirsi persona, La Vita Felice, Milano, 1999.

297 Cfr. M. Stramaglia, Amore è musica. Gli adolescenti e il mondo dello spettacolo, SEI, Torino, 2011, pag. 147.

Le narrazioni, che adesso riportiamo, sono di due genitori del gruppo misto di lavoro gentitori/insegnanti, su richiesta del gruppo di lavoro GLHI dell’istituto comprensivo di Pisa:

Luca ha iniziato a dire le prime paroline verso i nove mesi e poi un lunghissimo silenzio; quel silenzio che io non giustificavo e non capivo, forse proprio perché accompagnato da un’assenza di sguardi e da pochissimi sorrisi. Per fortuna, da questo punto di vista, sono una persona che non si dà giustificazioni fasulle e di fronte alla frase «tutti hanno i loro tempi poi parlerà…» ho preferito insistere con il domandarmi perché mio figlio non mi guardava e non mi sorrideva e ho avuto l’opportunità di far visitare Luca presso l’istituto. La prima diagnosi è stata «disturbo persuasivo dello sviluppo», mi hanno parlato di «autismo».

E, ancora:

Ho due bimbi gemelli di 27 settimane: Niccolò è stato operato all’intestino a soli tre giorni di vita e da qui per lui sono nati problemi. Infatti, nella crescita, aveva difficoltà nella postura non riuscendo a stare seduto, perché cascava da un lato. Da neonato non è mai riuscito a gattonare, ma si trascinava le gambe appoggiandosi sugli avambracci. Per Niccolò, Mattia è sempre stato il suo punto di riferimento in quanto era più agile e libero nei movimenti. Ci avevano detto che Niccolò avrebbe presentato problemi nel camminare e forse non sarebbe mai riuscito a camminare e ciò è durato fino ai due anni. In seguito gli è stata regalata una macchinina che gli permetteva di essere più indipendente e, mentre Mattia correva e giocava per la casa, Niccolò lo rincorreva per la sua macchinina. Niccolò ha camminato molto tardi: a tre anni e […] con molte difficoltà nell’equilibrio, ma grazie alla sua

forza di volontà, alla sua tenacia e all’incoraggiamento, ha migliorato il suo cammino.298

La Pedagogia dei genitori riconosce pertanto alle narrazioni genitoriali un consistente “valore aggiunto”.

Vero è che la scuola, difatto, incarna due facce della stessa medaglia: da un lato, rappresenta il contesto privilegiato per lo sviluppo sociale, comportamentale ed emotivo; dall’altra, però, può provocare un forte disagio nel bambino che vi sperimenti un insuccesso sia di tipo relazionale che prettamente scolastico il quale, nella peggiore delle ipotesi, può indurre il bambino a rifiutare la scuola.

Perciò, la presenza della famiglia diventa indispensabile.

Anzi è proprio la consapevolezza che non viviamo da soli, che c’è un altro oltre a noi, e che esiste sempre un qualcuno che ci permette di diventare Io, nel rapporto con il Tu. E questo, in primis, con i genitori, in famiglia. E poi nella scuola.

È nostra intenzione, pertanto, dare qui ulteriore spazio al fiorire sempre crescente di numerose biografie genitoriali, in particolar modo biografie scritte da padri, che vogliono raccontare la loro esperienza con la disabilità.

Come evidenziano Zanobini, manetti e Usai299 i numerosi ormai studi sulle relazioni che si instaurano tra genitori e figli disabili evidenziano, spesso, dati discordanti. Ciò è spesso dovuto al tipo di analisi che si costruisce: le ricerche quantitative, ad esempio, sono caratterizzate da una griglia, il più delle volte, ristretta rispetto alla molteplicità delle situazioni e

298 E. Barone, E. Cecchini, Pedagogia dei genitori. La metodologia attraverso le esperienze, Edizioni ETS, Pisa, 2009, pag. 98.

delle variabili presenti in ogni singola dinamica, ma anche nel dare per scontato alcuni vissuti personali di dolore e sofferenza300.

L’enfasi sul dolore che la disabilità porta con sé è dovuta principalmente all’ottica con cui la affrontiamo: all’opposto della disabilità si palesa la normalità, ed ecco che, per forza di cose, nella prima viene accentuato il carattere negativo. Ancora si fatica ad accettare che cambiare il punto di vista nei riguardi della disabilità, ci aiuterebbe a non focalizzare l’attenzione sulla malattia, ma su come la società si prepara ad accogliere la persona disabile. Così, quando la disabilità sopraggiunge in famiglia, seguendo il senso comune e i pregiudizi ostici a morire, non può che creare relazioni patologiche. La famiglia con un bambino/a disabile si ritrova, molto più delle altre, ad essere osservata e studiata: messi sotto i riflettori sono sicuramente i genitori. E il più delle volte la figura assente o troppo presente del padre. Ogni decisione dei genitori viene considerata, molto spesso, come un’accettazione o meno del figlio/a, colpevolizzando in questo caso padri e madri che non si ritengono all’altezza di costruire un valido processo educativo. Collegandoci in maniera oserei dire scontata alla teoria dei Disabilities Studies, secondo i già citati Zanobini, Manetti e Usai la scissione netta tra disabilità e normalità sarebbe dovuta prevalentemente «all’analisi di tipo medico con la quale viene affrontato il deficit301. Non è casuale, difatti, che in questi ultimi anni l’OMS alla classificazione del 1980 (ICHD) abbia fatto seguire l’ICF per sottolineare il lato sociale della disabilità, poiché questo approccio parla di salute e di funzionamento e non di patologie o disabilità»302.

