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31 I Dialoghi: una forma letteraria classica.

a) Presupposti teorici

Ho già accennato alla questione della forma dialogica come elemento fondante del progetto Leucò: essa sembra davvero la chiave di volta dell‘intera opera, se Pavese stesso è portato a sottolinearne più volte il valore sintetico rispetto ai numerosi filoni ispiratori della sua poetica81. La nota di diario del 27 settembre 1946 offre una definizione esplicita della modalità espressiva prescelta:

Per chi sa scrivere, una forma è sempre qualcosa d‘irresistibile. Corre il rischio di dire sciocchezze e di dirle male, ma la forma che lo tenta pronta a imbeversi delle sue parole, è irresistibile. (Intendo per es. il genere del dialogh. mitologico tuo).82

L‘abbreviazione sta per ―dialoghetto mitologico‖, un genere specifico con precisi antecedenti nella storia della letteratura. Il suo statuto permette a Pavese di accostare in maniera sostanzialmente arbitraria personaggi del patrimonio leggendario greco, alla cui ridefinizione concorrono talvolta le letture etnoantropologiche; le conversazioni così costruite riguardano temi filosofici, esistenziali, antropologici o riflessioni teoriche sul mito. L‘originalità e la voglia di sorprendere sembrano preoccupazioni costanti dell‘autore, che è portato ad annotare in data 28 marzo 1947, in un momento in cui la stesura dei dialoghi è ormai in fase avanzata:

Ecco conferma del 17 marzo. Ho ricchi spunti sentimentali per i dialoghetti ma sono bloccato perché mi manca una forma soddisfacente di accostamento - un nuovo paio di interlocutori che non siano il solito cliché.83

Questo atteggiamento, oltre a richiamare la consuetudine classica dell‘innovazione nella tradizione, va contestualizzato nel quadro del discorso sul mito affrontato nel capitolo precedente. Se il mito classico è solo uno dei codici possibili per esprimere una visione simbolica della realtà, esso è particolarmente indicato per il fatto di essere già noto al pubblico dei letterati, che è poi il destinatario privilegiato della produzione poetica, come argomenta lo stesso Pavese in Poesia è libertà.

Va da sé che anche i letterati compiono opera proficua, e nulla è più inconcludente della romantica crociata rivolta a sterminarli e umiliarli. Ciò non soltanto perché i maggiori poeti affondano radici nel terriccio e nel concime della letteratura e ne sono nutriti e insomma composti per massima parte, ma soprattutto perché i letterati costituiscono l‘ossatura del pubblico che ascolta i poeti e dànno una voce e un senso alle aspirazioni e risposte di questo pubblico ingenuo.84

81 Cfr. § n. 57. 82 Pavese 1990: 321.

83 Pavese 1990: 330. La nota del 17 marzo, cui Pavese fa riferimento, non è meno interessante: ―Finita

un‘opera, si cerca di rinnovarne la forma non il contenuto. Lo stile non i sentimenti. Il simbolo non la cosa simboleggiata. Dove si sente la stanchezza è nello stile, nella forma, nel simbolo. Di sentimento- contenuto se ne ha sempre abbondanza, per il solo fatto che si vive‖.

84

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I letterati hanno il compito di ―volgarizzare‖ le creature mostruose della poesia, ―ancora intrise di primordiale sbigottimento‖ e renderle accettabili al pubblico e integrabili nella cultura corrente. Dunque, il particolare statuto del mito classico innesca un processo ermeneutico potenzialmente inesauribile, tanto per il lettore quanto per il poeta; quest‘ultimo finirà per essere favorito dal graduale aumento di consapevolezza di ciò che nella sua opera è già noto perché tradizionale, di ciò che è innovativo ed in questo senso poetico, di ciò che è immutabile e ripetitivo nell‘evento mitico. Si tratta di isolare il divenire spirituale in un momento assoluto, come postula il saggio Due poetiche:

Il mito [...] è bensì, per definizione, pre-storico, è un momento assoluto, ma, appena colto, si farà momento spirituale, soggetto alle categorie e condizioni della storia. Tuttavia, se è mito genuino, non potrà essere fiorito che sul terreno di tutta la cultura esistente, e quindi della più scientifica interpretazione della storia, altrimenti sarebbe pura superstizione, relitto arcaico, falso stupore davanti a un mistero posticcio.85

