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DIALOGHI CON LUCIANO: PAVESE, LEUCÒ E IL MODELLO TRADITO

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INDICE

Introduzione...2

PARTE PRIMA...6

Pavese e il suo tempo: il grosso scandalo Leucò...7

Ritorno alle origini? Pavese e il mondo classico...18

PARTE SECONDA...30

I Dialoghi: una forma letteraria classica...31

a) Presupposti teorici...31

b) Un modello classico per i Dialoghi? Pavese e Luciano...33

c) Punti di vista...41

d) Delocalizzazione e rifunzionalizzazione del mito...45

Uomini e dèi nella riscrittura del mito...48

a) Apollo e Giacinto...48

b) Endimione e Selene/Artemide...55

c) Issione e Nefele...63

d) Calipso e Odisseo...71

Conclusioni: il modello tradìto...78

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2 Introduzione

Cesare Pavese ha realizzato con i Dialoghi con Leucò un‘operazione tra le più controverse del Novecento letterario europeo: egli ha tentato una riscrittura contemporanea del mondo classico, non in una dimensione arcadica né isolando un singolo mito particolarmente vivo nella tradizione europea, ma con l‘ambizione di rileggere un intero sistema culturale alla luce dell‘elaborazione poetica e della ricerca assai originale che conduceva in questo ambito. L‘enigmaticità dell‘opera è tale da rendere difficile un‘interpretazione definitiva e, per così dire, chiusa delle sue componenti; non si può prescindere tuttavia dalla forma dialogica che permea struttura e intenti della raccolta, se non si vuole correre il rischio di rimanere ingabbiati in letture inadeguate a cogliere lo spirito effettivo di Leucò, per quanto in sé coerenti. Bisogna partire proprio dal principio dialogico, muovere alla ricerca dei possibili ―interlocutori‖ di Pavese, per gettare una luce significativa sul metodo di lavoro e sulle complesse architetture erette dallo scrittore piemontese.

L‘interlocutore più diretto è, naturalmente, lo stesso autore, con la sua opera precedente o coeva a Leucò. Pavese ha infatti sviluppato, negli anni fino al 1946, una serie di miti personali, sia in forma poetica che in forma narrativa. Giuditta Isotti Rosowsky individua, nei romanzi di Pavese, un ricorso massiccio alla forma dialogica contrappositiva, sia essa tra l‘uomo e la donna, tra il ragazzo e l‘adulto, tra il prima e il dopo. Ella ravvisa la matrice ideologica di questo atteggiamento in Kierkegaard, con la mediazione dell‘esistenzialismo: ―Non spiegava Kierkegaard (letto negli anni 1942-1943 soprattutto attraverso Karl Jaspers) che ogni fatto accaduto è sempre passibile di una nuova comprensione e che il modo in cui viene interpretato rappresenta una nuova realtà, prima nascosta?‖1

. Il dialogo è dunque inteso come incontro e gioco di specchi; esso è l‘unica forma letteraria capace di rappresentare ―un movimento di fondo‖ che ―si nega come romanzo‖2

e come narrazione. La svolta decisiva è rappresentata dai

Dialoghi con Leucò, che non corrispondono precisamente a un genere codificato della

modernità letteraria e portano all‘estremo le conseguenze del ―romanzo deludente‖, come lo definisce la Isotti Rosowsky:

Non analizzare, ma rappresentare. Ma in un modo tutto vivo secondo un‘implicita analisi, nuove norme, nuova ideologia.

È facile enunciare nuova analisi, nuove norme ecc. Difficile è farle nascere da un ritmo, un piglio di realtà coerente e complesso.3

Il dialogo permette di ritrovare un‘intima vitalità al di sotto della conoscenza razionale; da questo principio muove l‘intera costruzione di Leucò. La raccolta del 1947 è un tentativo, per Pavese, di venire a capo dei propri miti personali, posti in un ritmo scandito dagli incontri tra uomini e dèi. Non è questa la sede per offrire una panoramica esaustiva dei rapporti molto stretti che intercorrono tra i Dialoghi e la produzione

