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LA SOLITUDINE DELLE DONNE

Vuoti e spazi

E nessuno, vicino a me, mi guardava negli occhi.

Sibilla Aleramo

(1989) Una donna

Siamo tutti nati, ma i saperi sulla nascita ci appartengono poco. A volte per nulla, fino a che non c’è una gravidanza in corso o la ricerca di un figlio. Per la doula e madre Gisella:

[n]essuno ci parla di gravidanza, di nascita e di genitorialità. Come se fosse qualcosa che poi succede così e vediamo come va. Apro il frigo e vedo gli ingredienti che ho e qualcosa mangio stasera! Non è proprio la stessa cosa! Però [anche] io ci sono arrivata così, aprendo un frigo e guardando cosa c’era dentro, fondamentalmente con quel tipo di approccio […]. Partivo da uno standard: si partorisce in ospedale, si fa quello che il medico o qualcuno ti dirà che devi fare e tu ti metti nel binario di quello che ti dicono che devi fare perché sei in uno stato fuori di te e che tu non conosci. Quindi ti affidi perché non sai niente e ti senti col foglio bianco e qualcuno che invece sa che ti propone la scelta multipla (intervista del 26/04/2016).

Non se ne parla finché non è proprio necessario, si fa con quello che c’è, si agisce come verrà detto di fare da chi è esperto perché tanto «sei fuori di te» e «non sai», ci si affida e si firma un foglio bianco. È un’immagine semplificata, certo, ma al contempo una suggestione che invita a interrogare e approfondire il perché di un diffuso stato di rimozione del tema “maternità” negli scambi fra donne non madri, in famiglia, nella società. Non si tratta soltanto dell’ignorare informazioni specialistiche di come funziona il processo di gravidanza o i dettagli burocrati legati ai percorsi socio-sanitari disponibili in città. Si tratta piuttosto di

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una doppia rimozione ben più consistente: quella della possibilità di attivare forme profonde di osservazione di sé e di legittimazione di competenze incorporate, e quella di reclamare diritti per la propria persona e per i propri figli. Si tratta del tabu culturale al fare e farsi domande, forse a causa di percepiti squilibri di potere136, degli effetti tangibili e paralizzanti di quella “conoscenza che conta” di

cui si è già parlato, o della paura a scoperchiare da sole un potenziale vaso di Pandora temendo di trovarsi senza una rete di salvataggio, una rete sociale di confronto e contenimento.

L’iceberg sott’acqua, si diceva all’inizio. In superficie, la maternità continua a rappresentare un campo di battaglia in tregua apparente che sembra polarizzato fra la mistica rosea delle rotondità armoniose di corpi femminili abbracciati a biondi neonati sorridenti e la condanna al dolore, la paura della morte, la retorica del rischio e della sicurezza. L’ospedale, quel posto dove per qualcuno si entra con una specie di «cestino dell’asilo», una «triste valigetta con gli effetti personali» della mamma e del bebé, dove ci si può ritrovare circondate da «infermiere inamidate e sorridenti, qui non si corrono rischi» (Bisognin, 2011, pp. 21–22)137.

Quello stesso luogo che «è un po’ come una casa che non si abita, come entrare in ambasciata americana… e non ve lo raccomando»138, per usare un’espressione a

mio parere molto chiara di Elena Skoko, madre e attivista.

136 «È difficile rimanere imperatore in presenza di un medico» fa dire Marguerite

Yourcenar al suo protagonista, nell’incipit di Memorie di Adriano (1977).

137 L’ospedale continua a rappresentare per molti e molte il luogo della non-salute. Si

chiede Elisabetta Malvagna, giornalista e autrice di Partorire senza paura (2008) e Il parto in

casa (2010) in un recente volume di Rossana Campisi (2015): «[n]on ero mai stata in

ospedale e stavo bene. Ma perché dovevo andarci per partorire?». Allo stesso modo, ho trovato interessante il riferimento, in negativo, proposto da due ostetriche che a lungo hanno lavorato in ospedale e che oggi hanno optato per la libera professione, dell’ospedale alla «casa». Oriana parla per esempio dell’«atteggiamento ospedaliero in cui entri in casa mia e fai quello che ti dico io» (intervista del 04/07/2016) e Lucrezia del fatto che «tu comunque come operatore sanitario ti devi mettere nell’ordine di idee che il cliente che arriva – e non è il paziente, è il cliente – è proprietario di questo ospedale, come te e come tutti i cittadini che pagano le tasse. Il tuo stipendio è lui che te lo paga insieme a tante altre persone, per cui non è che entra in casa tua, entra in casa vostra» (intervista del 15/07/2016).