300 Cfr. E. Malaguti, Educarsi alla resilienza. Come affrontare crisi e difficoltà e migliorarsi, Erickson, Trento, 2005.

301 Cfr. M. Zanobini, M. Manetti, M.C. Usai, La famiglia…, op. cit.

302 Cfr. L. Bichi, Disabilità…, p. 55; Cfr. OMS, Classificazione internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, Erickson, Trento, 2002.

L’idea della famiglia normale coincide con l’idea di una famiglia sana che non presenta problematiche, dunque «tale concezione ci induce ad abbracciare l’assunto erroneo secondo cui qualsiasi problema è sintomo o conseguenza dell’esistenza di un contesto familiare disfunzionante»303. Talvolta questa idea ha prodotto un pregiudizio molto forte nel giudicare le famiglie con all’interno un figlio/a disabile perché ritenute patologiche, e dunque bisognose di aiuto e cure costanti.

Dalle autobiografie e dalle interviste condotte con i genitori, ed in modo particolare con i papà, emerge invece una grande forza, determinazione e coraggio. Come si scriveva in precedenza, gli studi più recenti sull’argomento pongono in evidenza il cambiamento di paradigma che non si basa più sul deficit, ma sulle risorse. Gli studi si sono intensificati e orientati sull’analisi di alcuni meccanismi che consentirebbero un buon adattamento della famiglia alla disabilità, anche perché l’organizzazione familiare che si presenta come nuova dipenderebbe in larga misura dalle caratteristiche dei genitori e degli eventuali fratelli e/o sorelle che dalla disabilità della persona. L’attivazione di strategie familiari specifiche dipendono da diversi aspetti, quali quelli cognitivi, emotivi e relazionali, infatti i genitori che riescono a dare un nuovo significato all’esperienza che stanno vivendo sono anche quelli che sul piano cognitivo riescono a fornire una nuova rilettura di quanto si è verificato. Salvatore Soresi chiarisce che, all’interno dell’aspetto cognitivo, vi sono sicuramente anche le strategie di problem solving e di decision making, che si rivelano assai importanti per una flessibilità di pensiero che permette di trovare sempre nuove e diverse soluzioni al problema304. Inoltre ricorda sempre Soresi «le famiglie che ricorrono con elevata frequenza a queste strategie si differenziano da quelle

303 F. Walsh, La resilienza familiare, tr. It. Cortina, Milano, 2008, p. 20. 304 S. Soresi, Psicologia della disabilità, Il Mulino, Bologna, 2007.

che vi ricorrono solo sporadicamente per come affrontano le difficoltà sin dall’inizio, per gli atteggiamenti che intendono assumere nel corso del tempo, per i valori ai quali sembrano aderire, per le attività che svolgono, per la partecipazione alla cura del figlio e per come vivono il rapporto sociale che ricevono […]: questi genitori sembrano più abili nel trovare un maggior numero di soluzioni e lo fanno insieme, fornendosi sempre comprensione e supporto reciproco»305. Inoltre questa concezione si lega indissolubilmente a quello di resilienza che nelle scienze umane ha non solo il significato di resistere ad un urto, ma anche la possibilità di uscire da una situazione che potenzialmente poteva risultare paralizzante. È da considerare, comunque, che la resilienza non è un processo che può definirsi concluso una volta per tutte: è invece un percorso dinamico ed operoso dove ogni componente familiare ha il suo ruolo ben preciso. È chiaro che ogni genitore attribuisce un personale significato all’evento accaduto, in base alle proprie credenze culturali, religiose, sociali:

i sistemi di credenze rappresentano un nucleo funzionale essenziale in tutte le famiglie e sono forze potenti in termini di resilienza. Affrontiamo momenti critici e avversità attribuendo un significato alla nostra esperienza: connettendola al nostro contesto sociale, ai nostri valori culturali e spirituali, alla nostra storia multigenerazionale e alle speranze e alle aspirazioni per il futuro. Il modo in cui le famiglie valutano i problemi e le opportunità determina la differenza tra la capacità di affrontare e padroneggiare le difficoltà e il precipitare nella disorganizzazione funzionale e nello sconforto.306

305 Ivi, p. 231.

Ogni genitore attribuisce un senso estremamente personale ed intimo alla nascita del proprio figlio/a disabile e spesso commenti da parte di altri che si riempiono la bocca di parole solenni che denotano un buon senso, talvolta stucchevole, potrebbero davvero scatenare reazioni fastidiose. Perché, per parlare di disabilità, non si può, e non si ha, il diritto di restare sul cristale dei buoni propositi, dove, dall’alto di una presunta superiorità, si dettano consigli “per il bene” della persona coinvolta (cosa si intenda, poi, con il bene della persona non è dato sapere). E si ha il dovere di “sporcarsi” con il contesto ambientale, sociale, politico, familiare, quando

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