1 Isotti Rosowsky 2000: 89. 2 Isotti Rosowsky 2000: 99. 3

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3

romanzesca di Pavese4; credo tuttavia che un punto di contatto fondamentale si possa ravvisare nell‘accostamento tra un personaggio simbolico dotato di scarsa esperienza del mondo e uno più esperto che funge da guida e riferimento per il primo. Come in

Feria d’agosto la figura del ragazzo si pone sempre in un rapporto paideutico con

l‘uomo fatto e avventuroso, che lo introduce alle donne, alle risse, all‘esperienza della morte, così in Leucò gli dèi e i titani si confrontano con l‘uomo sugli elementi costitutivi del cosmo, ovvero il sesso, il sangue, la morte e la vita eterna nella loro dimensione autentica e primigenia.

A fronte di queste considerazioni, è necessario trovare le ragioni profonde di una scelta così singolare come quella della riscrittura del mito greco in pieno Novecento; la prima parte del presente lavoro è volta a illustrare il percorso di elaborazione teorica che Pavese compie negli anni contrastati della ricostruzione, quando parlare di mito equivaleva a dichiarare una propria contaminazione con le ideologie totalitarie appena debellate. Sulla strada che conduce a Leucò non mancano le incomprensioni legate a motivi politici, come nel caso del rapporto con l‘antropologo Ernesto de Martino, ma anche inaspettate affinità e segnali di amicizia, per esempio da parte del filologo Mario Untersteiner. Questi dati di contesto, utili a comprendere l‘originalità e i limiti dell‘opera in relazione ai condizionamenti storico-culturali dell‘epoca, vanno integrati con una ricostruzione puntuale e ponderata della catena di riflessioni annotate, spunti teorici, saggi pubblicati su riviste e giornali attraverso i quali Pavese ha delineato una sua costellazione di riferimenti eruditi e filosofici e ha insomma definito il proprio approccio ai concetti di mito, tradizione e classicità. Da un lato non si può prescindere dagli elementi teorici che Pavese dissemina nel suo diario e nella produzione saggistica degli ultimi anni della sua esistenza; dall‘altro è inevitabile considerare il legame diretto che lo scrittore era solito intrattenere con i testi classici; non è un caso che Leucò prenda forma dopo un periodo di intensa traduzione dal greco, che avrà come altro importante effetto l‘idea di una nuova versione dei poemi omerici, affidata alla giovane Rosa Calzecchi Onesti.

Pavese è convinto che i fenomeni culturali, in specie quelli religiosi, vadano analizzati e rivissuti, in una originale collaborazione tra la dimensione logico-razionale e lo slancio esistenziale verso la dimensione totalizzante dell‘Erlebnis. Proprio la necessità di stabilire un contatto diretto con l‘esperienza antica, per padroneggiarne le forme e ritrovare in essa una vitalità celata ma ripetibile, spinge Pavese a prendere in considerazione negli anni un gran numero di testi letterari greci, la cui lettura, in parte condizionata dai saggi di etnoantropologia da lui assiduamente frequentati, in realtà imbocca vie personali e eclettiche in virtù della conoscenza diretta della lingua ellenica, che Pavese arriva a padroneggiare perfettamente dopo un lungo e faticoso esercizio. Guardando ai classici per individuare un modello formale e contenutistico da rielaborare liberamente e dunque anche, in un certo senso, tradire, Pavese deve essersi imbattuto in un autore dalla fisionomia complessa, Luciano di Samosata, la cui opera è di per sé un tentativo di mettere mano ad una tradizione letteraria stantia, da cui recuperare elementi di verità e razionalità, in una chiave prettamente comica. Il retore siriano era senz‘altro

4 Il primo tentativo di ritrovare un ―filone unitario‖ nella produzione di Pavese risale forse allo scambio

epistolare tra lo scrittore piemontese e Italo Calvino. Cfr. la lettera del 29 luglio 1949, in Pavese 1968: 408.

