Tommaseo, Sinonimia distintiva, Roubaud, Sentimento patriottico, Uso.
Abstract
Niccolò Tommaseo, uno dei personaggi principali della letteratura italiana dell’Otto- cento,fu poliedrico scrittore,ma anche un importante lessicografo. Il suo nome in que- sto campo è legato al Dizionario dei sinonimi (1830) e al Dizionario della lingua italiana (1861 1874). Particolarmente interessante la Prefazione al Dizionario dei sinonimi dove attingendo ai lavori precedenti o contemporanei dei sinonimisti italiani e stranieri Tommaseo si colloca in una prospettiva internazionale. Riconosce l’abbé Girard come capofila degli studi sulla sinonimia distintiva, ma è soprattutto Pierre-Joseph Roubaud che attira la sua attenzione per la varietà nella scelta degli esempi e l’arguzia delle sue distinzioni. Come Roubaud coltiva il senso morale nelle scelte linguistiche che in lui si accompagnano a un forte sentimento patriottico. Entrambi sono attenti al problema dell’affissazione che in Tommaseo si estende fino allo studio dei diminutivi e ricono- scono ugualmente il ruolo essenziale dell’uso come «arbitro delle lingue». Di Roubaud Tommaseo critica le teorie etimologiche che spesso si perdono in un «labirinto» di fumose congetture. La filiazione a Roubaud si afferma nell’impegno di rivendicare il valore morale della ricerca sui sinonimi: per Roubaud si tratta di postulare la «notion exacte des mots» per Tommaseo significa trovare la «proprietà» della parola, capace di «agevolare lo studio e l’insegnamento delle scienze».
Niccolò Tommaseo,one of the main personality in the Italian literature of the nine- teenth century, was a versatile writer, but also an important lexicographer. His name in this field is bound to the Dictionary of Synonyms (1830) and to the Dictionary of Italian
language (1861-1874). Particularly interesting is the Preface to the Dictionary of Syn- onyms where, drawing from the previous or contemporary works of Italian or foreign
synonymists, Tommaseo takes his place in an international perspective. He recognized abbé Girard as a leader of the studies on the distinctive synonymy, but is above all Pierre-Joseph Roubaud who attracts his attention for the variety in the choosing of the examples and the wit of his distinctions.As Roubaud he cultivates the moral sense in the linguistic choices that in him go with a strong patriotic feeling.They both care the problem of the affixation than in Tommaseo spreads to the study of diminutives and they both equally recognize the fundamental role of use as «arbiter of language». Tom- maseo criticizes Roubaud’s etymological theories that often get lost in a «labyrinth» of tortuous conjectures.The filiation to Roubaud asserts in the commitment to claim the moral value of the research on synonyms: for Roubaud it deals with postulating the «exact notion of words», for Tommaseo it means to find the «propriety» of word able to «facilitate the study and the teaching of sciences».
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ssi diseppiaCome scrive Contini in Introduzione a «Ossi di seppia», «c’è un mito in Montale, che riesce proprio centrale alla sua poesia: ben più che il mare; ed è l’ora del meriggio»1. In effetti, l’ora più ricorrente e perturbante degli Ossi è il mezzogiorno, tendenzialmente mostrato nel suo dispiegarsi estivo. Un mezzogiorno che pesa verticalmente sulla realtà, ricoprendola di una luce arroventata e disseccante. Nei dintorni affocati del meriggio dipinti da Montale si percepisce con bruciante acutezza il dolore che intride l’esistenza, l’inaridirsi della linfa vitale e il «male di vivere» (Spesso il male…, v. 1)2.
Proviamo a seguire il filo rosso dell’opprimente calura lungo lo snodarsi della raccolta: la seconda lirica degli ‘ossi brevi’ è in gran parte giocata sulla percezione lenticolare della terra riarsa e screpolata: «un rovente muro d’orto»; «Nelle crepe del suolo»; «nel sole che abbaglia» (Meriggiare…, vv. 2, 5, 13), cui vanno aggiunte le rime sterpi: serpi e formiche: biche (vv. 3, 4, 6, 8), di chiara ascendenza dantesca, a rimarcare la negatività infernale che permea la sfera mondana3. Nella silloge spiccano inoltre i seguenti sintagmi: «nella 1 G. contini, Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Torino, Einaudi, 2002, p. 12. Il capitolo da cui si cita uscì in veste di articolo (con il titolo Introduzione a Eugenio Montale) nel 1933.
