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semi-seria di sguardi racchiusi in frame reali e immaginari Il

tema è uno solo: dove finisce

l’amore, con il tempo che

passa? Come fare ad amarsi

ancora, quando il tempo è

passato?

(3) François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Edizioni Net, Milano 2002, cit. pag. 182.

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L’hotel degli amori smarriti — Christophe Honoré

dall’altra parte della strada, scostata la tenda e intravisto il marito nell’appartamento di fronte, dà il via ad un dialogo/monologo dove i suoi pensieri, diventano personaggi con forma e di- mensione, e scatenano un turbine di ricordi veri o immaginati. Ma cosa sono i ricordi di persone immaginarie, se non, essendo noi al cinema, flashback? Scriveva Jean-Luc Godard di Ingmar Bergman, altro nume tutelare di Honoré, citato anch’esso nei ringraziamenti nei titoli di coda: «Un film di Ingmar Bergman è, se vogliamo, un ventiquattresimo di secondo che si trasforma e si estende per un’ora e mezzo. É il mondo tra due battiti di palpebra, la tristezza tra due palpiti di cuore, la gioia di vivere tra due battute di mani. Da qui l’importanza primordiale del flashback in queste fantasticherie scandinave di passeggiatori solitari. […] Basta vedere un qualsiasi film di Bergman per notare che ogni flashback finisce e comincia sempre “in situa- zione”, in duplice situazione dovrei dire, perché il colmo è che questo cambio di sequenza, come nel miglior Hitchcock, corrisponde sempre al turbamento interiore del protagonista: in altre parole, provoca un nuovo sviluppo dell’azione» (4). A noi piace pensare che la Maria del film di Honoré debba il suo nome alla Marie interpre- tata da Maj-Britt Nilsson in Un’estate d’amore di Bergman citato da Godard proprio in questo articolo, una ballerina triste tormentata da un tragico avvenimento del passato (la morte del suo ex amante) che riuscirà a fare pace con sé stessa solo dopo una dolorosa, quanto catartica immersione nei suoi ricordi.

A

nche L’hotel degli amori smarriti segue il ritmo disorientato dei turbamenti dell’anima di Maria, ma in una prospettiva più metaci- nematografica ne definisce i limiti e le fessure con porte e finestre che si svelano e si aprono, facendo perno non solo su un mondo vissuto, ma anche, e soprattutto, su un mondo immagi- nato, di cui però è sempre il passato l’elemento scatenante. Riappare, prima di tutti, Richard quando aveva venticinque anni, l’uomo che l’ha fatta innamorare, e che ha sposato, giurando- gli, secondo l’articolo 212 del codice civile fran- cese (Chambre 212 è il titolo originale del film): «Mutuo rispetto, fedeltà, aiuto e assistenza». Ma torna a tormentarla anche la sua defunta ma- dre, che enumera i suoi tradimenti, facendola sentire una poco di buono, i protagonisti delle sue storielle, compreso il galeotto Asdrúbal che ha dato il là a tutto l’inghippo, finanche la sua stessa volontà, incarnata da un Charles Aznavour più brutto e buffo del vero, oltre che Irène, l’insegnante di pianoforte di Richard, sua amante dai tempi dell’adolescenza. Il passato è l’elemento scatenante, dicevamo, che è anche

sostanza e tessuto del tema centrale: «L’amore presente è contraddittorio, perché l’amore si costruisce in un angolo della memoria. E’ il luogo in cui ritrovarsi. L’amore è sempre un passato. È dal passato che facciamo risorgere la certezza dell’amore». Dice Richard a Irène, l’insegnante di pianoforte tornata dal passato per avere una seconda chance, un marito, dei figli, l’amore che le è stato portato via.

M

a siamo sicuri della vera identità di Irène? Noi vediamo in questo personaggio frut- to dei pensieri di Maria, sì l’incarnazione del leggendario amore di gioventù di Richard, ma anche la versione possibile immaginata da Maria stessa di una se stessa senza Richard, senza un marito, che ha coltivato le gioie dell’in- dipendenza e di una sessualità diversa (da qui l’incursione nel futuro, nella casa in riva al mare di un’anziana Irène che consola la se stessa più giovane per quello che non ha avuto), e soprat- tutto, ci sembra, l’ipotesi astratta, non realizza- ta, di una Maria che ha accettato il desiderio di Richard di avere un figlio, bimbo che appare in carne ed ossa oppure sotto forma di inquietante fantoccio via via che diviene elemento deside- rato o respinto. «Come lo avresti chiamato tuo figlio?», chiede Maria a Irène, che risponde: «Non ci ho mai pensato». Ma forse è Maria a non averci mai pensato, fino ad adesso, che il passato è diventato una stanza di albergo af- follatissima. E infatti, come dicono i due Richard a Maria e Irène, la loro è una storia a quattro, un ménage in cui convivono gli io del passato, quelli del presenti e quelli del “sarebbe potuto essere”, in un trionfo di malintesi, confusione, e silenzi. Perché non ci amiamo più? Si chiedono Maria e Richard. Perché pensando di conoscer- ci a fondo, non ci siamo più parlati. «Ritenendo superfluo dire, siamo scivolati in un perenne non detto». L’incantesimo sta per volgere al termine, e parte uno dei tanti brani musicali che Honoré utilizza per dare un titolo metaforico al suo balletto dell’anima: scioltasi dall’abbraccio di un Richard giovane che inizia a non riconoscere più, Maria è pronta a bruciare finalmente il passato, chiudere a chiave chi era e chi avrebbe potuto essere, e a realizzare che è il presente che deve iniziare a coltivare davvero: «Could this be the magic at last?» (5).

(4) Jean Luc Godard, Bergmanorama, apparso sul numero 85 dei «Cahiers du Cinéma», luglio 1958, riportato in «Les Cahiers du Cinéma», La politica degli autori, seconda parte: i testi, Edizioni Minimum Fax, Roma 2003, cit. pag. 76-77. (5) Nel film è citata la canzone di Barry Manilow del 1973 Could It Be Magic.

«Satiari delectatione non possum –

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