1 «Un alternarsi di fiducia e di sconforto»
3. La parola come atto
La parola, per Landolfi, ha la sua reale efficacia solo se ha la facoltà di porsi concretamente come un atto creatore. Anche da questa inadeguatezza del linguaggio nasce la sua concezione di letteratura impossibile. L'impossibilità è la risultante di un rapporto dialettico angoscioso, l'ultimo approdo dell'itinerario estetico-filosofico dell'autore. Paradossalmente, essa si presenta come l'unica soluzione accettabile dell'arte landolfiana. Ne La biere du pecheur, ad esempio, Landolfi, dopo un'inutile accumulazione di dati e descrizioni accessorie, si accorge di rincorrere, ancora una volta, la sua «mania dell'impossibile in letteratura, ossia di voler ottenere (per tradurre ciò provvisoriamente) dalla parola scritta quanto essa non può dare».45 Pochi anni più tardi, nello stesso periodo della traduzione delle
liriche di Puškin, la stigmatizzazione è perpetrata dal protagonista dell'opera considerata dall'autore stesso il proprio capolavoro,46 il poema drammatico
Landolfo VI di Benevento:
In parole infeconde, torve e fosche Ho sperduto, consunto il corto nervo. Dove l'atto che incide e che è proficuo A sé se non ad altri, dove, ancora, La parola che illumina e che guida?
44 T. LANDOLFI, Il tradimento, cit., p. 150. 45 T. LANDOLFI, Opere I (1937-1959), cit., p. 593.
46 In occasione del ritiro del premio Montefeltro, del 1962, nel corso dell'unica intervista televisiva concessa nella sua vita (l'intervistatore era l'amico Leone Traverso), Landolfi ammise: «quale libro dei miei io preferisco? […] Il
Landolfo, che nessuno dei presenti, non dico dei telespettatori, ma neanche di questi pochi presenti, ha letto. È
senz'altro il mio miglior libro, e per conseguenza il meno apprezzato». Questo passo è riportato anche da Giovanni Maccari nel suo saggio Il tempo della poesia, cit., p. 22.
No: confuse parole, a quegli stesso, A quel me stesso che le pronunciava...47
È ancora la tensione verso una meta irraggiungibile, verso la ricerca disperata di una «parola che illumina e che guida» a tormentare la pagina di Landolfi. È, inoltre, possibile ravvisare una reminiscenza dalle «confuses paroles» della poesia
Correspondances di Baudelaire (anch'essa naturalmente inserita nella citata Anthologie).
L'insufficienza verbale è posta a confronto con la vanità dell'azione, laddove nell'Introduzione alle liriche di Puškin si richiedeva alla parola di «realizzare il passaggio […] da una potenza a un atto». Non a caso il desiderio di dare alla poesia la facoltà di agire sul mondo fenomenico emergerà ancora all'interno del
Tradimento in una lirica intitolata Puschiniana:
Perché si chiude in un'oscura dimensione,
Perché non prende aria, sole e vento la mia canzone, Perché non so indurre ad affiorare
Il diavoletto pervicace che voglia con me gareggiare? Di corrugare il mar li ho minacciati,
E son rimasti molto preoccupati. Ma il fatto è che il mare si corrugherà,
Non dico subito: nondimeno verrà tale momento, E verrà anche senza il mio intervento,
Ossia senza quello delle mie molte e sciocche parole, E sarà, in fondo, al primo giro di sole,
Giacché vicino, vicino, vicino, È il giorno preveduto dal destino, Il giorno dei buffetti in fronte.
Ecco, questa deviazione o scarroccio o deriva È quella che sostiene la poesia.48
Il rapporto tra parola poetica e atto generatore si ripresenta più volte all'interno delle raccolte poetiche landolfiane, specialmente in Viola di morte, dove la creazione è contemplata come la meta più ambita del linguaggio.
47 T. LANDOLFI, Landolfo VI di Benevento, cit., pp. 964-965. 48 T. LANDOLFI, Il tradimento, cit., p. 39.
Dove non è posta in rilievo l'inadeguatezza della parola il problema è costituito dall'accidia dell'uomo, il peccato in cui sembrano maggiormente incorrere i personaggi landolfiani, «la malavoglia fitta nel profondo». La creazione è dunque possibile, ma «se la parola non si mostra chiara/Si dissolve l'azione»:
Creazione del mondo, a noi concessa Epperò invisa, sanguinosa messa Che non mai sosterrà la nostra fede! Ché forse il mondo intero rifiutiamo Però che appunto è nella nostra mano.49
Raramente, allora, la parola potrà ambire a costituirsi come creazione, come atto in grado di incidere sul «mondo fenomenico», come in questi versi: «Una brusca parola il sole spenge:/Una soave accende/ La speranza sui lidi di Plutone».50
Potenza verbale che Landolfi mutua, pare, dai lirici russi a lungo letti e tradotti. Un passo della poesia La parola di Nicoláj Gumilev, nella traduzione di Poggioli, potrebbe rappresentare la fonte di questi versi:
Quando il volto sulle terre sole Dio piegava e la sua volontà, con parole si fermava il sole e si distruggevano le città.51
Ma l'illusione ha breve corso e un epigramma sintetizza con acutezza e ironia tipicamente landolfiane la convinzione che la parola non possa raggiungere lo
status di suprema azione creatrice perché l'atto stesso è impossibile di per sé: «È
più facile fare che dire,/Ma fare è già impossibile».52 Landolfi stesso si definisce il
poeta dell'impossibilità, della mancanza di legame tra la parola e il destino: «Impossibilità,/Dea senza altare, forse/Nelle età da venire/Io sarò detto il tuo cantore./[...]/Parole come Nubigena, Argiva,/Più non evocheranno/Quell'umano