2 Le poesie di Montale menzionate in questo studio, laddove non segnalato altrimenti, appartengono alla silloge Ossi di seppia; l’edizione cui mi rifaccio è E. MontalE, L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Torino, Einaudi, 1980.
3 Cfr. T. arviGo, Guida alla lettura di Montale. «Ossi di seppia», Bologna, Carocci, 2001, p. 88: «forza visiva che sprigionano le rime “aspre e chioccie” ad abbozzare le forme di un “inferno in terra”». Le rime dantesche riecheggiate da Montale sono sterpi: serpi e formiche: biche, con perfetta identità dei rimanti (Inferno, XIII, vv. 37, 39; XXIX, vv. 64, 66; traggo le citazioni della Commedia da d. aliGhiEri, Le opere di Dante Alighieri. Edizione Nazionale a
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caldura»; «i nostri animi arsi» (Non rifugiarti…, vv. 4, 20); «terreno bruciato dal salino» (Portami…, v. 2); «l’incartocciarsi della foglia / riarsa» (Spesso il male…, vv. 3-4 - con il rejet che rende ancora più incisivo l’aggettivo-)4; «Il sole in alto, - e un secco greto»; «L’arsura, in giro» (Gloria …, vv. 5, 9); «l’orto assetato»; «all’afa stagna»; (Il canneto…, vv. 3, 4); «in un’aria di vetro, / arida» (Forse un mattino…, vv. 1-2); «Scotta la terra»; «l’afa che a tratti erompe / dal suolo che si avvena» (A vortice…, vv. 4, 7-8); «là nel paese dove il sole cuoce / e annuvolano l’aria le zanzare» (Antico,…, vv. 7-8)5; «gli aridi greppi» (Scendendo…, v. 2); «questo secco pendio» (Giunge a volte…, v. 13); «O rabido ventare di scirocco / che l’arsiccio terreno gialloverde / bruci»; «alide ali dell’aria» (O rabido…, vv. 1-3, 14); «quel friggere vasto della materia» (Ed ora…, v. 3); «nel suolo screpolato»; «nell’etra vetrino»; «in questi saturnali del caldo» (Egloga, vv. 7, 21, 35); «nel meriggio afoso» (Crisalide, v. 53); «Fuori è il sole: s’arresta / nel suo giro e fiammeggia» (Marezzo, vv. 9-10).
Montale fa dunque ripetutamente assaporare al lettore l’«arsura» estiva, gli fa percepire la tattilità della «caldura» meridiana, quando il sole non è una benedizione, ma un castigo che grava inesorabile sul nostro capo6. La luce del meriggio isterilisce, spoglia il paesaggio e conculca cura della Società Dantesca Italiana, vol. VII: La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Firenze, Le Lettere, 1994, II ristampa riveduta). La matrice dantesca delle rime in questione è già segnalata da E. Bonora, Poesia di Montale. Lettura degli “Ossi di seppia”, Torino, Gheroni, 1962, p. 12 e n. 2 (per quelle in –erpi) e da a. PiPa, Montale e Dante [1968], trad. it. di S. Zappulla Muscarà, Catania, Giannotta, 1974, p. 29 (per quelle in –iche).
4 Cfr. c. cEncEtti, Gli «ossi brevi» di Eugenio Montale. I ‘veri’ significati, analisi metrico- stilistica, commento, Corazzano, Titivillus, 2006, p. 121: «si noti qui come l’atto della di- sgregazione sia insieme efficacemente espresso dal parasintetico e dal forte enjambement».
