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LE PAROLE PER FARLO

Cerchi di donne

Le devo dire, per correttezza, che io non sono ancora abilitata a esercitare la professione. Sarà solo un dialogo tra donne, ognuna delle quali ha conosciuto le sue pene. Corrado Augias

(2014) Il lato oscuro del cuore

È ora di fare un passo indietro per ampliare la visuale e provare a immaginare, in maniera più esplicita rispetto a quanto fatto sinora, le possibili traiettorie che caratterizzano l’esperienza della doula nella società italiana contemporanea. Ancora una volta sarà necessario operare una rimessa a fuoco orientata a quel “partire da sé” che ha già guidato molti degli sviluppi del lavoro e che, a questo punto, è possibile considerare più apertamente anche in una forma collettiva. Per farlo, ho deciso di osservare e analizzare quello che in gergo doulesco (ma non solo) viene identificato nei termini di pratica del cerchio270 e che, come si vedrà,

270 Espressamente nominato o meno, il “cerchio” costituisce una pratica riconoscibile in

alcuni altri contesti. Durante le interviste condotte sono emerse chiaramente almeno due dimensioni sociali entro cui questo riferimento rimanda a un significato ben preciso: il mondo delle scoutismo e quello, (figlio) della controcultura degli anni Sessanta e Settanta, del femminismo. Spiega per esempio la doula Amanda che fare cerchio «è la forma prediletta nello scoutismo: si fa cerchio per parlarsi, per organizzarsi, per giocare, per danzare, per cantare, per mangiare, per scambiarsi il cibo […], è proprio una forma base […] si fa un po’ tutto in cerchio e quindi per uno scout secondo me è già molto dire “fare il cerchio”» (intervista del 02/02/2016). E ancora, per la doula Agata: «la dimensione del cerchio è una dimensione comunicativa che in realtà come dici gli unici che la capiscono molto bene sono gli scout, però è [anche] una pratica che chi fa teatro riconosce e tutto sommato anche chi ha fatto i gruppi di autocoscienza negli anni Settanta, non la chiamava “il cerchio” però la dimensione comunque è quella, no? Cioè, io che vengo

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costituisce un momento profondamente personale di scambio fra donne, un vero e proprio spazio di esplorazione, svelamento e produzione di sé. Allo stesso tempo, sulla scia dell’esperienza dell’autocoscienza dei gruppi femministi degli anni Settanta, il cerchio costituisce una pratica a tutti gli effetti politica che, attraverso le parole, attraverso cioè un «dialogo tra donne» – per usare le parole della giovane protagonista del romanzo di Corrado Augias – può nominare e rendere visibili alcuni degli angoli inesplorati del continente sommerso che ciascuna donna (e madre) porta con sé, espressioni di piacere, dolore e bisogni altrimenti non detti, spesso non visti. Attraverso l’espressione verbale, il rispecchiamento e anche l’ascolto silenzioso, la pratica del cerchio materializza e prefigura, in piccola scala, quella rete di donne cui ho fatto cenno all’inizio della trattazione e rappresenta anche un tentativo di ricucire una connessione con la propria genealogia femminile, biologica, intellettuale o simbolica che sia271. Questo costituisce un

esercizio fondamentale nel processo di consolidamento collettivo e riconoscimento sociale della figura della doula perché può consentire una presa di coscienza del proprio posizionamento rispetto alle altre donne e alle loro storie e, d’altra parte, rappresenta anche un banco di prova per la disponibilità al dialogo nelle

invece da un’esperienza più che di militanza, da un’esperienza hippie, non c’era l’uso di questa parola ma la dimensione del cerchio c’era, no? Il fuoco, la ritualità, lo stare seduti in cerchio, ci si faceva le canne e si stava in cerchio per esempio. Adesso questa dimensione non c’è più però quando ci si faceva le canne seriamente [ride] come dico io si facevano esclusivamente in cerchio, cioè, non esisteva che uno stava stravaccato da una parte e uno da quell’altra, perché era un momento di condivisione. Quindi il cerchio come un momento di condivisione collettiva, di collettività, era molto forte per me» (intervista del 07/03/2016).