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noto a Pavese per esperienza diretta di traduzione e lettura, almeno delle sue opere principali. L‘autore satirico di età imperiale ha avuto un‘evidente influenza per la scelta della forma letteraria, il dialogo mitologico di breve misura; non mancano poi, in Leucò, casi di vera e propria ripresa di episodi lucianei. Il confronto diretto tra i due autori occupa così la seconda parte della tesi. A livello generale, questo accostamento complica, più che chiarirla, l‘enigmatica questione dell‘unitarietà dei Dialoghi con

Leucò: Luciano non dà un ordine vero e proprio alle sue raccolte, ma raggruppa i

dialoghi sulla base di un‘ambientazione comune che rende possibili gli incontri tra gli interlocutori. L‘Olimpo, il mare, l‘Ade sono i luoghi in cui si muovono creature legate a quella sfera; detto questo, è impossibile stabilire all‘interno delle singole raccolte un ordine di lettura o un denominatore comune più preciso (anche se non sono certo mancati i tentativi critici, in questo senso). Gli stessi dialoghi sono costruiti in modo da ingannare le aspettative del lettore colto e sono animati da un meccanismo paradossale, per cui l‘elemento razionale deforma la tradizione contraddittoria della mitologia greca, destituendola della sua autorità. La dimensione dialogica, che pure prevede l‘interazione tra due interlocutori, uno dei quali è più esperto dell‘altro, coinvolge il pubblico in un gioco di riferimenti e sorprese, anche se la finalità di una simile operazione è piuttosto l‘intrattenimento, il piacere intellettuale, che un effettivo incremento di conoscenza. Pavese, nel ripercorrere la fase mitica della vicenda umana, punta di certo a espandere le possibilità di conoscenza dei suoi contemporanei, in una dimensione ardua dal punto di vista intellettuale. Il problema dell‘ordine dei dialoghi rivela una volontà di accostamento analogico, più che puramente razionale. Questo è l‘ordine cronologico di composizione dei Dialoghi con Leucò, sulla base della datazione fornita da Pavese stesso: Le streghe (13-15 dicembre 1945); La belva (18-20 dicembre 1945); La madre (26-28 dicembre 1945); La rupe (5-8 gennaio 1946); Schiuma d’onda (12-19 gennaio 1946); I due (18-20 gennaio 1946); Gli Argonauti (24-25 gennaio 1946); Le Muse (30 gennaio-1 febbraio 1946); La Chimera (12-16 febbraio 1946); In famiglia (21-24 febbraio 1946); Il fiore (28 febbraio-2 marzo 1946); La nube (21-27 marzo 1946);

L’inconsolabile (30 marzo-3 aprile 1946); La strada (7-12 aprile 1946); Il mistero (6-7

maggio 1946); Il diluvio (26 maggio-6 giugno 1946); Il lago (28-30 giugno 1946); I

ciechi (5-8 luglio 1946); La vigna (26-31 luglio 1946); Il toro (11-18 agosto 1946); L’isola (8-11 settembre 1946); I fuochi (18-21 settembre); L’ospite (22-23 febbraio

1947); Le cavalle (25-26 febbraio 1947); Gli dèi (9-11 marzo 1947); L’uomo-lupo (15-16 marzo 1947); Gli uomini (29-31 marzo 1947)5. Pavese cambia poi l‘ordine dei dialoghi seguendo il criterio di ricreare il ritmo del cammino dell‘uomo dal caos alla razionalità, un cammino che viene illustrato, non solo simbolicamente, dal rapporto fra mortali e immortali (Uomini e dèi è del resto il titolo provvisorio, poi sostituito da quello definitivo della raccolta, come testimonia una minuta di frontespizio6). Alla fine la disposizione dei dialoghi risulta la seguente: La nube; La Chimera; I ciechi; Le

cavalle; Il fiore; La belva; Schiuma d’onda; La madre; I due; La strada; La rupe; L’inconsolabile; L’uomo-lupo; L’ospite; I fuochi; L’isola; Il lago; Le streghe; Il toro; In famiglia; Gli Argonauti; La vigna; Gli uomini; Il mistero; Il diluvio; Le Muse; Gli dèi. I

nuclei tematici sono posti in una rete di continue interazioni, di incontri incessanti: titani, uomini e dèi coesistono, non si avvicendano una volta per tutte nel momento in cui sono ancora parte di un‘esperienza culturale. Pavese redige uno schema che raduna e articola i titoli per blocchi concettuali7: il primo gruppo, riguardante l‘opposizione tra mondo titanico e norma olimpica, viene definito delle ―nequizie divine‖, e comprende 5 Pavese 1999: 179-182. 6 Cfr. Pavese 1999: 175. 7 Cfr. Pavese 1999: 177-178.