138 Diario di campo, marzo 2016. Ringrazio Elena Skoko per il suo impegno a favore

delle donne e delle madri (soprattutto attraverso la campagna #bastatacere, su cui tornerò), per la sua interpretazione di “Sinnò me moro” di Gabriella Ferri e “Frigida” del Movimento Femminista Romano e per l’invito a «scrivere canzoni e usare la poesia».

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Le radici di tutti questi elementi sono come sempre accavallate le une sulle altre e collegate fra di loro, ma anche questo sta sotto. I richiami evidenti alla luce del sole appaiono solidi e assoluti, ma a una più analitica visione d’insieme anche schizofrenici: si vedono contrapposti delega e responsabilità, scelta e colpa, potenza e paralisi, fiducia e paura. Poli apparentemente senza possibilità di incontro e confronto, separati da buchi di senso e di relazione che impediscono di trasformare i vuoti in spazi di conoscenza di sé e di esperienza consapevolmente vissuta. Di scelta (e) di benessere. Di errori vecchi ed errori nuovi. Che fanno dell’esperienza, soprattutto quella del parto, un atto di fede, una scommessa in cui si può essere più o meno “fortunate”. Soprattutto «empatia e gentilezza sono colpi di fortuna» commenta Rossana Campisi (2015, p. 63), richiamando anche quanto condiviso da Giovanna Bestetti che, della propria esperienza ricorda sì di «essere stata fortunata» ma anche che «non è giusto che debbano essere la fortuna o il caso gli unici punti di riferimento. Se le persone non trovano quello che desiderano, diceva Debord, si accontentano alla fine di desiderare quello che trovano» (Campisi, 2015, p. 64)139. E infatti la buona sorte non può essere

sufficiente. Per questo motivo, dall’alto delle istituzioni e dal basso dei cerchi di donne, qualcuno si occupa di provare a offrire diversi percorsi di accompagnamento e (in)formazione, a “fare cultura” attorno alla maternità. Tra questi, anche le doule e questo stesso lavoro.

Le difficoltà sono molte e non è arduo da immaginare nell’ambito di una cultura della separazione, dell’anestesia emotiva e relazionale, del mito della soppressione del dolore, della sottovalutazione della sofferenza e della solitudine140. In un contesto che, come si è visto, stabilisce anche moralmente la

139 Relativamente alla questione della fortuna, le madri di cui ho raccolto le testimonianze

la associano a un incontro con una persona (spesso la doula, qualche volta un operatore sanitario) che è stata loro di aiuto nei momenti di difficoltà. Un’eccezione salvifica, in un certo senso. Anche le giovani ostetriche associano l’idea di fortuna al fatto di aver incontrato, durante i loro percorsi formativi, delle persone in grado di guidarle, ostetriche più anziane in particolare, attribuendo quindi a questo fatto un carattere di eccezionalità, una buona sorte in un contesto apparentemente non così aperto e disponibile.

140 «Il dolore è una cosa, la sofferenza però è un’altra» sostiene Marta Campiotti, ostetrica

e presidente della Associazione Nazionale Culturale Ostetriche Parto a Domicilio e Casa Maternità dal 1998, «le donne soffrono perché si sentono spesso sole, quasi violentate» (Campisi, 2015, p. 101).

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norma nella nascita medicalizzata, che prefigura in questi termini l’esperienza prima ancora di avviare un qualsiasi iter sanitario, che estende le proprie logiche non soltanto ai corpi ma anche alle relazioni e alle emozioni. In un «mondo sotto vetro, nel quale è reale solo ciò che ci viene mostrato» (Duden, 1994, p. 103) e dove quindi è molto difficile per le donne sentire «muoversi qualcosa sotto il cuore» (Duden, 1994, p. 105).

