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I PARLAMENTI DI FERRANTE

4.1 Il parlamento del 1458, ovvero i primi passi nell’arte della dissimulazione Il 27 giugno 1458, a poche ore dalla morte del padre, Ferrante d’Aragona montò a cavallo bene accompagnato da Catellani et Italiani et molto populo, et cum le bandere de questo regno et trombeti scorse la terra et cavalcò per tuti li segii, cridando el populo unanimiter et nemine discrepante: «Viva re Ferrando nostro signore!»; et così, pa- cificamente, senza esserse messo mano ad una sola coltella, la signoria sua, obtenuta la cità ritornò in Castelnovo, dove et da signori et zentilhomini è stato visitato, veduto et honorato come re; così se spera che in tuto lo reame non se farà novità alcuna1.

Nel dispaccio dell’oratore sforzesco lo spazio per il lutto è praticamente inesi- stente, sbilanciato in favore della cavalcata trionfale con cui Ferrante prese possesso del castello e della città. Con il corpo del Magnanimo ancora caldo non c’era molto da festeggiare, si direbbe, e invece il nuovo sovrano alla fine di quella giornata poté certamente dirsi soddisfatto del modo in cui popolo e baroni plaudirono alla sua successione sul trono di Napoli2. L’avvicendamento di un regnante è da sempre un

momento di estrema delicatezza: Ferrante e il suo più stretto entourage ne erano ben consapevoli. In tale prospettiva acquistano particolare significato le parole dell’ora- tore sforzesco. Non gli è sufficiente dire che l’evento è avvenuto pacificamente, ma avverte il bisogno di sottolineare che non è stato necessario mettere mano alle armi, 1 Lettera di Antonio da Trezzo a Francesco Sforza: Dispacci sforzeschi, I, p. 659, nota 262. Cfr.

anche Nunziante, I primi anni, XVII (1892), pp. 731-733.

2 Come è stato messo a fuoco nel capitolo precedente (§ 3.1, tabb. 8 e 9) la successione sul trono

di Napoli di Ferrante fu speculare a quella paterna del 1443; l’apparato di eventi simbolici fu il medesimo, solo più dilatato nel tempo e adeguato alle necessità del momento.

come se la possibilità fosse stata tutt’altro che remota. E a ribadire il concetto fa eco la speranza che, così come è avvenuto in città, anche in tutte le altre terre regnicole non si verifichino novità, ossia focolai di rivolta. Il pericolo c’era e non tardò, come è noto, a palesarsi3. I nemici pronti a colpire erano numerosi: dai Catalani, favorevoli

all’ascesa sul trono di Carlo de Viana, a papa Callisto III; da alcuni baroni (primo tra tutti il principe di Taranto) al pretendente francese, Giovanni d’Angiò. Basta scorrere la corrispondenza diplomatica per trovare disseminate qua e là tracce dei timori, degli abboccamenti e dei colloqui chiarificatori, delle mosse incaute di alcu- ni o delle relazioni sospette di altri4.

La malattia di Alfonso e le sue ultime vicende terrene furono seguite da vicino da molti, e anche di più furono coloro che scrissero della sua morte senza essere presenti. L’incrocio tra fonti diplomatiche e storiografiche ha permesso di tracciare un quadro decisamente intrigante, da cui emerge come la verità sia stata talvolta piegata a seconda della convenienza5. In particolare, le ultime parole attribuite al

Magnanimo rappresentano quasi il programma di governo del suo erede. Cronisti e cortigiani rivisitarono il dettato di Alfonso a Ferrante a seconda delle finalità politi- che che si proponevano. Singolare è per esempio la versione stilata qualche mese più tardi dall’arcivescovo di Firenze. Nel suo Chronicon, consapevole della crisi politica che ormai stava maturando, sant’Antonino mette in bocca al defunto suggerimenti irreali: se fossero veri, rappresenterebbero infatti un rinnegamento da parte di Al- fonso della sua condotta politica. Quel che il prelato scrive è piuttosto una versione adattata alla mutata situazione politica; a fronte di un clima di ostilità antiarago- nese già palese, le consegne ultime del Magnanimo sembrano voler impedire al suo erede di ripetere alcuni errori paterni. Pure l’oratio ad filium, dell’umanista Antonio Beccadelli, tradisce la sua composizione successiva all’evento. Dietro a essa si perce- piscono ormai gli esiti della ribellione baronale e della repressione che ne seguì, tan-