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La nube; La Chimera; I ciechi; Le cavalle; Il fiore; La belva; Schiuma d’onda. I

dialoghi La madre; I due; La strada appartengono invece alla categoria ―tragedia di uomini schiacciati dal destino‖, in cui gli eroi si dibattono in una realtà confusa e dominata dalla necessitas. Il terzo associa L’inconsolabile; L’uomo-lupo; L’ospite; I

fuochi; L’isola; Il lago; Le streghe; Il toro; In famiglia; Gli Argonauti, tutti episodi

accomunati dal tema ―salvezze umane e dèi in imbarazzo‖, perché gli uomini cominciano ad alzare la testa di fronte al destino e alle ingiustizie divine. L‘ultimo gruppo è quello degli ―dèi buoni‖, che figurano in Il mistero; Il diluvio; Le Muse. L‘aggiunta successiva dei dialoghi Gli uomini e Gli dèi marca la scelta di narrare l‘emancipazione graduale degli uomini dalla paura del caos e del divino, probabilmente proiezioni irrazionali di un‘interiorità in cui questi due elementi erano già in contrasto tra loro. Come sottolinea Lia Secci, è con la parola e con l‘azione che l‘uomo si emancipa da una realtà contorta ed ostile8. In questo quadro, i dialoghi direttamente rapportabili al modello lucianeo (La nube, Il fiore, La belva, L’isola) marcano i momenti più drammatici della presa di coscienza dell‘ordine cosmico da parte degli uomini e si soffermano in particolare sulla difficile interazione tra mortali e immortali, con un evidente passaggio da una prima fase, in cui l‘uomo risulta passivo di fronte alla potenza olimpica, a un momento di svolta, incarnato da Odisseo, l‘uomo che conosce il proprio destino e gli va incontro con la mano e con la parola. Io credo che fosse fondamentale, per la concezione dell‘opera, poter ricondurre a un modello greco queste vicende-chiave del percorso dell‘autonomia umana. In Luciano il divino è reso simile all‘umano, ma le caratteristiche proprie del mondo olimpico (immortalità, onnipotenza ecc.), per quanto deformate o taciute, gettano la loro ombra sulle vicende narrate, per cui l‘apparente ―abbassamento‖ degli dèi consiste in fondo in una critica impietosa delle bassezze umane. Gli incontri tra uomini e dèi non sono nulla di cui stupirsi, sono una realtà vissuta; compito del bravo autore satirico è evidenziare gli elementi irrazionali che si annidano nella tradizionale rappresentazione letteraria del divino. La ripresa, da parte di Pavese, della forma e di alcuni episodi che nella tradizione mostravano un segno negativo per i mortali si spiega come il tentativo di riscattare l‘uomo dalla paralisi del destino e di restituire una possibilità di iniziativa nel presente a chi si trova intrappolato nei propri miti personali e non ne coglie il carattere ineluttabile. Trattare i classici come contemporanei, e i contemporanei alla stregua dei Greci, dei loro miti arcaici filtrati dalla forma ironica del dialogo lucianeo, per Cesare Pavese equivale a penetrare fino all‘essenza della natura umana, senza ricorrere a personaggi a tutto tondo ma creando piuttosto ‗favole intellettuali‘, suggerite da un modello il cui spirito viene in ogni caso tradito. La dimensione dialogica si configura, nel caso di Leucò, come un tentativo di comunicabilità universale, che si serve proprio della cultura greca per scardinare il presente dai solidi gangli di una tradizione ricoperta di un‘impropria ―bellurie neoclassica‖9. L‘incontro con la divinità è allora per l‘uomo un‘uscita da sé, dalla sua contingenza, una presa di coscienza dei suoi limiti e delle sue possibilità: Pavese vuole sottolineare la drammaticità dell‘esperienza del sacro nel mondo antico per muovere quindi un attacco alle illusioni ―neoclassiche‖ del presente. Il risveglio di un nucleo mitico irriducibile, impastato di terrore e pietà, è il senso ultimo della ricerca pavesiana, e ne è al contempo l‘origine.