49 T. LANDOLFI, Viola di morte, cit., p. 16. 50 IVI, p. 196.
51 R. POGGIOLI, Il fiore del verso russo, cit., p. 334. 52 T. LANDOLFI, Viola di morte, cit., p. 92.
destino/A cui ci credevamo avvinti».53
La speranza allora si afferra alla volontà di «sfuggire alla morte/Con un sublime pigolio», con la bellezza di un verso che sia «la canzone tratta a filo d'argine». In questa lirica (Vasto tumulto di passioni) la vana ricerca della parola si presenta impossibile quanto la ricerca del Creatore, colui che ha generato l'universo proprio per mezzo di essa:
O Dio, per quanti incogniti sentieri Noi t'abbiamo cercato:
Volevamo deporre ai tuoi piedi Ciò che per noi sarà, che è stato; Volevamo affidarti la parola
Che conquista e dirime, e dalla folla Degli eventi, degli enti, degli affetti Volevamo traessi il senso eletto Che ci desse da vivere e morire.54
L'obiettivo sembra quello di eludere la morte tramandando ai posteri la propria arte nella speranza che essa attraversi i secoli senza rendersi oscura agli uomini. Se la vanità di un linguaggio che non può farsi eterno invalida la grandezza della poesia, per quale motivo e per chi scrivere? Questo è uno dei tanti dilemmi landolfiani. Il passato e la tradizione pesano sull'arte, il futuro la vanifica, ed entrambi gravano sul presente come un'ipoteca:
Non solo il nostro linguaggio Si perde
Nella tomba verde Del mare selvaggio,
Sprofondato nel maelstrom, Travolto dal maestro – Ma la nostra scrittura, Che alle lontane generazioni Sarà cifra oscura.
Non avremo saputo neppure Rendere in chiare note la figura
53 IVI, p. 284. 54 IVI, pp. 58-59.
Delle nostre passioni.55
Un linguaggio costruito sulla tradizione, sulle fonti della poesia e della prosa landolfiane, e che in queste si annulla. Un rimando probabile è, forse, alla montaliana Elegia di Pico Farnese, una delle tre poesie delle Occasioni composte nel '39, poco dopo un soggiorno del poeta ligure presso il borgo natio dell'amico Tom. Già nella lirica erano presenti riferimenti al romanzo landolfiano La pietra
lunare, pubblicato pochi mesi prima delle Occasioni. Nell'Elegia i versi 27-31
riportano una strofetta che, insieme ad altre due, si differenzia dal resto della composizione per la misura più breve e cadenzata dei versi. Si ravvisa nelle due liriche persino la stessa rima perde-verde:
'Grotte dove scalfito luccica il Pesce, chi sa quale altro segno si perde, perché non tutta la vita è in questo sepolcro verde'.56
I versi della prima strofa potrebbero, inoltre, riferirsi alla raccolta poetica di Adriano Grande, La tomba verde.57 Nell'omonima poesia di quella raccolta il
sepolcro è paragonato, in effetti, al mare che sommerge il poeta: «Nel torpor vegetale dell'Estate/tosto la pace delle cose inconsce,/delle terre sommerse e abbandonate,/m'invase come una marea che sale».58 Ma quello landolfiano è
tutt'altro che un «dolce naufragare» come invece potrebbe essere definito l'abbandono di Grande. È, anzi, un agonizzante sprofondare paragonabile alla sorte di uno dei personaggi del racconto di E. A. Poe Una discesa nel Maelstrom. È probabile che la poesia vi si riferisca direttamente con l'uso di questo termine ricercato, che Landolfi adopera in quegli anni anche nell'elzeviro Diario perpetuo.
55 IVI, p. 131.
56 E. MONTALE, Tutte le poesie, cit., p. 182.
57 A. GRANDE, La tomba verde, Torino, Ribet, 1929. 58 IVI, p. 53.
Sull'orlo di un imbuto, trattando dell'inutilità della conoscenza e dell'arte di fronte
all'inevitabile traguardo della vita:
Sì. Io, nato, cominciai ad aggirarmi sull'orlo di un imbuto. Sapevo che di qua si sdrucciolava, che nel mezzo del mio mondo c'era un buco; ma sapevo anche che di là c'era il nulla; e così giravo e giravo sull'orlo dell'imbuto. Finché (era fatale) ci caddi dentro, e tutto si restrinse. Poi scivolai ancora più in giù, come discendere nel Maelstrom, e via e via.59
Il brano, all'interno del quale si possono individuare diversi endecasillabi e settenari, un'assonanza (imbuto-buco) e le ripetizioni («sull'orlo di un imbuto […] sull'orlo dell'imbuto»; «giravo e giravo»; «e via e via») è una potenziale composizione in versi dissimulata, pratica, come si è visto, piuttosto ricorrente nell'opera landolfiana.