In un presente in cui – paradossalmente – le conquiste in materia di salute, sessualità e riproduzione frutto dei movimenti femministi degli anni Sessanta e Settanta sono pericolosamente date per scontate e in cui, anche per questo, non è forse sufficientemente problematizzato un effetto collaterale di quell’esperienza: l’allargamento dei diritti in ambito riproduttivo ha coinciso anche con il montare di aspettative sempre maggiori rispetto alle responsabilità individuali delle donne, soprattutto nell’ambito della maternità141. In una fase di vulnerabilità e

cambiamento il confine tra responsabilità e colpa però può essere molto labile, il ricatto morale per il bene di suo figlio, signora! sempre in agguato, il timore di non avere un margine di errore legittimato socialmente può diventare paralizzante.

E la reazione a questa paura rimanda a un’ulteriore polarizzazione: fuga o attacco. Una donna può così trovarsi al bivio fra due strade: (s)fuggire a sé, alla propria esperienza e delegare totalmente, o attaccare, reagire in maniera estrema diventando o riconoscendosi in quelle che vengono definite mamme «talebane» (Regalia & Bestetti, 2010, p. 137), espressione ricorrente che indica una radicalità ostentata e – spesso – auto-isolante142. Anche questa può apparire come una

141 Si veda a questo proposito anche il recente articolo di Claire Howorth richiamato nella

copertina della rivista “TIME” del 30/10/2017 (http://time.com/4989068/motherhood-

is-hard-to-get-wrong, sito web consultato in data 24/11/2017).

142 In diverse occasioni, alcune doule intervistate hanno utilizzato questa espressione

anche riferendosi alle colleghe. Per esempio, per Simonetta ci sono le «talebane dell’allattamento» (intervista del 28/01/2016), per Samuela le «talebane del parto in casa» (intervista del 03/08/2016). Anche la doula Tamara, in relazione alla propria esperienza in questo caso di madre, rispetto a un tema “caldo” in certi ambienti, come il ciuccio, ricorda: «è una cosa che io da mamma ho fatto, io non glielo davo il ciuccio e infatti è una cosa che ha mandato molto in crisi la coppia, questo mio essere radicata in queste mie convinzioni del cazzo mi vien da dire a posteriori, perché l’ideale non serve a nessuno. Ed è una cosa su cui ho tanto lavorato, di cui ho parlato con mio cugino che ha avuto una bambina poco tempo fa e lui mi diceva che non le vogliono dare il ciuccio e lì mi sono trovata a dire una cosa che mai avrei pensato: “Ma guarda, pensaci perché può anche essere uno strumento utile per la bambina, perché è vero che se viene usato come

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banalizzazione ma, ancora, ben rappresenta il campo del visibile del nostro iceberg. Le sfumature sono in mezzo, ampiamente offuscate da questi estremi.

Estremi che coesistono anche all’interno del movimento delle doule, in taluni casi dipinte come rischiosamente asservite al sistema tecnocratico (Meltzer, 2004; Meltzer Norman & Katz Rothman, 2007) e, in altri, estremiste accecate da un’idea naturalizzante e idealizzata del corpo femminile e della figura della madre. Nell’esperienza italiana la seconda stereotipizzazione è quella che ad oggi incontra maggior risonanza, specialmente nell’ambito di un certo mondo ostetrico che, per vari motivi su cui tornerò a brevissimo, persiste nel non voler approfondire la propria relazione con questa figura e mantiene un atteggiamento sostanzialmente difensivo nei confronti del mondo delle doule. Nello specifico, rispetto alla deriva “natur(al)ista” sono molto chiare le parole della doula Agata:

[i]n generale direi che la parola doula […] – al di là della polemica con le ostetriche che comunque è un fatto importante – però in generale viene un po’ percepita come quella che fa un po’ la santona, come quella che è tutto la natura e solo la natura, la natura fa solo le cose giuste e noi facciamo solo le cose sbagliate, eccetera. Che è una cosa che a me fa venire l’orticaria e un pochino purtroppo questa cosa c’è. Cioè, viene un po’ percepita così. È interessante chiedersi perché. Perché viene percepita così? Non tutte le doule sono così, molte però sì. E spesso molte sono così e molte non sono veramente così ma siccome […] a livello di mercato, cioè di immagine spendibile, va molto di moda […] la usano, fanno le santone, scrivono queste cose tutte ispirate, perché se tu su Facebook scrivi una cosa molto ispirata sulla maternità, la meraviglia e la natura... ti rispondono in centocinquanta. La stessa Ibu Robin, che non è una persona in realtà così fanatica come potrebbe sembrare, lei stessa la utilizza questa cosa qui, la usa; io non sono d’accordo, non mi piace questa cosa che fa Robin, non mi piace, però la fa. E il fatto che la faccia le ha consentito di diventare Ibu Robin […]. Perché su questo non ha tutti i torti, lei dice: “Sì, è vero, però poi così io ho duecento donne che pendono dalle mie labbra e io a quel punto posso raccontare loro la mia vita vera” e allora arriva. Va beh, è anche vero questo. Funziona. Però fino a un certo punto secondo me, questo poi è un altro discorso, perché poi c’è questo bisogno di delega emotiva, di qualcuno che impugni una bandiera che è quella che ti si confà e tu vuoi seguire quella cosa lì, questa è purtroppo la spinta più forte. A me non piace l’idea di coccolare quell’aspetto lì, di assecondarlo, e non ci credo anche se capisco che poi quando Robin durante un incontro racconta la sua vita vera

tappabuchi non va bene perché non vai a sentire qual è il bisogno del bambino, è vero che nei primi quaranta giorni è meglio non darlo perché può interferire con l’allattamento, però se c’è una reale necessità in quel momento di suzione e non c’è tua moglie, alla bambina serve”. E quindi anche lì... Adesso glielo darei il ciuccio, in serenità» (intervista del 01/03/2016).

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qualcosa passa, però mi sembra che passi più il resto, che è quello che attrae (intervista del 07/03/2016).

Per “fare cultura” attorno alla maternità, espressione cara a molte doule, ostetriche, operatrici e operatori della nascita che ho incontrato nel corso di questo lavoro, è imprescindibile non negare l’esistenza di questi poli ed essere disposti a navigare contraddizioni e compromessi che sorgono fra le estremità143.

Per le doule con cui ho lavorato in questi anni, fare cultura attorno alla maternità significa provare a riconfigurare la nascita dai termini di salto nel buio da tenere lontano da sé finché possibile e poi controllare, a esperienza relazionale complessa da esplorare che, per essere legittimata e dunque vissuta a pieno, necessita di spazi in cui ciò che avviene in un corpo possa esprimersi, sia riconoscibile e gli si possa così attribuire un senso, anche se contingente e individuale.

Le informazioni, la preparazione e la conoscenza della fisiologia e delle possibilità offerte dai servizi sono un elemento imprescindibile in questa sfida ma fungono da mappa, non indicano necessariamente un percorso.

Culturally, we map choices about which tests to get when. We point women to the choice between hospital, birth centre, or midwife. We signpost epidurals or inductions, water birth or Caesarean, Ergo Baby or Moby Wrap, and cloth diapers or disposable ones. But we don’t map the inner journey a woman and baby must make to give birth (Bastien, 2015).

E, infatti, anche con tutti i dati alla mano può essere molto difficile andare a scavare e guardare la complessità sott’acqua perché questo costituisce letteralmente un’immersione: significa partire da sé, dai propri bisogni e dalle proprie inclinazioni, dall’osservazione delle proprie paure, dalla valutazione delle risorse personali disponibili, dall’auto-formazione, dall’esplorazione del corpo, dal riconoscimento e della condivisione dei propri desideri, dall’accettazione dei propri limiti. Serve tempo e spazio, disponibilità alla scoperta, al viaggio. Una figura come la doula può accompagnare, oltre che la lettura della mappa, l’individuazione di un itinerario personale. Un po’ quello che la doula Gemma sintetizza nei termini di avvicinamento delle aspettative alle scelte e che, nella pratica,

143 «Possiamo tenere le contraddizioni. Forse siamo in grado di farlo» diceva la doula e

docente Vera in occasione di un’assemblea nazionale di Mondo Doula (diario di campo, aprile 2016).

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costituisce uno degli obiettivi primari del (suo) fare la doula in fase prenatale144.

Un processo che, in solitaria, è molto difficile affrontare, e non è forse un caso che la cartellina che viene offerta alle donne in gravidanza in Emilia-Romagna si chiami Non da sola. Comprendere e vivere la propria gravidanza, insieme145.