271 La mia partecipazione alle attività “in cerchio” è stata, fino a un certo punto,

probabilmente poco consapevole delle implicazioni di questa dimensione. Ricordo però che in occasione della già menzionata Summer School di Mondo Doula del 2014, la doula conduttrice delle attività (in quel momento, del cerchio) ci invitò a presentarci alle altre con il nostro nome e con quello delle nostre madri, nonne, bisnonne e a seguire fin dove ciascuna ricordasse, in linea femminile. Per più di una di noi è stato piuttosto disorientante scoprire di non riuscire a superare i nomi delle nonne, come se anche la memoria familiare non potesse andare al di là del conosciuto direttamente. In quell’occasione mi è tornato in mente anche un passaggio di Una stanza tutta per sé in cui Virgina Woolf scrive che «se siamo donne, dobbiamo pensare il passato attraverso le nostre madri» (1998, p. 91); la sua commentatrice, Nadia Fusini, chiosa che l’autrice «anticipa una questione centrale del pensiero femminista contemporaneo: la questione di una genealogia femminile, di una tradizione che discende per rami femminili» (p. 140).

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differenze, un laboratorio di esercizio di quel non-giudizio già individuato come fondamentale alla pratica accanto alle madri.

“Fare cerchio” è una pratica che il mondo delle doule italiane che ho frequentato nel corso di questi anni ha fatto propria, interpretandola con l’obiettivo di dare spazio all’espressione delle diverse voci individuali e all’affinamento di una voce corale. Indipendentemente dalle intenzioni esplicite e contingenti di ciascun cerchio che, appunto, si apre e si chiude, ciò che la pratica può lasciare è un’impronta duratura: la consapevolezza della fatica e del piacere del “dirsi”, dell’impegno necessario al dialogo ma anche della necessità dell’incontro, di un saper stare con le differenze, osservarle e integrarle in un flusso di comunicazione e scambio armonioso ma non per questo omologato o direttivo. Sintetizza la doula e ricercatrice Filomena, «[s]i chiama cerchio oggi, si chiamava gruppo di autocoscienza negli anni Settanta, comunque è un modo di incontrarsi e di

stare: un’esigenza di confrontarsi, di condividere delle relazioni umane»272.

Come ricordava poi la doula Gemma all’inizio di questo lavoro, anche la formazione della doula inizia spesso all’interno di un cerchio e, sebbene l’intenzione o l’impostazione della pratica non sia quella didattica273, la forma

comunicativa e collettiva del cerchio caratterizza diversi momenti di interazione fra doule in formazione (ma poi anche fra doule esperte, fra doule e mamme e fra sole mamme)274. Dopotutto, la formazione della doula avviene in gruppo e prosegue

272 Doula Filomena, intervista del 09/03/2016.

273 La percezione che il cerchio, proprio in virtù della sua forma, non rappresenti una

modalità didattica tradizionale è chiara anche per le allieve, come commentava anche la doula in formazione Natascia: «nel cerchio nessuno insegna a nessuno. Non è come a scuola che c’è la cattedra e i banchi, no. Nel cerchio tutti insegnano, tutti ascoltano, tutti imparano» (intrevista del 18/03/2016).

274 Si è già accennato per esempio ai “cerchi di mamme” in puerperio o ai gruppi di auto-

mutuo aiuto fra madri sull’allattamento. La doula Tamara a questo proposito mi ha detto: «[i]l cerchio di mamme è un luogo fisico e no dove le mamme si incontrano, si mettono fisicamente in cerchio per condividere delle esperienze piuttosto che fare delle esperienze insieme e il senso del cerchio è proprio che si è tutte alla pari, quindi non c’è qualcuno che sta più avanti e più indietro e quindi è un modo per fare delle esperienze insieme senza che nessuna si senta prevaricata o si senta invece prevaricatrice» (intervista del 09/02/2016).

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oltre i confini dei programmi di base in forme spontanee o più organizzate, di sovente proprio nella forma del cerchio275.