È necessario prendere coscienza delle condizioni di interazione tra mito e storia: nella nostra esperienza razionale, le due dimensioni sono fuse e difficilmente distinguibili. Per operare un discrimine, bisogna padroneggiare la cultura dei propri tempi e delle epoche precedenti in maniera critica, addirittura scientifica. L‘approccio religioso non è più possibile per l‘uomo contemporaneo; il rischio sarebbe allora di abbandonarsi ad un falso stupore che non conosce l‘intervento necessario e ineludibile della ragione. Alla luce di queste considerazioni, è possibile tornare al problema della forma da una prospettiva più chiara. La forma letteraria è determinante per plasmare un‘abbondante materia emotiva e, in questo senso, costituisce il momento tecnico e razionale dell‘attività poetica. Nel momento in cui l‘autore sceglie di servirsi di una forma precisa (dialogo mitologico) inerente a un codice determinato (mitologia greca), mi pare verosimile che egli si sia in precedenza documentato in maniera ―scientifica‖ sull‘una e sull‘altro. Il fine di questa ―presa di coscienza‖ non è una semplice volontà di imitazione, ma la possibilità di abolire i condizionamenti storico-culturali che ingabbiano il codice prescelto86. Abbiamo visto quanta importanza avesse per Pavese il confronto diretto con i testi greci in lingua originale: è chiaro che a questa preoccupazione metodologica non poteva restare estranea una riflessione sui rapporti ancora vitali tra i modelli classici e il modo contemporaneo di fare letteratura. Ad esempio, lo scrittore piemontese trae utili considerazioni sul valore della narrazione presso i Greci. Queste riflessioni permeano intimamente la struttura e la definizione dei personaggi dei Dialoghi con Leucò.

Il personaggio è concezione teatrale, non specificatamente narrativa. Il raccontare non richiede necessariamente i personaggi. Massimo narratore greco è Erodoto, non Omero - che anzi è teatro antelitteram.

L‘800 aspirava al teatro e non ce la fece - creò invece un grande romanzo, ch‘era teatro, cioè personaggi. Ora si tende a interessarsi nuovamente al puro narrare. Non si riesce nemmeno a mettere in piedi personaggi, è un lavoro banale, lo fa

85 Pavese 1991: 327-328. 86

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chiunque. La scoperta sta nel senso del ritmo, del senso della realtà mossa, di Erodoto. Siamo contemporaneamente più simbolizzanti, e più intellettualistici - non Iliade, ma Erodoto (spieghiamo che racconteremo il cozzo di Greci e Barbari, ne diamo le ragioni, almanacchiamo - non siamo più puri contemplatori, ci muoviamo nel nostro mondo più riccamente - passioni, figure, motivi, scherzi ecc. - ma insieme più isolati).87

La svolta teorica è una svolta letteraria: se lo scopo è pur sempre una descrizione della realtà, nella produzione di questo periodo viene definitivamente superata la pretesa di rendere in versi, o meglio in immagini, una realtà oggettiva e logica88, per fare posto ad una narrazione capace di cogliere il ritmo del mondo e degli avvenimenti, e giungere a una dissoluzione dei personaggi in questo ritmo. I personaggi evanescenti di Leucò, nomi vuoti di sostanza reale ma densi di carica simbolica e di connotazioni culturali89, sono perfetti per ricostruire con ritmo narrativo un percorso individuato dalla ragione, che non si svolge in modo lineare ma si dibatte entro i limiti della conoscenza, della memoria, della vita umana. La contemplazione lascia il posto alla relazione, alla dialogicità, al movimento storico, che è pur sempre scandito da monotoni ritorni dell‘identico90

. Su di un piano concreto, i brevi prologhi che Pavese premette ad ogni dialogo costituiscono quel bisogno di mediazione razionale, di presa di distanza da una materia che rischia di fagocitare poeta e lettore in ogni momento.

b) Un modello classico per i Dialoghi? Pavese e Luciano.