8 Secci 1970: 246. 9

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7 Pavese e il suo tempo: il grosso scandalo Leucò.

Il 1947 è l‘anno in cui vedono la luce ben due opere di Cesare Pavese: l‘insolito

Bildungsroman politico Il compagno10 e, a breve distanza, il ―libro eretico‖11 Dialoghi

con Leucò12. La fine della guerra sembra risvegliare in Pavese un desiderio quasi febbrile di mettersi al lavoro e darsi da fare su più fronti, dall‘editoria alla scrittura creativa, dalla mai interrotta attività di traduttore al nuovo impegno di intellettuale marxista che traccia le coordinate per un rinnovato rapporto tra letteratura e politica dalla terza pagina de «L‘Unità», secondo una prospettiva personale che solleverà molti dubbi sull‘effettiva organicità dello scrittore al sistema culturale del comunismo italiano. Lo stesso segretario del PCI, Palmiro Togliatti, finirà per prendere decisamente posizione contro un certo ―marxismo metafisico‖ elaborato dalla cerchia della rivista ―catto-comunista‖ «Cultura e realtà», tra i cui fondatori figura appunto Pavese13

. Per quanto lo scrittore piemontese si sforzi, in questi anni, di sostenere il ruolo del militante disciplinato, come può dimostrare la redazione dei Dialoghi col compagno, pubblicati a puntate su «Rinascita», egli non intende tuttavia reprimere il vivo interesse personale per argomenti e tendenze critiche che in quel momento storico vengono bollate come ―irrazionalistiche‖ o peggio ―decadenti‖, il che equivale a borghesi e fasciste. All‘intellettuale ―militante‖ corrisponderebbe allora un ―Pavese segreto‖, fortemente attratto dagli studi etnologici di matrice tedesca (Frobenius, Hauer, Kerényi, cui va aggiunto il ―decadente‖ Frazer) e da una concezione del ―mito‖ di ascendenza nietzscheana, ovvero dai temi e dagli autori che tanta parte avevano avuto nella costruzione degli idoli dei regimi totalitari nazi-fascisti nell‘Europa prebellica. In questo quadro si può comprendere quanta diffidenza dovesse suscitare la pubblicazione di un‘opera come i Dialoghi con Leucò, passibile di accuse di irrazionalismo per l‘ambientazione mitologica e per la dichiarata presenza delle teorie etnologiche nella tessitura di alcuni di essi. Pavese stesso si dimostra ben consapevole e quasi fiero di questo ambiguo statuto dell‘opera, che definisce variamente nelle lettere ai suoi corrispondenti come ―stregonerie‖ (a Aldo Camerino), ―grosso scandalo‖ (a Franco Fortini), ―libro eretico e caro al mio cuore‖ (a Paolo Milano), ―un libro destinato a non piacere a nessuno‖ (a Sibilla Aleramo), ―un maledetto libro su cui nessuno osa pronunciarsi: tutti «stanno ancora leggendolo»‖ (a Bona Alterocca), ―libro insolito e bizzarro‖ (a Santorre Debenedetti), ―proprio come il secondo Faust‖ (a Antonio Giolitti), ―biglietto da visita presso i posteri‖ (a Billi Fantini), ―l‘unico [scil. mio libro] che vale qualcosa‖ (a Nino Frank). Lo scrittore considera dunque i ―dialoghetti‖ la sua opera più ardua e complessa, elaborata e significativa, tanto che li vorrà con sé nelle sue ultime ore, nella stanza dell‘Hotel Roma di Torino, al momento del suo definitivo congedo dal mondo, il 26 agosto 1950.

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Giugno 1947.