5 L’aura di afflizione che promana da questo scorcio è data anche dalla nuvola oscura delle zanzare, che arieggia la terza piaga gravante sull’Egitto nell’Esodo: «facti sunt sciniphes in hominibus et in iumentis; omnis pulvis terrae versus est in sciniphes per totam terram Aegypti» (Ex, 8, 17). Le citazioni bibliche di questo saggio sono tratte dalla Vulgata sisto- clementina (1592), la versione latina corrente nel primo Novecento; il volume cui faccio riferimento è Biblia sacra Vulgatae editionis Sixti V Pontificis Maximi iussu recognita et Clementis VIII auctoritate edita, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2003, nuova edizione accuratamente emendata (le indicazioni abbreviate dei titoli dei libri biblici seguono la siglorum explicatio esposta alle pagine 16 e 17 di tale volume). Benché non abbia studiato latino a scuola, è assai probabile che Montale vi si sia dedicato successivamente, sotto la guida dell’amata sorella. Nella lettera a Ida Zambaldi del 9 novembre 1915 Marianna scrive infatti: «Gli ho detto che comincerò a insegnargli il latino per vedere se gli piace» (M. MontalE, in Lettere da casa Montale (1908-1938), a cura di Z. Zuffetti, Milano, Ancora, 2006, p. 258). 6 Cfr. E. Bonora, La poesia di Montale. «Ossi di seppia», Padova, Liviana, 1982, p.
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l’uomo, depredandolo talora del desiderio di continuare a esistere come individuo.Il bagliore del solleone non si limita infatti a prostrare, ma è anche foriero di una seducente tentazione di obnubilamento. Tre sono i passi particolarmente significativi in quest’ottica: «Gloria del disteso mezzogiorno / quand’ombra non rendono gli alberi, / e più e più si mostrano d’attorno / per troppa luce, le parvenze, falbe» (Gloria…, vv. 1-4); «l’aria è tanto serena che s’oscura» (Giunge a volte…, v. 25); «la troppa luce intorbida» (Marezzo, v. 23). L’eccesso di luce zenitale abbacina e porta all’oscuramento delle percezioni visive, il barbaglio dolorante «intorbida» le «parvenze» dipingendole di una tinta cupa («falbe» indica la polarità scura del giallo)7. L’azione combinata della pena cocente e dell’offuscamento può avere effetti dirompenti sulla persona, persuadendola a incamminarsi verso lo smemoramento integrale. La «troppa luce» del meriggio montaliano si configura come un’eco rovesciata della «troppa luce» del Paradiso dantesco8: laddove questa è usata come termine di paragone per descrivere l’oltranza gioiosa del beato Giustiniano (e comunica quindi un tripudio così denso di significato da trascendere la percezione limitata del Dante agens), quella spinge a uccidere l’io, annullando qualsiasi prospettiva semantica9.
Nel côté tentatore della luce del meriggio è evidenziabile il motivo del demone meridiano (così definito in ossequio al salmo 90)10 che induce all’accidia, come nota acutamente Arvigo:
150: «Montale ha dato veramente al tema dell’ora meridiana una potenza tragica». 7 Al di fuori degli Ossi il tema della luce oscurante compare in Finestra fiesolana (nella Bufera e altro) e nella prosa La gioia d’essere uno Stato nuovo: «il sole tra le frappe / cupo invischia» (vv. 6-7); «in un inferno di luce che sembra nera» (E. MontalE, Prose e racconti, a cura di M. Forti e L. Previtera, Milano, Mondadori, 1995, p. 779; la frase concerne il deserto siriano).
8 Cfr. Paradiso, V, vv. 131-137: «ella fessi / lucente più assai di quel ch’ell’era. / Sì come il sol che si cela elli stessi / per troppa luce, come ’l caldo ha róse / le temperanze d’i vapori spessi, / per più letizia sì mi si nascose / dentro al suo raggio la figura santa». Antonello individua la fonte dantesca, ma non nota il rovesciamento operato da Montale (cfr. P. antonEllo, Dante e Montale: la voce, l’allegoria, la trascendenza, «Quaderni d’italia- nistica», XVII (1996), n. 1, p. 111).
9 L’ontologia semantica si fonda infatti sulla presenza di un ente autocosciente, che in- troduce de facto la dimensione semantica nella realtà (in assenza dell’io, tutto ciò che esiste è un nulla). Siffatta dimensione semantica porta il soggetto a ricercare un significato autentico nella vita, e dunque a inverare il bisogno di senso che lo anima in quanto autocoscienza.