Se la vita di Pavese è un intreccio di motivi che ritornano monotoni, tuttavia essi risultano ogni volta arricchiti da nuova consapevolezza; così, alla definizione della forma dialogica propria di Leucò, concorrono senz‘altro modelli dichiarati, quali Leopardi con le sue Operette morali e, per l‘età antica, Platone e in parte Erodoto; ma è decisamente probabile che lo scrittore, ricordandosi delle sue prime traduzioni dal greco, riconsiderasse sotto nuova luce l‘opera di uno degli autori scolastici per eccellenza, che tuttavia sfugge a facili classificazioni, nonché prw'toο euJrethvο del dialoghetto mitico-filosofico. Luciano di Samosata, retore raffinatissimo dei tempi degli Antonini, non era ignoto a Pavese. Il già citato saggio di Attilio Dughera documenta addirittura una sua conoscenza di prima mano dei Dialogi Marini, Dialogi Deorum e

Dialogi Mortuorum: infatti, durante il confino a Brancaleone Calabro, lo scrittore

87 Pavese 1990 : 329-330. Nota del 22 marzo 1947. La nota risponde, ancora una volta, ad una esigenza

posteriore rispetto alla creazione letteraria: Pavese avverte la necessità di inserire i propri brevi dialoghi in un discorso coerente che corrisponda grosso modo all‘evoluzione del pensiero dal mito al logos. Bart van den Bossche ha acutamente rilevato una feconda contraddizione implicita nella genesi dei Dialoghi con

Leucò: se da un lato l‘impegno di Pavese è rivolto a favorire un‘ampia accessibilità all‘opera, dall‘altro

egli non intende sciogliere gli enigmi ―perenni‖ del mito e preserva un nucleo ―irriducibile‖ alla comprensione umana (si tratta della componente di resistenza individuata da van den Bossche). Cfr. van den Bossche 2001.

88 Questo era il senso dei poemetti della raccolta Lavorare stanca; cfr. il saggio Il mestiere di poeta, in

appendice all‘opera.

89

―Bei nomi carichi di destino‖, li definisce l‘autore nell‘Intervista alla radio. Cfr. Pavese 1991: 266.

90 L‘appendice ai dialoghi illustra il processo di sistemazione che Pavese opera in questo senso dopo il

completamento della raccolta, con l‘individuazione di nuclei tematici e l‘organizzazione dei singoli brani in un ordine diverso da quello di composizione.

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trascrisse sui suoi quaderni le traduzioni di tredici dialoghetti di Luciano. Per la precisione, si tratta di Creso, Mila, Sardanapalo; Menippo, Antiloco e Trofonio;

Menippo e Mercurio; Vulcano e Giove; Zenofanto e Callidemide; Caronte e Mercurio; Nireo e Tersite; Menippo e Tantalo; Vulcano e Apollo; Giove, Esculapio e Ercole; Mercurio e Caronte; Diogene e Mausolo; Plutone e Mercurio; Ciclope e Nettuno; Arione e il delfino91. Queste versioni apparterrebbero al primo periodo di traduzione, volto a recuperare dimestichezza con la lingua greca. L‘assenza di notazioni contenutistiche sembrerebbe confermare una simile funzione92; ma proprio la conoscenza diretta e lo studio approfondito della lingua, reso indispensabile dall‘esercizio di traduzione, segnalano il ruolo svolto da Luciano come modello attivo per i Dialoghi con Leucò, tanto più se consideriamo la sua diretta influenza sulle

Operette morali, cui Pavese si rifà esplicitamente. L‘opera di Luciano, peraltro modello

dichiarato di quella di Leopardi93, incide dunque in modo rilevante nella sperimentazione formale di Pavese94; la prova di traduzione dei tredici dialoghi, scelti evidentemente dopo una lettura molto più ampia, o addirittura integrale, delle tre raccolte, rende dunque plausibile questa ricostruzione, confortata anche da numerosi elementi di affinità tra Pavese e Luciano.