3 Non esiste a tutt’oggi una biografia esaustiva su Ferrante d’Aragona, ma il periodo in questio-

ne è stato oggetto di attenzione e studio da parte di diversi storici, a partire da Nunziante, I primi anni di Ferdinando d’Aragona e l’invasione di Giovanni d’Angiò (1458-1464); Pontieri, Per la storia del regno di Ferrante I; Poteri, relazioni, guerra; Storti, «El buen marinero»; cui bisogna aggiungere l’edi- zione dei Dispacci sforzeschi da Napoli (con l’ampia fioritura di studi e ricerche collaterali), la tesi di dottorato di De Filippo, Ferrante d’Aragona e infine le voci enciclopediche curate da Volpicella (in Regis Ferdinandi primi instructionum liber, pp. 241-245), Alan Ryder (Ferdinando I) per il Dizionario Biografico degli Italiani, Claudia Vultaggio (Ferdinand I) per il Lexikon des Mittelalter e Francesco Senatore (Ferrante d’Aragona), per l’Encyclopedia of Diplomacy.

4 Cfr. Dispacci sforzeschi, II; Senatore, La cultura politica; Storti, «El buen marinero». 5 Senatore, Le ultime parole.

to che questo capolavoro di oratoria civile può a buon titolo essere considerato «una delle ultime riflessioni del Panormita sulla travagliata successione di Ferrante»6.

Al momento del suo insediamento, dunque, Ferrante era debole. I motivi erano diversi. Il primo potrebbe essere il più generico defectus tituli. Secondo le teorie di Bartolo da Sassoferrato, poi riprese da Coluccio Salutati e altri umanisti, questa era la condizione della maggior parte dei governanti italiani del bassomedioevo: tiran- ni ex defectu tituli, bisognosi di trovare continue conferme nell’esercizio della loro missione. Quando doveva salire sul trono aragonese di Napoli, nel giugno del 1458, Ferrante d’Aragona non faceva eccezione. Anche se nel § 3.1 abbiamo sostenuto che la legittimità del Magnanimo era fuori discussione, tale limite aveva sfiorato pure Alfonso, ed era quello di qualunque formazione statuale rinascimentale7.

Per lui, questo ostacolo si sovrapponeva però a quello, ben più evidente, di essere figlio naturale del defunto sovrano. Pur essendo stato designato dal padre come suo successore sul trono di Napoli, e pur essendo acclamato dalla feudalità in un par- lamento addirittura precedente alla conquista del regno da parte del Magnanimo, Ferrante era un bastardo. Risalente forse già al gennaio del 14418, l’originale richie-

sta del baronaggio a un re che ancora stava completando la sua opera di conquista del Mezzogiorno d’Italia fu probabilmente una sorta di accordo, i cui contenuti si colgono nelle parole che, diciassette anni più tardi, l’acuto oratore sforzesco usò per definire la successione di Ferrante: «Molto se mostrano contenti questi Neapolitani de questo stato, et dicono che hora hanno uno re ad loro modo, cioè taliano, perché

6 Ivi, p. 258. Da rilevare che proprio Panormita, nell’esordio alla sua biografia sugli anni gio-

vanili di Ferrante, glissa abilmente sulla condizione di figlio illegittimo del nuovo monarca: Panor- mita, Liber rerum gestarum, pp. 71 e 93.

7 Sul concetto di tirannia e sul problema della legittimazione dei signori quattrocenteschi,

veicolato attraverso i principali umanisti del tempo, cfr. Cappelli, Sapere e potere; Id., La otra cara del poder; Id., Il tiranno rinascimentale e il recentissimo Maiestas. In realtà, rispetto a quella di suo figlio Ferrante, la posizione di Alfonso I d’Aragona era per certi versi più vacillante: egli non vantava una discendenza reale diretta sul trono di Napoli, ma la faceva risalire – giuridicamente parlando – al processo di adozione da parte della regina Giovanna II, di cui era stato protagonista nel 1419. Su queste tematiche confronta la recente monografia di Fulvio Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l’invenzione dell’umanesimo monarchico, il cui sottotitolo Ideologia e strategie di legittimazione alla corte aragonese di Napoli è chiaramente rivelatore dei contenuti.

