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Panorama Massimo Causo

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on un passaggio dai quarantacinque film dello scorso anno ai trentasei di questa settantesimama Berlinale, il Panorama al tempo della neodirezione Chatrian/Rissenbeek ha dovuto fare i conti con un consistente ridimensio- namento, senza che questo abbia comportato tuttavia un cedimento nella sua tenuta. Tradizio- nale serbatoio della partecipazione più corposa del pubblico berlinese a quello che è da sempre il principale festival metropolitano europeo, Panorama era alla vigilia di questa edizione la sezione cui maggiormente si guardava per valutare la continuità di base dell’evento, al di là delle rimodulazioni della selezione ufficiale e della relazione pericolosa tra la neonata com- petizione Encounters e la tradizione del Forum. L’esito, va detto, è sostanzialmente positivo, anzi la sforbiciata numerica ha evitato alla sezione diretta da Michael Stütz buona parte di quella selezione che ammiccava troppo facilmente al dialogo con un pubblico generalista.

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n questo contesto il film di Panorama che ha lasciato maggiormente il segno è Petite fille, il documentario dedicato da Sébastien Lifshitz alla storia della piccola Sasha, una bambina che assieme ai suoi genitori si batte per affermare la propria identità femminile pur essendo nata nel corpo di un bambino. Lifshitz, che sull’identità di genere sta costruendo una filmografia di straordinaria delicatezza e intensità, elabora una sorta di dolce diario oggettivo, trovando un perfetto equilibrio tra empatia e descrizione. La figura della piccola protagonista e la presenza solidale e sofferente della madre diventano il punto focale di una narrazione che mira a problematizzare la questione in maniera chiara e precisa, spingendo il film in una dimensione di flagranza sentimentale che rende ancor più autentico e evidente il risvolto sociale della questione, localizzato nel pertinace rifiuto della scuola ad accettare Sasha nella sua natura femminile.

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rticola la questione di genere in maniera molto interessante anche Futur Drei (No Hard

Feelings), il film di Faraz Shariat premiato con il

Teddy Award per la migliore opera a tematica gay. In questo caso il dialogo è tra orientamento sessuale e appartenenza identitaria, essendo qui in presenza della storia di un giovane iraniano tedesco di prima generazione che diventa consapevole del proprio spiazzamento culturale quando si innamora di un ragazzo iraniano che sta chiedendo asilo in Germania

The Trouble with Being Born

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assieme alla sorella. Pur concedendosi qualche vezzo da cinema queer, il film trova un sistema di equilibrio tra la narrazione sentimentale della storia d’amore e l’esposizione problematica del- le differenze culturali (etniche anziché di genere) nel mondo occidentale. Come fosse in bilico tra Gregg Araki e Xavier Dolan, Faraz Shariat lavora sullo scostamento del protagonista da qualsiasi posizione di compromesso e cerca nel- la triangolazione tra il protagonista e la coppia di immigrati iraniani lo spazio per definire una cultura della non appartenenza che sconfigga il limite posto alle esistenze dalle questioni dell’accettazione e dell’identificazione.

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avora invece sull’equilibrio tra forma docu- mentaria e finzione l’opera seconda di Su- sanne Regina Meures Saudi Runaway, in cui la storia della fuga della protagonista dall’Arabia Saudita sfruttando l’occasione del suo viaggio di nozze viene raccontata interamente attraverso le riprese da lei effettuate con lo smartphone. La tecnica del self filming adottata dalla regista, che ha seguito la fuga della protagonista aiu- tandola per mesi nella preparazione del piano e nell’organizzazione delle riprese, è coerente con la narrazione della vita cui sono soggette le donne in Arabia Saudita e si spinge in una dimensione che sta tra la tensione del thriller e la documentazione della realtà.

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l dialogo tra la documentazione del reale e le forme della finzione è del resto uno dei temi che hanno caratterizzato la selezione di documentari del Panorama. Lo dimostra anche l’interessante Day Of Cannibalism dell’ameri- cano Teboho Edkins, che si spinge nel Regno

del Lesotho, enclave montana nel cuore del Sudafrica, per raccontare il complesso rapporto tra la popolazione nera, dedita all’allevamento, e la ricca comunità asiatica che ne ha invaso l’economia. Il confronto culturale si traduce nell’osservazione a volte anche divertita del contrasto tra la pragmatica indifferenza degli asiatici e gli atteggiamenti sanguigni dei neri, che tentano una resistenza sociale in bilico tra l’orgoglio identitario e la provocazione. Il film funziona soprattutto per l’immediatezza e la curiosità con cui gestisce la messa in scena e l’osservazione dei fatti.

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n crimen común, opera seconda dell’ar-

gentino Francisco Márquez, cerca invece nella forma del thriller coscienziale la rappre- sentazione della stratificazione sociale del suo paese. Il film racconta infatti l’angoscia interiore che coglie una professoressa di Buenos Aires tormentata dalla scoperta che il ragazzo in fuga dalla polizia al quale non ha dato rifugio una notte di pioggia, era il figlio della sua gover- nante, poi trovato morto. Márquez sospende il film sulla percezione quasi trasognata e dolente della protagonista, lavorando sulla costruzione traslucida della percezione della realtà della protagonista, in contrasto con la rappresenta- zione concreta dei vicoli popolari in cui si spinge per far visita alla sua governante.

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i è fatto molto apprezzare anche l’italiano

Semina il vento, opera seconda di Danilo

Caputo che racconta il drammatico dissidio che oppone una giovane laureanda in agronomia alla scena familiare e sociale in cui si trova calata al suo ritorno a casa, nel cuore della provincia pugliese piagata dal veleno dell’industria siderurgica e dai parassiti che uccidono i secolari ulivi. Come già nel suo film d’esordio, La mezza stagione, Caputo lavora qui

The Assistant Un crimen común

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in immersione negli stati d’animo di personaggi che vivono il loro tempo da disadattati rispetto alla realtà ottusa cui nonostante tutto sentono di appartenere. In questo senso il suo lavoro sulla dimensione sonora, diremmo quasi acustica, della messa in scena serve a elaborare una sorta di percezione emotiva delle problematiche sociali e caratteriali in cui si dibatte la prota- gonista: il rapporto con un padre connivente con le storture e il senso di rassegnazione, la complicità con i margini del mondo circostante, il senso di ribellione che esplode con soluzioni in bilico tra la magia di una spiritualità atavica e la concretezza della rivolta quotidiana, sono tutti elementi di un cinema che ha una sua identità sicura e forte, alla quale bisogna dare tempo e modo di maturare ulteriormente soprattutto sotto il profilo drammaturgico.

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iunto da Telluride e dal Sundance, s’è fatto infine molto apprezzare in Panorama

The Assistant dell’australiana Kitty Green,

elaborazione solida e ponderata di uno scenario tematico da #meetoo trovato sulle amarezze della giornata lavorativa della giovane segre- taria di un importante produttore televisivo. Sottomissione, accettazione di atteggiamenti sessisti, silenzi necessari e obbligati a fronte di comportamenti indecenti e veri e propri abusi di potere sessuale: il campionario è completo e preciso e la messa in scena lavora soprattutto sulla definizione psicologica ed emotiva del vis- suto della protagonista, senza eccessi didascalici ma con tanta dignità argomentativa. Notevole la regia della Green (che fa esperienza dei suoi precedenti documentari) e anche la protagoni- sta Giulia Garner.

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