Ad un primo livello, balzano agli occhi le analogie strutturali tra i Dialoghi con Leucò e i dialoghetti mitologici lucianei. Il dato più evidente è quello della misura dei singoli dialoghi; la loro brevità condensa in poche battute temi complessi, spesso considerati da un‘angolatura decisamente poco convenzionale. Le Operette morali sono invece caratterizzate da un‘estensione notevole e non tutte hanno una forma propriamente dialogica95; sotto questo profilo, la somiglianza tra i Dialoghi con Leucò e le ―miniature‖ di Luciano risulta ancora più esplicita e diretta. Una caratteristica comune è il principio in medias res della narrazione di vicende che raramente sono collocate in un‘ambientazione precisa, tanto che il contesto resta vago o è comunque marginale. Ne è prova il confronto tra l‘incipit di un dialogo di Luciano (D. Deor. 5) e quello di uno di Pavese (La rupe), entrambi variazioni sul mito di Prometeo:

ΠΡΟΜΗΘΕΤ΢ Λῦζόλ κε, ὦ Ζεῦ· δεηλὰ γὰξ ἤδε πέπνλζα.96

ERACLE Prometeo, sono venuto a liberarti.

Questo brevissimo esempio permette di precisare il ―taglio‖ analogo che viene impresso alla narrazione dai due autori: l‘episodio viene colto nel suo svolgimento e quanto precede o segue fa affidamento su quanto è già noto all‘ascoltatore/lettore, che deve impegnarsi in prima persona per cogliere analogie e differenze con la vicenda tradizionale. Nel primo caso, Luciano riproduce un dialogo tra Prometeo incatenato e Zeus, il quale acconsente a liberare il titano dopo che questi lo ha messo in guardia da un pericolo fatale; non manca una caratura ironica, visibile soprattutto nei rimproveri

91 D. Mort. 3; D. Mort. 10; D. Mort. 5; D. Deor. 13 (8); D. Mort. 17; D. Mort. 20; D. Mort. 30; D. Mort.

7; D. Deor. 11 (7); D. Deor. 15 (13); D. Mort. 14; D. Mort. 29; D. Mort. 15; D. Mar. 2; D. Mar. 5 (8).

92

Dughera 1992: 21.

93 Leopardi esprime già nei Disegni letterari del 1819 la volontà di comporre ―dialoghi satirici alla

maniera di Luciano‖, desiderio confermato nella lettera a Pietro Giordani del 6 agosto 1821, dove il poeta recanatese parla di un ―trattato in prosa alla maniera di Luciano‖.

94

Per una panoramica sul rapporto tra i due scrittori, rimando a Van den Bossche 1992.

95 Viene subito in mente la lunga narrazione indiretta che caratterizza i Detti memorabili di Filippo

Ottonieri.

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che Zeus muove al titano per aver creato quelle sciagurate creature che sono gli uomini, o nel terrore del padre degli dèi di fronte alla possibilità di essere detronizzato come il suo odiato genitore. La variante più significativa rispetto alla tradizione consiste nell‘assegnare il compito di liberare Prometeo a Efesto invece che a Eracle. Pavese si attiene invece alle versioni più note, e immagina così una discussione dell‘eroe incatenato con Eracle giunto a salvarlo. L‘argomento è il destino dell‘uomo, creatura prediletta da Prometeo: l‘eroe ha le connotazioni romantiche dell‘uomo-titano, ma dalla rupe a cui è condannato ha imparato le leggi del mondo e illustra ad Eracle l‘avvicendamento dalla fase bestiale a quella olimpica. Gli uomini non sono che pietà e paura, ma se riuscissero a vincere la paura cancellerebbero il primato di cui godono gli dèi: ―Quando i mortali non ne avranno più paura, gli dèi spariranno‖. In questa battuta è racchiuso il senso profondo della distinzione tra sfera bestiale, umana e divina: l‘Olimpo è una proiezione amplificata della condizione umana, il cui potere normativo si alimenta paradossalmente del terrore per l‘irrazionale che si annida nel cuore dei mortali. Gli uomini, una volta distintisi dal caos selvaggio delle origini, relegano l‘elemento titanico in un esilio senza nome e creano i garanti dell‘ordine razionale, gli dèi, che rivestono di una sacralità inattingibile.