L’espressione “accanto alla madre”, già richiamata per descrivere l’attività della doula, torna utile a questo punto per riqualificare e ridimensionare, in un certo senso, il peso attribuito alla parola solitudine, di sovente sovraccaricata di giudizio morale e quindi difficile da pronunciare e denunciare da parte delle madri. Perché, come si è accennato, si può non essere materialmente, fisicamente

144 Dice Gemma: «io prima del parto quando vado da una famiglia glielo dico subito che

il mio obiettivo è riavvicinare le loro aspettative con le scelte che hanno fatto o che stanno facendo. Quindi il lavoro che faccio in quelle tre ore è quello. Dare le informazioni per permettere a loro di avvicinare queste due cose, aspettative e scelte. Perché glielo dico subito: “se voi avete questa aspettativa che [magari] è quella di avviare subito bene l’allattamento facendo un buon bonding di due ore eccetera, e mi dite che avete scelto un certo ospedale, qui abbiamo un grosso lavoro da fare insieme”. E quindi questa cosa qua la capiscono bene. E così riesco a fare un lavoro efficace perché se no, prima del parto, insomma, io non faccio niente di particolare. Cioè, sono solo doula, non faccio [sorride] massaggio prenatale, non faccio nient’altro che la doula, quindi quali sono i miei strumenti? Come doula l’unico mio strumento è informare per permettere di riavvicinare le aspettative con le scelte che [si] fanno» (intervista del 12/07/2016). Si tratta quindi di offire uno spazio di valutazione e scelta informata che spesso può essere accompagnata dalla compilazione di un “piano del parto”, una lista cioè di desiderata da consegnare alla struttura sanitaria in cui sono dettagliate le preferenze dei genitori rispetto allo svolgimento del travaglio-parto nell’auspicio che possano essere seguite, ma sempre compatibilmente con il quadro clinico. Sulle potenzialità e rischi di questo strumento si discute da tempo (Gilliland, 2002; T. Kaufman, 2007) e anche le mie interlocutrici, sebbene nella consapevolezza dell’importanza di un simile strumento «di confronto», non appaiono sempre convinte dell’opportunità di consegnare effettivamente in ospedale il documento, che spesso può rimanere una risorsa «da tenere nel cassetto». È bene notare comunque che il piano del parto costituisce l’espressione di “preferenze” e non è da confondere con ciò che concerne la documentazione medica e amministrativa ufficiale, per esempio tutto ciò che è legato al consenso informato (Faden & Beauchamp, 1986; Schmid, 2007). Online sono disponibili molti modelli, più o meno dettagliati, di piano del parto.

145 I materiali completi, in formato digitale e multi-lingue, sono disponibili sul portale

Salute della Regione Emilia-Romagna (http://salute.regione.emilia- romagna.it/documentazione/materiale-informativo/pubblicazioni/non-da-

sola/@@reset-optout?came_from=http://salute.regione.emilia-

romagna.it/documentazione/materiale-informativo/pubblicazioni/non-da-sola, sito web consultato in data 24/11/2017). Rimando a questi per una descrizione dettagliata dell’iter sanitario e degli esami clinici suggeriti in Emilia-Romagna durante la gravidanza.

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e relazionalmente sole, ma sentirsi ugualmente non viste146. È possibile – e

frequente – sentirsi isolate e smarrite quando i processi di esplorazione dei desideri, delle paure e delle aspettative non sono legittimati e, di conseguenza, rischiano di non portare a percorsi allineati con la propria volontà e ad effettive possibilità di sprimentazione di itinerari personali dotati di senso e direzione. Anche per questo, la funzione della doula può essere più facilmente riconosciuta dalle

donne già madri, come sostiene Agata:

[i]o vedo che c’è sempre molta risposta, le donne che hanno figli, che hanno appena avuto un figlio e così sono sempre molto affascinate dalla figura della doula, quindi piace e il fatto che piaccia significa che va a coprire un bisogno, che va a

rispondere a un bisogno, a un bisogno di... soprattutto di significato, più ancora che non di solitudine che comunque anche quello è importante, però proprio di essere viste. Io dico

sempre che le donne in gravidanza e con un bambino piccolo soprattutto hanno un solo vero grande bisogno, che è quello di essere viste e invece sono un po’ invisibili, no? Quindi c’è un po’ questa cosa, questa idea che la doula ti vede,

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