8 Cfr. scheda 1. Come si è detto nel precedente capitolo, la successione di Ferrante sul trono

di Napoli, dopo la morte di Alfonso, era stata comunque trattata ampiamente anche nel primo parlamento generale del Magnanimo (2.5.4-5): il 2 e il 3 marzo 1443 Ferrante aveva accolto il giuramento dell’omaggio e la promessa di una sua successione sul trono da parte dell’assemblea.

questo se è allevato cum loro»9. Se, dunque, da un punto di vista della legittima-

zione dal basso il nuovo sovrano poteva anche sentirsi (quasi) al sicuro, sapeva però bene che formalmente la sua posizione lo poneva al di fuori della legalità. Una bolla di papa Eugenio IV del 14 luglio 1443 aveva infatti concesso ad Alfonso I «l’inve- stitura del regno di Napoli per sé e i suoi eredi mascoli e femmine, legittimamente descendenti, per retta linea, del suo corpo» e Ferrante non lo era10.

Il terzo e ultimo elemento di debolezza era invece materiale. Due sono le pa- role chiave: denaro ed esercito. Il 5 luglio 1458, a pochi giorni dalla morte del genitore, Ferrante aveva avuto un colloquio riservatissimo con l’oratore milanese Antonio da Trezzo, al quale aveva parlato a cuore aperto, come se si fosse rivolto direttamente a Francesco Sforza, che considerava alla stregua di un secondo padre. In quell’occasione il giovane re si era mostrato quasi sorpreso per la successione pacifica, ben consapevole delle difficoltà nascenti nella curia papale e della necessità di cominciare ad allestire un buon esercito «per fare tenere la briglia in mano ad chi volesse machinare contra sua maiestà»11. Come inizio si proponeva di assoldare

la compagnia di Giacomo Piccinino, consiglio che – diceva – faceva parte delle ul- time volontà paterne. Col tempo, come hanno dimostrato le indagini di Francesco Storti, il nuovo sovrano aragonese avrebbe poi armato un proprio esercito12. Per fare

tutto questo gli era necessario denaro. Ed è qui che la faccenda si complica. L’eredità monetaria lasciata da Alfonso al figlio non era particolarmente importante, ma lo sapevano in pochi, come era giusto fosse, e lo sappiamo noi oggi. Anche con l’aiuto di Francesco Sforza, che su questo punto si era rivelato assai attento e prodigo di consigli, Ferrante divulgò l’esistenza di un importante lascito paterno, con la spe- ranza di raffreddare gli animi dei possibili nemici13.

9 Dispacci sforzeschi, I, p. 660, nota 262.

10 Delle Donne, Alfonso il Magnanimo, pp. 107 e 109; Id., Il trionfo, pp. 453-455.

11 Dispacci sforzeschi, II, p. 11, nota 3. Il documento è stato studiato da Montuori - Senatore

(Discorsi riportati, pp. 529-531), con una raffinata analisi linguistica delle lettere che in quel perio- do viaggiarono tra Napoli e Milano, tesa a evidenziare l’efficacia della cultura retorica del nuovo sovrano e lo strategico uso del sostantivo pater a qualificare il suo rapporto di subordinazione filiale nei confronti di Francesco Sforza.

12 Storti, L’esercito; Id., Il lancieri del re.

13 Il duca di Milano aveva suggerito a Ferrante di «farse più richo et potente che ’l non è» già

a pochi giorni dalla scomparsa di Alfonso, in un dispaccio del 12 luglio 1458: Dispacci sforzeschi, II, p. 70, nota 6. Contestualmente aveva aiutato il nuovo sovrano a diffondere ad arte notizie sulla sua presunta ricchezza, sia facendo confezionare una lettera reformata dagli strateghi della sua cancelle- ria, sia istruendo i suoi uomini, come per esempio l’oratore inviato presso il pontefice. Cfr. Senatore, Le ultime parole, pp. 254 (nota 26) e p. 263, in cui si evidenzia che nella lettera reformata, a pro-

Il monarca fece tesoro dei suggerimenti paternalmente dispensatigli da Francesco Sforza: oltre a guardare all’esterno, cercando di rinsaldare l’alleanza con alcuni stati della Penisola14, mirò a condurre una politica interna tesa ad «acquistarse lo amore et

benivolencia de li signori et popoli»15. In tal senso era di basilare importanza il man-

tenimento del consenso del gruppo baronale, sia con promesse di concessioni future sia attraverso un almeno parziale allontanamento della componente catalana, invisa ai più e inserita in molti ruoli strategici16. Tutto questo andava contrattato e infatti,

contestualmente all’avviso della morte del genitore, da Castelnuovo partì la convoca- zione per il parlamento generale che si sarebbe tenuto a Capua il successivo 25 luglio (15.1). Se sulla carta il nuovo sovrano poteva anche sembrare debole, e per certi versi lo era, nel suo animo la strada da percorrere doveva essere già ben chiara. Il parlamento generale del luglio del 1458 si profila come la prima esercitazione pubblica in quell’ar- te della dissimulazione della quale, ben presto, Ferrante diventerà campione. D’altro canto, anche in questo, Francesco Sforza fu un maestro eloquente: «Qui nescit fingere nescit regnare» gli scrisse sin dal settembre di quello stesso anno17.

