• Non ci sono risultati.

C E S C O B A S E G G I O RITRATTO DELL'ATTORE DA VECCHIO pp. 215,10 ili, € 12,50, Gene, Verona 2003 TÌ libro fa parte d'una collana J d i "Profili novecenteschi" diretta da Mario Isnenghi, de-dicata a "vite cominciate fra Otto e Novecento", protago-nisti della storia e della cultura veneta "fra due guerre mon-diali, monarchia e repubblica, fascismo e antifasci-smo, tradizione e modernizzazione". Su questo sfondo, il ritratto d'attore composto da Paolo Puppa è un giusto tassello, ma anche un'allegoria: la vec-chiaia come via al protagonismo. Per gli attori del teatro veneto diventare primattori voleva dire, in piena giovinezza anagrafica, conqui-stare i ruoli della vecchiaia sce-nica, l'età apparente che per-metteva d'esser modernamente Pantalone o uno dei suoi deri-vati, fino ai protagonisti crepu-scolari di Giacinto Gallina e Renato Simoni.

Cesco Baseggio (1897-1972) aveva ventinove anni quando interpretò il vecchio Shylock

(dal Mercante di Venezia di

Shakespeare), tradotto in lingua veneta e aggiustato a protagoni-sta assoluto, secondo un uso dei grandi attori-creatori ottocente-schi. Baseggio continuò a reci-tarlo dal 1927 fino agli anni cin-quanta del Novecento. Puppa commenta: era un copione che praticamente l'attore s'era adat-tato da sé; un grande personag-gio d'avaro interpretato da un attore afflitto dal vizio del gioco e dalla prodigalità. Come i pit-tori, anche gli attori protagoni-sti pensavano all'autoritratto come a uno dei generi della lo-ro arte. E gli attori più intelli-genti non dimenticavano che per essere credibile l'autoritrat-to ha da rovesciarsi, invertirsi, va fatto allo specchio, con la de-stra al posto della sinide-stra a vi-ceversa.

Chi ha l'età per aver visto Ce-sco Baseggio recitare dal vivo fatica in genere a ricordarsi quanto fosse bravo a scatenare la risata. A distanza di tempo, prevale il ricordo all'ingrosso, la doppia faccia del suo reper-torio: struggente, da un lato, fi-no al limitare della sdolcinatu-ra; violentemente plebeo, dal-l'altro, fino ai limiti della volga-rità. Il corpo principale di quel repertorio era Goldoni, ma agli estremi si trovavano di qua un testo da poco: Papa Sarto (un Pio X scritto da Giuseppe Maf-fioli), che permetteva a Baseg-gio una creazione scenica di traboccante commozione, ca-pace di riscuotere durature

im-magini d'una sorta di santità casalinga e sofferente; di là i ca-polavori cinquecenteschi del Ruzante, che Baseggio contri-buì a riportare in auge senza mire filologiche, interpretando-li con una durezza, una cattive-ria, un senso del dramma che viveva nello scatto dall'abiezio-ne alla ferocia.

La recitazione di Baseggio procedeva per curve lente e morbide, rotte da improvvisi morsi. I suoi protagonisti erano dilaganti, come una marea che occupava pian piano l'intero ter-ritorio del dramma e dello spet-tatore, o che entrava in scena