11 Così Pavese in una lettera a Paolo Milano datata 25 novembre 1947. 12 Ottobre 1947.

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L‘epilogo della parabola esistenziale pavesiana e ancor più la pubblicazione de Il

mestiere di vivere forniscono nuovi argomenti polemici a chi intende ravvisare

nell‘opera dello scrittore ―i caratteri meschini, solitari e quasi deliranti di un letterato di mestiere‖14 e dunque decretare genericamente il fallimento di un‘impalcatura teorica e poetica fondata sulle travi marcescenti dell‘estetismo mitteleuropeo. A distanza di più di sessant‘anni dal suicidio di Cesare Pavese tali critiche appaiono in tutta la loro parzialità, eppure si rivelano utili per delineare il clima culturale di allora, fortemente condizionato da istanze etiche e ideologiche cui lo stesso Pavese non rimase indifferente, ma di cui fu in parte vittima, come dimostra tra l‘altro il tormentato rapporto professionale ed umano con l‘etnologo Ernesto de Martino. La vicenda editoriale della così detta ―collana viola‖, ovvero la ―Collezione di studi religiosi,

etnologici e psicologici‖ della Einaudi, promossa da Pavese ma attivamente sostenuta

da de Martino, che sulla carta risultava semplice consulente esterno, mentre nei fatti fu protagonista nell‘orientare la scelta dei volumi da pubblicare15, rappresenta un caso emblematico del graduale isolamento culturale in cui Pavese si trova ad operare a partire dal ‘46. Bisogna ricordare che il progetto iniziale della collana è da attribuire proprio a de Martino, che lo propone a Giulio Einaudi per lettera il 15 gennaio 1942: l‘idea è di avviare una serie di pubblicazioni di metapsichica, etnologia e antropologia, discipline ancora poco note in Italia. La risposta dell‘editore è affermativa e da subito la mediazione dell‘affare viene affidata al direttore editoriale, Cesare Pavese, il quale dimostra viva attenzione per la materia in discussione e si informa presso lo studioso napoletano sul valore scientifico di autori evidentemente già noti a entrambi, come il Frobenius. Pavese, del resto, si era accostato a simili studi già da molti anni, se pensiamo che la sua prima lettura del Ramo d’oro del Frazer risale al 1933 e che, proprio nel 1946, un rinnovato fervore per le civiltà arcaiche lo spinge a irrobustire in questa direzione la sua speculazione sul mito, una cui tappa fondamentale, anche per la creazione di immagini simboliche, è nello stesso anno la pubblicazione della raccolta di saggi e racconti Feria d’agosto. Nel suo diario Pavese annota il 21 luglio 1946:

(rileggendo Frazer)

Nel 1933 che cosa trovavi in questo libro? Che l‘uva, il grano, la mietitura, il covone erano stati drammi, e parlarne in parole era sfiorare sensi profondi in cui il sangue, gli animali, il passato eterno, l‘inconscio si agitavano. La bestiola che fuggiva nel grano era lo spirito - fondevi l‘ancestrale e l‘infantile, i tuoi ricordi di misteri e tremori campagnoli prendevano un senso unico e senza fondo.16

Proprio dall‘incontro di queste due componenti (―poetica del mito e del simbolo‖ e etnologia) inizia un più vivo interesse per il mondo antico, in particolar modo greco, per le ragioni che vedremo. Una non superficiale conoscenza degli studi antropologici viene dunque posta in relazione con la ricerca letteraria di una forma di comunicazione

14 Sono le parole di Alberto Moravia, tratte dal suo celebre saggio Pavese decadente, in «Corriere della

sera», 22 dicembre 1954. Curioso che proprio Moravia fosse stato accostato a Pavese in un articolo di Lucio Lombardo Radice dall‘eloquente titolo Decadenza in prima persona su «Rinascita» VII (1950), per il comune atteggiamento ―acritico‖ nei confronti della cultura borghese.