La spregiudicatezza narrativa di Luciano si gioca spesso nel ridurre alla misura di una battuta fulminea, in un confronto dialogico serrato, una svolta ben nota del mito, cambiando registro drammatico e attenuando ogni sfumatura tragica a tutto vantaggio del botta e risposta comico. Pavese predilige invece i temi esistenziali della libertà e del destino, del senso dell‘umano e del divino nel contrasto fra caos del mondo titanico e norma del mondo olimpico. Tanto più sorprendente, dunque, la sua capacità di piegare la forma del modello greco a finalità nettamente distinte e distanti. A entrambi, tuttavia, il dialogo mitologico offre un‘estrema libertà, che consente di riadattare vicende e figure leggendarie a nuove esigenze di stile e di contenuto.

Tratto tipico di questa forma è poi lo sviluppo di un discorso tra due interlocutori con una conclusione inattesa: l‘ajprosdovkhton conosce un largo impiego in entrambi gli autori. Nel caso di Luciano l‘effetto è tendenzialmente umoristico, come dimostra il dialogo tra Ermes e il figlio illegittimo Pan (D. Deor. 2):

ΕΡΜΗ΢ Οἶζζα νὖλ, ὦ ηέθλνλ, ὅ ηη ραξίζῃ ηὸ πξ῵ηνλ αἰηνῦληί κνη;

ΠΑΝ Πξόζηαηηε, ὦ πάηεξ· ἟κεῖο κὲλ ἴδσκελ ηαῦηα. ΕΡΜΗ΢ Καὶ πξόζηζί κνη θαὶ θηινθξνλνῦ· παηέξα δὲ ὅξα κὴ θαιέζῃο κε ἄιινπ ἀθνύνληνο.97

Ermes, in partenza restio ad accettare il figlio, finge di essere rassegnato al suo destino di padre di un essere così ripugnante; in realtà, non intende assolutamente pubblicizzare la parentela e mette in guardia Pan dal chiamarlo ―babbo‖ in presenza di chiunque altro. Se molti dialoghi hanno una connotazione umoristica che esplode nel finale, non mancano tuttavia momenti di sospensione che aprono a problematiche più ampie, come nel caso del dialogo tra Ermes e Apollo sulla morte di Giacinto (D. Deor. 16), dove il

97 Ermes: ―Sai,figliolo, qual è il primo piacere che ti chiedo?‖.

Pan: ―Comanda, padre, e lascia che me la veda io‖.

Ermes: ―Vieni pure a trovarmi e sii pure affettuoso. Padre, però, vedi di non chiamarmi se qualcun altro può sentire‖.

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dio Febo è in grave lutto per la morte dell‘amato mortale e viene per questo ripreso dall‘interlocutore:

ΑΠΟΛΛΩΝ ἆξά ζνη ἀιόγσο ιειππ῅ζζαη δνθ῵;

ΕΡΜΗ΢ Ναί, ὦ Ἄπνιινλ· ᾔδεηο γὰξ ζλεηὸλ πεπνηεκέλνο ηὸλ ἐξώκελνλ· ὥζηε κὴ ἄρζνπ ἀπνζαλόληνο.98

In questo caso al tema dell‘amore omosessuale si intreccia quello più generale del tormentato rapporto tra uomini e dèi, su cui torneremo. Anche Pavese ricorre al fulmen

in clausula, anche se il tono generale è più amaro: in linea di massima le battute

conclusive servono a evidenziare un filo conduttore implicito nella tessitura dei dialoghi e non di rado si pongono dialetticamente in contrasto con le enigmatiche didascalie che Pavese pone come prologo ad ogni brano. Il senso di sorpresa può derivare dalla conoscenza, da parte del lettore, di elementi che agli interlocutori sfuggono, come nel caso di Edipo in I ciechi.

TIRESIA Ti sei mai chiesto, Edipo, perché gli infelici invecchiandosi accecano? EDIPO Prego gli dèi che non mi accada.

Edipo non è consapevole del proprio tragico destino, a differenza del lettore e dello stesso Tiresia, che infatti non ribatte. All‘inizio del dialogo, una noterella chiariva il contesto:

Non c‘è vicenda di Tebe in cui manchi il cieco indovino Tiresia. Poco dopo questo colloquio cominciarono le sventure di Edipo - vale a dire, gli si aprirono gli occhi, e lui stesso se li crepò dall‘orrore.