con l'irruenza d'un'i-nondazione. In realtà non dialogava, ma usava gli interlocuto-ri come ostacoli da accerchiare, vincere o sommergere. Men-tre Gilberto Govi, per esempio, o E-duardo, oppure Ran-done, costruivano le proprie scene par-tendo dal seme della controscena, Baseggio era un at-tore attaccante (come Benassi, Musco o Peppino De Filippo). Nelle poche scene in cui non era protagonista, invertiva semplice-mente la direzione di marcia: si ritraeva, si costruiva un guscio, un carattere, vi si chiudeva den-tro, e solo ogni tanto lasciava fuoriuscire dal cliché ben tornito il guizzo di un po' di vita. Que-sto accadeva soprattutto nel ci-nema, in cui non fu mai altro che un'utile figura di contorno (per esempio il servitore di Kean nel film di Gassman del 1956). Nel teatro fu tra le icone dell'epoca. Il teatro veneto ha anche i carat-teri d'un teatro nazionale, non fosse che per la presenza di Gol-doni. Lungo qualche decennio, Baseggio fu visto come l'emble-ma del Goldoni all'antica. Oggi rappresenta semmai il ricordo d'un'originalità diversa, rispetto ai ricordi delle novità di Viscon-ti, Strehler e Squarzina: il Gol-doni di Baseggio non scavava nella società ma nella famiglia-nido-di-vipere, fra echi di per-versione e l'eterna lusinga della dolcezza. Era un Goldoni pasco-liano, più che all'antica. Era mo-derno? Certo che sì. Il teatro di regia non è la sola via alla mo-dernità teatrale. Era moderno nel fraseggio attorico, non nella messinscena o nell'urto col testo. TÌ libro di Paolo, Puppa è un'in-Jchiesta circostanziata e intelli-gente, ha in superficie uno stile indaffarato e affettuoso, ma sen-za darlo troppo a vedere propo-ne un metodo che popropo-ne al centro la sostanza in cui l'attore, come soggetto storico, tutto sommato consiste: memoria in progress. Si apre con l'oggi, col Baseggio che si conserva registrato su pellico-la o in televisione; contrappone alla piccola folla dei suoi perso-naggi minori, ma ancora visibili, l'altra folla dei protagonisti reci-tati a teatro, che non si vedono più ed erano la sua arte. Passa da

| D E I L I B R I D E L M E S E |

Teatro

questi ai personaggi-autoritratto, dove le fattezze dell'attore si sono in parte sedi-mentate nella scrittu-ra, fra cento riscontri autobiografici possi-bili e altrettante pos-sibili traveggole. Su-bito dopo inserisce una sorta di limbo, un capitolo intitolato

Ciacole, dove si

ascolta 0 coro delle testimonianze orali, incontri con la voce anziana di chi lo co-nobbe o lavorò con lui. 31

q :

za del 1 ^ui si fa apprez- l'esperien-za del Puppa non so-lo critico e studioso, ma scrittore e dram-maturgo: lavora sulla sabbia dell'aneddo-tica e fa di essa un panorama

significa-tivo. Non pretende che la con-versazione (o l'intervista) sia co-me una testimonianza di prima mano. La tratta per quel che è: un'onda di oblio dalla quale bi-sogna saper pescare i minuscoli relitti d'un mondo andato. Solo dopo aver attraversato le chiac-chiere, ricostruisce la carriera dell'attore, ne fa storia, appro-da, come dice, ai "dati certi o quasi", mettendo fine alla navi-gazione fra ombre e sipari. Do-po di che spalanca la visuale, in-serisce Baseggio nella storia del teatro veneto, lo profila in un

contesto, sottolinea gli elementi di discontinuità. Il capitolo fi-nale chiude il cerchio, utilizza la vecchiaia dell'attore e la sal-da con il punto di partenza: l'ultima comparsa in televisio-ne, la solituditelevisio-ne, i debiti e i fu-nerali con il discorso in veneto di monsignor Capovilla, che forse per ingenuità, forse per furbo candore, sembra accen-nare alla chiacchierata propen-sione di Baseggio per i bambi-ni, invoca il perdono d'iddio e suggerisce di metterlo là, l'atto-re, nella schiera dei piccoli, cui

apparteneva. Sono episodi che diventa-no metafore per la forza del montaggio, come se, giunto alla fine dell'inchiesta, l'autore si trasfor-masse in un inviato speciale che si guar-da intorno perché è lì per farsi un'idea dei fatti e delle cir-costanze.

Il far storia d'un attore confina

sem-pre con un come se:

come se lo storico fosse uno spettatore dislocato nel tempo. C'è sempre il rischio della prevaricazio-ne critica, l'agguato d'un sapere presun-to, quasi che la di-stanza dal proprio soggetto, e il di lui forzato silenzio, per-mettessero di pene-trare i retroscena di un'arte di cui in realtà cono-sciamo pochissimo. Paolo Pup-pa lo dice subito, quasi ad aper-tura di libro: "Quanto segue è scritto senza reticenze e suddi-tanze, ma come se avessi Cesco davanti a me e potesse ascoltar-mi, non è un discorso alle sue spalle". Una frase così ben tor-nita da assomigliare a una mas-sima di deontologia

professio-nale. g

f.tavianiSquipo.it

F. Taviani insegna scoria del teatro e dello spettacolo all'Università dell'Aquila

Documenti correlati