15 Ricordiamo che il volume di apertura della collana fu proprio Il mondo magico di de Martino. 16

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assoluta; inevitabilmente, un approccio così originale orienta in una direzione precisa la fruizione dei testi, che devono essere lasciati liberi di esprimere questo nocciolo di eternità, di natura umana immutabile. Ancora nel giugno 1950, Pavese dichiarerà l‘inestricabile legame tra letture etnologiche ed elaborazione poetica in un‘intervista alla radio:

[...] un mondo - quello eroico dei primi popoli - che ha sempre interessato Pavese e da anni gli ha fatto smettere ogni lettura amena per dedicarsi alle relazioni e ai documenti etnologici - testi in cui egli ritrova quel senso di una realtà simbolica e insieme fondata su saldissime istituzioni che, a suo parere, è la fonte prima di ogni poesia degna di questo nome.17

Questa concezione ―estetizzante‖ provocherà ripercussioni significative sul rapporto con de Martino. La guerra nell‘Italia occupata impone per il momento un‘interruzione dei contatti tra i due; essi riprenderanno, con rinnovato slancio, nel maggio del 1945. Il carteggio tra i due intellettuali, pazientemente ricostruito da Pietro Angelini, permette di comprendere il grado di totale collaborazione tra le parti nella scelta dei titoli da pubblicare. Per quanto il contrasto più significativo tra Pavese e de Martino si consumi nel 1949, con strascichi polemici spiacevoli che proseguiranno ben oltre il suicidio dello scrittore, non si può dire che tra i due si stabilisca mai una particolare affinità, se Pavese è portato ad annotare nel suo diario in data 1 marzo 1946:

Fessi gli etnologi che credono basti accostare le masse alle varie culture del passato ˗ e del presente ˗ per avvezzarle a capire e tollerare e uscire dal razzismo, dal nazionalismo, dall‘intolleranza. Le passioni collettive sono mosse da esigenze d‘interessi che si travestono di miti razziali e nazionali. E gli interessi non si cancellano.18

Credo che l‘annotazione si possa ricollegare a un precedente specifico: nel gennaio dello stesso anno lo scambio epistolare attestava uno scontro connesso a certe false voci diffuse da de Martino in merito a un prossimo fallimento della Einaudi19; è possibile che Pavese avesse voluto chiarire di persona la vicenda, dal momento che entrambi risiedevano a Roma in quel periodo, e in quell‘occasione avesse avuto modo di confrontarsi con de Martino anche sul taglio da dare alla collana. È noto che l‘etnologo napoletano, già da tempo iscritto al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria e in fase di avvicinamento all‘ideologia comunista, avesse in mente di accompagnare ogni volume con una ricca introduzione che fungesse da guida per il lettore e da vaccino contro possibili tentazioni irrazionalistiche; di avviso ben diverso era Pavese, più scettico o forse sorprendentemente più lucido del suo interlocutore su questo punto, come dimostra la nota. Il disaccordo di fondo maturato nel corso di numerose discussioni sulla questione dell‘irrazionale nel mito è probabilmente alla base

17 Pavese 1991: 267. Lo scrittore piemontese ha dichiarato la propria predilezione per i Dialoghi con

Leucò ed ha indicato in Erodoto, Platone, Shakespeare e Vico alcuni modelli letterari imprescindibili per

la formulazione della sua poetica.

18 Pavese 1990: 311.

19 In effetti, nel corso dei primi anni di attività dopo la guerra, il bilancio della casa editrice fu spesso di

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dell‘eloquente silenzio di de Martino di fronte all‘uscita dei Dialoghi con Leucò, che pure Pavese gli spedisce in copia nell‘ottobre 1947:

A de Martino, Bari

Torino, 27 ottobre 1947

Caro De Martino,

mi permetto di mandarti un mio libro che forse t‘interesserà, dati i gusti e il mondo che vi si riflettono.

Ti comunico intanto che Einaudi promette che il Mondo magico uscirà entro novembre. All‘ultimo momento ha voluto scombinare il corpo delle citazioni e ciò ha ancora ritardato la frittata. La storia è quasi vergognosa, ma finalmente siamo in porto.

E senti un po‘: Cassirer e Hubert e Mauss? Diccene qualcosa.

Un‘altra novità: Einaudi chiamerà la collezione Collana di studi religiosi,

etnologici e psicologici, per poterci includere gente come Jung, magari Freud, e

studi di religione non propriamente etnologici.

Mentre attendo che Brelich e Tentori facciano il loro dovere, mi guardo intorno e cerco di scoprire altri valentuomini. Forse ci fermeremo sul Cannibalismo di Volhard. Tu non hai suggerimenti?