In riconoscimento del fatto che questa pratica costituisce uno spazio di confronto e un laboratorio politico, oltre che un possibile strumento di lavoro e un’offerta concreta da mettere a disposizione sul mercato dei servizi legati al sostegno alla maternità, l’associazione Mondo Doula ha ideato un seminario esperienziale denominato “Mille e un cerchio” che io stessa ho frequentato, nella doppia veste di doula e ricercatrice, a gennaio 2017. Alcuni degli stimoli propulsivi al lavoro proposto in questo seminario sono rappresentati da domande apparentemente semplici che riguardano l’idea stessa di gruppo e che sono imprescindibili tanto alla preparazione del lavoro della doula con le madri, quanto al processo di identificazione di sé del movimento delle doule a livello collettivo. Nello spazio protetto e comodo del cerchio si mette infatti all’opera un’azione dialogica che è al tempo stesso personale e politica e che, per la doula, può essere funzionale al rafforzamento della propria agency personale, come donna, ma anche collettiva, come figura cioè parte di una nascente categoria professionale alla ricerca di un riconoscimento anche in Italia nell’ambito dell’accompagnamento alla maternità276.

275 È il caso, per esempio, del gruppo “Le risonanze”, attivo sul territorio bolognese

soprattutto negli anni 2015 e 2016 e di cui io stessa faccio parte. Coerentemente con la logica del cerchio che è principalmente orientata verso l’interno, il gruppo non ha lasciato esplicite tracce di sé all’esterno delle interazioni fra le varie partecipanti che, oltre che per mezzo di incontri settimanali o bisettimanali di persona tipici dei periodi di attività più intensa, si mantengono oggi in contatto attraverso una mailing-list privata. A margine, come annotazione più che altro metodologica, segnalo anche che nell’ambito di questo gruppo avevo proposto e avviato la sperimentazione di un diario condiviso, attività che però non ha prodotto frutti interessanti o particolarmente rilevanti ai fini di questa ricerca se non la constatazione – condivisa in maniera simile dalla doula Agata rispetto alla sua esperienza di blogger – che, se raccontarsi con le parole attraverso la voce già è molto difficile, farlo in forma scritta continua a rappresentare per molte un ostacolo quasi insormontabile. Commentava Agata a questo proposito: «è come se proprio quella parte lì fosse poco attivata. C’è un grande problema rispetto alla scrittura, tutti hanno paura di scrivere, “non so scrivere” [dicono]. Quindi il problema principale è questo, poi comunque per scrivere ci vuole del tempo. No, comunque non funziona. Non c’è niente da fare» (intervista del 07/03/2016).

276 Non è un caso che, in occasione dell’ultima assemblea nazionale che ha visto il

passaggio di Mondo Doula da associazione di promozione sociale ad associazione professionale, le parole di apertura della nuova presidentessa abbiano fatto un riferimento esplicito alla forma del cerchio che come doule ci si porta dentro e alla considerazione

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Come spesso accade nell’ambito doulesco, la dimensione esperienziale attraverso il proprio corpo, il proprio sentire e le proprie parole precede quella cognitiva impartita didatticamente, nel caso specifico del seminario in discussione la condivisione di materiale informativo di approfondimento rispetto alla definizione di gruppo, al significato etimologico del termine277, alle dinamiche di

appartenenza e funzionamento di gruppi di diverse dimensioni, al linguaggio utilizzato all’interno delle varie formazioni, alle relazioni di accoglienza e conflitto che vi operano, alle caratterizzazioni di genere e alla questione dell’autorità e della gerarchia.

Ricordo che, in particolare, la conduttrice del seminario aveva aperto la due- giorni di lavoro insieme con la proiezione dei primi minuti del film Et maintenant on

va où? (2011) dell’attrice, regista e sceneggiatrice libanese Nadine Labaki278, scelta