10 Cfr. Ps, 90, 5-6: «non timebis a timore nocturno, / […] / ab incursu et daemonio meridiano».
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La scelta di rappresentare e raccontare un delirio meridiano […] sarà […] la riproposizione di un topos della tradizione classica, patristica, letteraria e folklorica che al poeta dell’«osso» serve per dire il «rovello» della sua acedia. Montale scorpora il demone da qualsiasi personificazione e ne registra solo gli effetti11.
Diversamente da quanto sostiene Arvigo, però, a mio avviso Montale inserisce nel tessuto degli Ossi le più importanti personificazioni del demone meridiano consacrate dal pensiero e dall’arte occidentali. A questo proposito ci viene in aiuto un memorabile saggio di Caillois - I demoni meridiani (pubblicato sulla «Revue de l’Histoire des Religions» nel 1937)-, che dedica a siffatte figure pagine ricche e penetranti12. Prima di addentrarci nell’analisi, occorre ascoltare le riflessioni condotte da Caillois sulla rilevanza disforica del meriggio: «mezzogiorno […] è […] l’ora della morte, non tanto per il silenzio e l’immobilità della natura in quel momento, quanto per essere l’istante in cui la forza del Sole non si manifesta più come benefica ma come disseccante e opprimente, non più fecondante ma devastatrice»13. Tali osservazioni calzano a pennello agli scorci scabri e allucinati degli Ossi, a riprova dell’affinità prospettica che lega il poeta genovese e l’antropologo francese. La prima ipostasi del demone meridiano rinvenuta da Caillois si palesa nel canto XII dell’Odissea, allorché i marinai si affannano ai remi nell’ardore del meriggio, reso ancora più intenso dall’inquietante bonaccia:
11 T. arviGo, Guida alla lettura di Montale. «Ossi di seppia», cit., p. 18.
12 Essendo posteriore all’uscita degli Ossi (pubblicati in volume nel 1925 e, in edi- zione aumentata, nel 1928), lo studio di Caillois non può essere utilizzato come fonte dell’imagery montaliano. Il suo saggio ha però una notevole rilevanza, perché sistematizza con finezza un archetipo classico piuttosto diffuso nel primo Novecento, come testimo- niano il romanzo di Bourget Le démon de midi (del 1914) e le Elegie del dèmone meridiano di Roccatagliata Ceccardi (scritte nel 1918-1919 ed edite postume nel 1925). Che il giovane Montale conosca Bourget, è dimostrato dal Quaderno genovese (steso nel 1917): «Agosto 2. […] Paul Bourget: Le démon de midi (due volumi): letto tutto con qualche salto» (E. MontalE, Quaderno genovese [1983], in id., Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996, p. 1338).
13 r. cailloiS, I demoni meridiani, a cura di A. Pelissero e C. Ossola, trad. it. di A. Pelissero, Torino, Bollati Boringhieri, 1988, p. 24 (Caillois non nomina mai Montale nel corso del saggio). Arvigo e Tortora hanno il merito di menzionare il fondamentale studio di Caillois (cfr. t. arviGo, Guida alla letteratura di Montale. «Ossi di Seppia», cit., p. 17, n. 10; p. 114; p. 141, n. 154; M. tortora, Vivere la propria contraddizione. Immanenza e trascendenza in «Ossi di seppia» di Eugenio Montale, Ospedaletto, Pacini, 2015, p. 116, n. 230), senza però trarne le molteplici implicazioni che si illustreranno nel prosieguo del saggio.