Nella sua prima assemblea generale il nuovo re riuscì a coniugare le varie esigenze che gli si paravano davanti, ammantandole con l’abito scintillante delle virtù. Come ha scritto Fulvio Delle Donne, «tutto era scritto in un copione che non aveva bisogno di essere definito con precisione. Un regno si conquista con le armi, ma i sudditi si sottomettono solo guadagnandone, anzi organizzandone il consenso e l’accettazione ideologica»18. Quest’ultima Ferrante già la possedeva (almeno presso i più), era sul

consenso generale che doveva lavorare: lo ottenne a larga maggioranza, con una bril- lante manovra proprio in fase parlamentare. Bisognoso di denaro, come abbiamo vi-

posito del lascito alfonsino, le parole «inextimabile supellectile» sono efficacemente sostituite da «inexpugnabile forze, de uno grande thexoro et de tanta quasi inextimabile richeza et supelectile». Un resoconto delle ricchezze regie, all’indomani della successione sul trono, si può leggere in 15.10.

14 In un brano opportunamente cifrato, inserto in un dispaccio dell’oratore milanese del 5

luglio 1458, fu lo stesso Ferrante a chiedere a Francesco Sforza la cortesia di «volere perscrutare li animi de’ Venetiani et Fiorentini per intendere come restano contenti che la maiestà soa habia obtebuto questo regno», Dispacci sforzeschi, II, p. 12, nota 3.

15 Senatore, Le ultime parole, p. 254.

16 In realtà, come ha dimostrato Del Treppo (Il regno aragonese, pp. 107-110) la componente catalana

fu tutt’altro che allontanata: in molti uffici chiave – oltre che tra doganieri, credenzieri e maestri portola- ni, ma anche tra i sette grandi ufficiali – si rileva una continuità catalano-aragonese veramente spiccata.

17 La frase, chiosata come «Molte cose se possono fingere et adaptare per aconzo delle cose et

contentamento d’altri», è contenuta in un dispaccio dello Sforza al suo oratore a Napoli (Antonio da Trezzo) del 29 settembre 1458, Senatore, Le ultime parole, p. 254, nota 27.

sto, ma impossibilitato a dichiarare apertis verbis quale fosse la reale consistenza delle casse regnicole, il sovrano giocò d’astuzia. Il suo discorso fu inizialmente incentrato sulla pietas e la magnanimitas: «Luy haveva sempre havuto compassione ad tuto questo regno, che fossero agravati de tante graveze […], et per questo haveva bono animo et voluntà de exgravarli in grande parte». Poi l’attenzione fu spostata sulla iustitia, attri- buendo sottilmente la responsabilità al pontefice: «Del che era casone el papa, el quale iniustamente cercava de molestarlo in questo regno», costringendolo a «fare grande spese de gente d’arme et d’altro». Infine, senza accusare il padre di avergli lasciato un debito di 4.000 ducati, ma sottolineando il suo dovere di soddisfare a tale esigenza, muovendosi quindi ancora sul terreno della iustitia, ma anche della benignitas, «disse [ai baroni] che li remetteva et absolveva liberamente dal pagamento de le due collette che se ponevano ogni anno per fare la impresa contra el Turcho, la quale ascendeva annuatim la summa de ducati liim vel circa» (15.9).

È da questo momento in poi che Ferrante comincia la sua partita. A un’assemblea che dalle fonti appare insoddisfatta nonostante lo sgravio ottenuto – speranzosa di veder abolita anche un’altra tassa introdotta da Alfonso due anni prima, lo adiuncto, in base al quale la gabella sui fuochi e sul sale era stata raddoppiata e portata a due duca- ti – il sovrano oppose una finta resistenza. Convocò separatamente i signori regnicoli con l’intento di «cognoscere quanto se poteva ayutare de loro» e, «trovato che ogniuno stava paciente ad quello che sua maiestà voleva», deliberò non solo di accogliere la loro richiesta, ma anche di rifiutare una colletta di 60.000 ducati offertigli dagli stessi sud- diti. Benché Ferrante dicesse che il suo fine non era quello di «volere tributo da loro de complacentia», l’oratore sforzesco non mancò di osservare che la manovra gli aveva garantito un’impennata di popolarità, anche se le casse regnicole non traboccavano certo di moneta. Quasi minimizzando, il re fece notare che

fin al primo dì havea in sì deliberato de fare questa revocatione de lo aiuncto, ma ha voluto usque ad ultimum tenere secreto questo suo pensiero et mostrare tuto lo contrario, per fare prova de la voluntà de dicti signori in vedere quanto stavano obedienti et pacienti alla voglia sua et intendere li animi loro verso sì (15.9).