che mi aveva colpito sia per una risonanza personale (la colonna sonora di quel film accompagna da diversi anni la mia scrittura su questi temi) che per un richiamo più ampio e politicamente denso alla posizione della doula in Italia oggi, l’interrogativo cioè e adesso, dove andiamo? La scena che apre la pellicola è quella di un gruppo di donne in processione verso un cimitero in una zona di guerra mediorientale: alcune di loro sono velate e musulmane, altre portano addosso croci di legno segno della loro appartenenza cristiana, tutte sono vestite a lutto e, nonostante le differenze, sono accomunate da una sofferenza condivisa e avanzano coralmente, con un ritmo che progressivamente si fa comune e potente. Sfruttando questa immagine suggestiva e la vibrazione musicale, l’intenzione della conduttrice del nostro seminario era dunque quella di offrire un confronto non

che, in quell’occasione, l’obiettivo era anche quello di «smussare delle cose quadrate», le questioni formali legate per esempio alla stesura di un nuovo statuto (diario di campo, aprile 2017).

277 Nei miei appunti di quella giornata, ho annotato il significato etimologico del termine

gruppo, interessante per l’ulteriore rimando all’immagine dei nodi e della rete: «[d]erivazione dalla glossa tardoantica latina cruppa, che significa grosso cavo e che riproduce il germanico Kruppa, cioè massa arrotondata. Il primo e più antico significato era nodo. L’etimologia rimanda dunque alla natura di una rete e al legame tra i suoi nodi, significato rimasto anche oggi» (diario di campo, gennaio 2017).

278 L’apertura del film è disponibile online

(https://www.youtube.com/watch?v=YdcVZJOq-ZA, sito internet consultato in data 02/11/2017). Nadine Labaki è anche regista di Caramel (2007), altra rappresentazione di un “cerchio” sui generis, quello di un piccolo gruppo di donne che parlano di sé e delle proprie esperienze di vita dall’interno di un salone di bellezza.

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mediato da troppe parole o elaborazioni teoriche con uno degli scopi e delle funzioni più caratteristiche della pratica del cerchio, almeno nell’ambito della sua applicazione doulesca: arrivare a poter stare in un gruppo di persone con grandissime

differenze. Raggiungere cioè, almeno in uno spazio e tempo ben determinati, lo

stesso ritmo di base, formare un coro da tante voci diverse che, esattamente come quello dello stadio, possono suonare stonate finché non si uniscono in una vibrazione unica e, a suo modo, armonica.

Se è vero che, come è stato più volte sottolineato, una delle caratteristiche principali della pratica della doula è quella di accompagnare le donne più diverse nella loro personale esplorazione e attribuzione di senso all’esperienza di maternità, è evidente che un esercizio di ascolto e condivisione come quello che la pratica del cerchio mette a disposizione è di importanza fondamentale. Allo stesso tempo un laboratorio per il “fare spazio” e il “fare uso dello spazio” di cui si è parlato nel Capitolo 2. In un simile perimetro, fisico e mentale, che la doula Nadia descrive come «sicuro e di coccola»279, è possibile infatti mettere alla prova tanto

la propria disponibilità espressiva, verbale ed emozionale, quanto quella di ascolto e ricezione delle parole e delle esperienze altrui. È cioè uno spazio dinamico di espressione e riconoscimento, come evidenziano chiaramente le parole della doula Amanda quando ricorda che:

il cerchio permette un movimento […] c’è qualcosa che ruota, che viene dalle altre, che poi rigira, trasforma in un cerchio tout-court […] c’è un fluire di quello che si vuole condividere con le parole o anche nel silenzio perché c’è questo rispetto e quindi diciamo che è una forma di accoglienza, di riconoscimento

reciproco. Di solito dal cerchio bene o male riesci a vedere tutti negli occhi, è una

forma che secondo me ha questo senso di movimento e quindi questo fluire fra tutte: ciascuna ha il suo spazio e anche però un contenimento [perché] è uno spazio

che comincia e che finisce e in cui solitamente le persone possono anche permettersi

di non dire nulla perché si sentono già considerate (intervista del 02/02/2016). Così come intesa e sperimentata dalle doule italiane che ho frequentato, la pratica del cerchio offre pertanto uno spazio in cui le soggettività si esprimono attraverso la condivisione delle proprie storie, in cui la messa a disposizione di pezzi di vita, sensazioni di gioia o di sofferenza, possono costituire specchi in cui – in parte, integralmente o per nulla – riconoscersi reciprocamente, in cui l’esercizio

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