È chiara la distanza tra la promessa di questo prologo e l‘auspicio finale di Edipo. Non sempre le intestazioni sono così coerenti con il discorso sviluppato nel dialogo, né con le versioni ortodosse del mito; esse svolgono spesso la funzione di creare un‘aspettativa nel lettore, che poi sarà delusa con uno scarto inatteso da parte di una materia apparentemente docile e accessibile. Sotto questo profilo, la tecnica compositiva è affine a quella di Luciano. Se infatti consideriamo il finale di un dialogo ben meno drammatico, che si riferisce ad un famoso episodio narrato nell‘Odissea, possiamo notare il grado di interazione tra finzione letteraria e conoscenze necessarie al lettore per comprendere appieno il gioco artistico; in D. Mar. 2 Polifemo racconta al padre Poseidone la vicenda dell‘inganno di Odisseo ai suoi danni e della fuga dell‘itacese dalla grotta. Poseidone, ritratto come un padre comprensivo e desideroso di vendicare il figlio umiliato, ricorda allora il proprio potere sul mare, e con una frase sibillina anticipa i molti ostacoli che Odisseo dovrà superare per tornare a casa, ben noti al pubblico dell‘epoca.

98 Apollo: ―Ti sembra che il mio dolore sia irragionevole?‖.

Ermes: ―Sì, Apollo: sapevi di aver scelto un mortale da amare, sicché non affliggerti se è morto‖. (trad. A. Lami - F. Maltomini)

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ΠΟ΢ΕΘΔΩΝ Θάξξεη, ὦ ηέθλνλ· ἀκπλνῦκαη γὰξ αὐηόλ, ὡο κάζῃ ὅηη, εἰ θαὶ πήξσζίλ κνη η῵λ ὀθζαικ῵λ ἰᾶζζαη ἀδύλαηνλ, ηὰ γνῦλ η῵λ πιεόλησλ [ηὸ ζῴδεηλ αὐηνὺο θαὶ ἀπνιιύλαη] ἐπ‘ ἐκνί ἐζηη· πιεῖ δὲ ἔηη.99

La battuta finale lascia che sia l‘uditore/lettore a integrare la vicenda con il séguito della storia, assaporando il gusto di apprenderne un inedito retroscena (peraltro basato sugli stessi elementi impliciti nelle parole di sfida di Odisseo e nella preghiera che poi il Ciclope rivolge a Poseidone, in Od. IX 519-536100). Sia l‘esempio da Pavese che quello da Luciano indicano un elemento fondamentale per una resa efficace della riscrittura mitica: una vicenda ben nota va rielaborata in seno ad un dialogo immaginario ma plausibile, in cui si fondono innovazione e aspetti tradizionali; in questo senso, la battuta finale può fungere da cerniera con le vicende più note della mitologia. In altri casi lo scarto rispetto alle attese può derivare da una frase in evidente contrasto con il senso comune ma coerente con il progetto dell‘opera: Virbio-Ippolito in Il lago è pronto a rinunciare alla propria immortalità pur di tornare a sgozzare le belve e sentire il calore del sangue e prega Artemide di aiutarlo.

DIANA Pensaci bene, Virbio-Ippolito. Tu sei stato felice.

VIRBIO Non importa, signora. Troppe volte mi sono specchiato nel lago. Chiedo di vivere, non di essere felice.

L‘eroe, diventato dio dopo la morte, vuol tornare ad essere uomo per il ricordo del sentimento del tempo ancora vivo in lui, quando gli attimi non avevano tutti lo stesso valore e l‘esistenza era densa di sangue e destino: un paradosso, dal momento che la dilatazione del tempo nel privilegio perenne dell‘eternità equivale, per chi ancora rammenta la propria esistenza mortale, ad annientare il senso stesso della vita. La richiesta finale, così, risulta sorprendente, in quanto contraddice il desiderio umano di sostituire la propria natura effimera con quella immortale; ma lo stravolgimento è reso possibile solo dall‘adozione di un punto di vista esterno alla vita. Ippolito diventa

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