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la nave, / che avea da poppa il vento, in picciol tempo / delle Sirene all’isola pervenne. / Là il vento cadde, ed agguagliossi il mare, / e l’onde assonnò un Demone. I compagni / […] imbiancavan l’onde / co’ forti remi […]. / Io la duttile cera […] sminuzzai […]. / Né a scaldarsi tardò la molle pasta: / perocché lucidissimi dall’alto / scoccava i rai d’Iperïone il figlio. / De’ compagni incerai senza dimora / le orecchie di mia mano; e quei diritto / me della nave all’albero legaro / […]. / Già, vogando di forza, eravam, quanto / corre un grido dell’uomo, alle Sirene / vicini. Udito il flagellar de’ remi, / e non lontana omai vista la nave, / un dolce canto cominciaro a sciorre: / O molto illustre Ulisse, […] su via, qua vieni, / ferma la nave, e il nostro canto ascolta. / Nessun passò di qua su negro legno, / che non udisse pria questa, che noi / dalle labbra mandiam, voce soave: / voce, che inonda di diletto il core / […]. / Così cantaro. Ed io, porger volendo / più da vicino il dilettato orecchio, / cenno ai compagni fea, che ogni legame / fossemi rotto; e quei […] di nuovi / nodi cingeanmi, e mi premean più ancora14.
Le Sirene incarnano mirabilmente il fascino tentatore del demone meridiano, dato che, sfruttando gli effetti perniciosi del sole battente 14 oMEro, Odissea, trad. it. di I. Pindemonte, Firenze, Ciardetti, 1823, XII, vv. 215-260, vol. I, pp. 312-314 (cito dalla traduzione di Pindemonte perché è la versione canonica – utilizzata anche a scuola – nel primo Novecento e perché Montale non conosce il greco antico). All’inizio del canto XII Circe avvisa Ulisse della pericolosità delle Sirene: «Le Sirene […] / mandano un canto dalle argute labbra, / che alletta il passeggier: ma non lontano / d’ossa d’umani putrefatti corpi, / e di pelli marcite, un monte s’alza» (ivi, XII, vv. 59-63, vol. I, p. 307). Riprendendo un’intuizione di Hayman, Caillois nota una significativa affinità fra gli effetti macabri enunciati da Circe e un lacerto esiodeo («e l’ossa ignude / della scomposta cute in nero suolo / si putrefanno sotto il Sirio ardente» – ESiodo, Lo scudo d’Ercole. Frammento, vv. 185-187, in id., Le opere d’Esiodo tradotte in versi italiani da Francesco Soave C. R. S. con annotazioni, Roma, Perego-Salvioni, 1826, p. 80 –; cito da questa versione perché nel primo Novecento Soave è ancora il più celebre fra i traduttori di Esiodo): «un particolare nell’avvertimento che Circe dà a Ulisse deve attirare l’attenzione: le vittime delle Sirene formano un ammasso di cadaveri corrotti sino all’osso, dalla pelle disseccata. È impossibile non confrontare i versi di Omero a quelli con cui Esiodo descrive gli effetti dell’ardore di Sirio: tutto vi è identico» (r. cailloiS, I demoni meridiani, cit., p. 28). Tale affinità rinforza l’interpretazione solare-meridiana delle Sirene, dato che «la canicola» (ovvero il torno di giorni caratterizzato dalla levata eliaca di Sirio, la stella di Canicola) «è precisamente il periodo che nel corso dell’anno corrisponde all’ora di mezzogiorno nel corso della giornata. […] i mezzodì della canicola sono per così dire alla seconda potenza […]. E ancora: come mezzogiorno è l’ora delle esalazioni pestilenziali, così Sirio porta con sé un’atmosfera perniciosa» (ivi, p. 27). Che Montale abbia ben presente la negatività al quadrato della calura e del mezzogiorno canicolari, è testimoniato da Arsenio: «la tempesta è dolce quando / sgorga bianca la stella di Canicola» (ossia ‘la tempesta è particolarmente euforica quando spezza la morsa torrida dei giorni della Canicola, caratterizzati dal sorgere eliaco di Sirio’); «Discendi in mezzo al buio che precipita / e muta il mezzogiorno in una notte / di globi accesi» (vv. 27-28, 34-36).