Che lo si voglia chiamare gioco delle parti o negoziazione, il risultato non cam- bia: sia i baroni sia il nuovo sovrano portarono a casa un buon risultato19. Ma, anche

19 Quasi entusiastici i toni con cui Ferrante narrò a Francesco Sforza l’esito del parlamento e di

se aveva seminato bene, Ferrante sapeva che non tutti erano disposti a riconoscere la sua autorità. Col pervicace principe di Taranto – Giovanni Antonio del Balzo Or- sini – che si era dimostrato fin da subito intenzionato a non prestargli giuramento di fedeltà, il sovrano adottò la medesima strategia: cedere su tutta la linea e conce- dere anche più del necessario20. Per mesi, fino all’arrivo del pretendente angioino,

Giovanni d’Angiò, e alla conseguente dichiarazione di guerra, «il principe simulò la volontà di un’intesa e il re dissimulò, finse di credervi»21. Come già aveva fatto

suo padre, il nuovo sovrano doveva giocare su più piani politici: quello tangibile, nell’agone politico e militare, e quello più sottile della costruzione del consenso e di un’immagine pubblica. Ferrante seppe magistralmente approfittare dei lunghi mesi di schermaglie con l’Orsini per diffondere in amici/alleati (e pure nei nemici) la sembianza di una maiestà savia contrapposta alla malignità del suo rivale. La figura del re come riflesso positivo di quella del principe: summa iustitia et honestate contro

iniusticie et desonestate22.

In questo processo si avvalse degli uomini di cultura che già avevano fatto gran- de il padre, coloro grazie ai quali in un momento imprecisato il genitore era di- ventato il Magnanimo23. Antonio Beccadelli, meglio conosciuto come il Panormita,

non mancò mai di usare la sua brillante retorica a sostegno di Ferrante: il suo Liber

rerum gestarum Ferdinandi regis, composto nel 1469, traccia una biografia del giovane

regnante fino a quel momento, idealizzandolo e calcando l’accento sulle sue virtù24.

Ma già nel 1459, in piena prima congiura dei baroni, l’umanista si era prodigato per diffondere e «rafforzare la facies del monarca umano e mite»25. Era una masche-

ra quella che Ferrante cominciò a calarsi periodicamente sul volto, e negli anni la modellò, fino all’episodio straordinario che siglò la fine della seconda congiura dei baroni nell’agosto del 1486. L’arresto a sorpresa, durante un banchetto nuziale, dei maggiori congiurati – che erano anche tra i suoi più stretti collaboratori – la dice lunga sul livello di perfezione raggiunto da Ferrante nell’arte della dissimulazione26.

20 Storti, «El buen marinero», p. 18. 21 Ivi, p. 22.

22 Ivi, p. 31.

23 Delle Donne, Alfonso il Magnanimo, pp. 30-31. 24 Ivi, pp. 58-59.

25 Storti, «El buen marinero», p. 29.

26 Ivi, pp. 93-94 e 146, Storti parla dell’enigmatica impenetrabilità di Ferrante come di un

habitus, studiato e affinato, ma anche supportato dal carattere e da motivazioni ideologiche ben precise. Dello stesso autore cfr. anche un precedente intervento: Id., L’arte della dissimulazione. Sullo spettacolare arresto dei congiurati durante le nozze tra Marco Coppola e una nipote del re vedi

C’è quasi da chiedersi se qualcuno lo conoscesse veramente.

Il primo parlamento generale fu dunque per Ferrante una scelta obbligata. Da un lato egli doveva rassicurare i sudditi, mostrando loro di porsi in continuità con la figura paterna; dall’altro gli serviva cominciare a misurare il consenso e le sacche di resistenza, che in effetti non tardarono a emergere. I dispacci di quel periodo aggior- nano sistematicamente la lista dei baroni fedeli, di coloro che si erano già presentati a corte e di coloro che, accampando svariate scuse, stavano tergiversando27. Scelta la

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