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(aumentati dalla bonaccia generata da un «Demone», ossia dalle arti magiche delle Sirene stesse)15, spingono alla morte con suadente dolcezza. Come scrive Caillois, «la tentazione del sonno nel momento in cui il Sole allo zenit dardeggia verticalmente i suoi raggi minacciando l’insolazione» è «tanto più temibile in mare aperto quando la lucida distesa dell’acqua senz’onde riflette la luce. In tali condizioni la voce delle Sirene è veramente omicida: νδρφνι δαι, ma la dolcezza dell’accidia è irresistibile»16. La seconda personificazione rilevante ai nostri fini occhieggia nel Fedro platonico, dialogo che si svolge nel caldo del meriggio:
mi par che le cicale, siccome nel gran calore, cantando in sul nostro capo […], stiano a guardare noi. E però se vedesser noi due, ora in sul mezzodì, non a ragionare, ma sì come i più fanno, molcendoci il loro canto, sonnecchiare per pigrizia della mente, elle giustamente ci deriderebbero, riputandoci servi venuti in questo loro ricetto, come pecore, per meriggiare e dormire presso alla fonte. Ma se ragionar ci vedessero, scansando noi loro, come sirene, e navigando pur oltre, non istupefatti dal loro canto; subitamente, quel premio ch’elle hanno dagl’Iddii per dare agli uomini, quello darebbero piene di ammirazione […]17.
15 Cfr. r. cailloiS, I demoni meridiani, cit., pp. 28-30: «[le Sirene] fanno cessare il vento. Alla brezza rinfrescante […] succede improvvisamente un’“assenza di vento” che rende ancor più insopportabile e schiacciante il forte calore, trasformandolo in una potenza perniciosa e divorante […]. Soprattutto è molto ben attestato che l’assenza di vento era considerata nell’antichità caratteristica dell’ora di mezzogiorno […]. Non è una mera que- stione di meteorologia. In Eschilo il messaggero che si accinge ad annunciare la presa di Troia e il ritorno di Agamennone getta un ultimo sguardo sulle sofferenze patite nel corso dell’assedio. Non ne vede alcuna peggiore del calore corrosivo di mezzogiorno, senz’aria, quando il mare privo di onde dorme pesantemente». Nel passo eschileo cui allude Caillois Taltibio dice: «l’estivo calor, quando al meriggio, / tutto steso in suo letto il mar dormiva / senza onda, senza vento… Ma che giova / or dolersi di ciò? Passò travaglio» (ESchilo, Agamennone, vv. 554-557, in id., Tragedie di Eschilo tradotte da Felice Bellotti, Napoli, Stamperia Francese, 1825, p. 211; cito dalla versione di Bellotti perché è la più ristampata fra il secondo Ottocento e il primo Novecento). L’esiziale assenza di vento è sfruttata da Montale in Casa sul mare, dove l’io e il tu sono impaludati nella «bonaccia muta» (v. 13), eco del mare dormiente di Omero ed Eschilo. Che Eschilo sia fra le letture del giovane Montale, è testimoniato dalla lettera della sorella a Ida Zambaldi del 15 ottobre 1915: «Eugenio ha compiuto 19 anni e sai che cosa si è fatto regalare da me? Cinque o sei libretti della Biblioteca Universale. Ma senti che libri: […] una tragedia di Eschilo» (M. MontalE, in Lettere da casa Montale (1908-1938), cit., p. 253).
16 r. cailloiS, I demoni meridiani, cit., p. 30.
17 PlatonE, Fedro o vero della bellezza, XL, in id., Dialoghi, trad. it. di F. Acri, Milano, Libreria editrice popolare italiana – Volonteri & c., 1915, III edizione, p. 639 (le parole sono dette da Socrate). È Montale stesso a dichiarare di aver letto Platone in gioventù nella traduzione di Acri: «Nella pineta familiare […] lessi […] anche Platone (Acri)» (E.
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In questo passo le cicale appaiono scisse in un duplice ruolo: da un lato disforici demoni meridiani, che inducono al sonno smemorante con il loro verso incantatore; dall’altro euforici emissari celesti, incaricati di premiare i meritevoli con la facoltà di non nutrirsi che del proprio canto18. In questo momento ciò che ci preme è la loro natura demonica, agguagliata daSocratea quella delle Sirene e strettamente legata al meriggio torrido19: anche nel Fedro, come nell’Odissea, nell’ora del dolore cocente si corre il rischio di cedere al fascino dell’accidia, scivolando per inerzia nel buio