Saluti cordiali20

Proprio per i gusti e il mondo che vi si riflettono de Martino non può in nessun modo apprezzare l‘opera, pericoloso esempio di un irrazionalismo che non solo viene offerto al lettore senza alcun tipo di mediazione intellettuale, ma che assurge addirittura a criterio ispiratore di un esperimento letterario di sicuro successo e, dunque, destinato ad un pubblico relativamente ampio. Il silenzio è forse testimone di un‘istintiva diffidenza rispetto a questo approccio culturale, che troverà una sua graduale definizione in una serie di contributi successivi, destinati a segnare profondamente le sorti della collana e la stessa ricezione dell‘opera di Pavese in ambiente comunista: la lettura di Gramsci da parte dello studioso napoletano sancisce il suo definitivo ―ritorno a Croce‖ che caratterizzerà la speculazione posteriore al Mondo magico. La prima tappa di questo processo è individuabile nel saggio Intorno a una storia del mondo popolare

subalterno, apparso su «Società» 3 (1949). In questa occasione de Martino sposta

significativamente il proprio campo di indagine da un mondo ―magico‖ alla realtà dei popoli vissuti come fuori dalla storia (―cioè dei popoli coloniali e semicoloniali, e del proletariato operaio e contadino delle nazioni egemoniche‖21) e da sempre trattati come

cose dalla civiltà borghese dominante. La sua preoccupazione è dunque di vagliare

criticamente i condizionamenti ―di classe‖ che avevano viziato la ricerca etnologica precedente e d‘altro canto individuare un modello positivo di scienza antropologica capace di trarre dal ―dolore della deiezione‖22 dalla storia le plebi sino ad allora inerti, ma presto destinate ad irrompere sulla scena mondiale come attori di primo piano. Una attenta disamina delle diverse ―scuole‖ dell‘etnologia europea porta in particolare de

20 Angelini 1991: 97. 21 De Martino 1949: 411. 22

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Martino ad avvertire il chiaro pericolo di un approccio astorico alla materia; così, al contrario, ―la storicizzazione delle forme culturali del mondo popolare subalterno, assegnando all‘arcaico il suo esatto luogo storico, costituisce un mezzo importante per combattere il pericolo che l‘arcaico si tramuti, sotto la spinta di determinati interessi pratici, in una ideologia reazionaria attualmente operosa‖23. Gran parte degli studi europei si erano infatti rivelati, più o meno deliberatamente, funzionali all‘espansione imperialista delle nazioni, spinte dalla più tipica tendenza occidentale alla ―razionalizzazione come conquista‖. All‘interno di una simile polemica, una nota dovrebbe chiarire la posizione della Collana viola rispetto ai volumi in essa pubblicati:

La collezione Einaudi di «studi etnologici, psicologici e religiosi» che potrebbe sembrare a chi la giudicasse superficialmente mancante di intrinseca unità - rispecchia appunto la crisi del vecchio umanesimo circoscritto della cultura tradizionale e il tentativo di questo umanesimo in crisi di superare la sua limitazione e di conquistare nuove provincie umane. Si tratta pertanto di lavori relativi al «lato oscuro» del genere umano (in modo particolare il mondo della magia e della religione), e relativi altresì al «lato oscuro» della nostra stessa anima di «occidentali» e di «moderni». Con minore consapevolezza dello scopo sembra voler provvedere alla formazione di un nuovo umanesimo la collezione La

montagne Sainte-Geneviève della casa Gallimard. Comunque queste imprese

editoriali riflettono un interesse pubblico che non si spiegherebbe senza tener conto del particolare momento storico della «società borghese» e della sua cultura.24

La constatazione dell‘inevitabile ―irruzione nella storia‖ da parte delle masse popolari chiede un prezzo anche al marxismo, cioè la contaminazione della pura teoria con istanze connesse al prelogismo ―primitivo‖ proprio di queste plebi. L‘ispirato elogio dell‘etnologia sovietica, cui andrebbe appunto il merito di aver stabilito un rapporto dialettico con il mondo subalterno, cui ―spetta il futuro‖25

, chiude l‘intervento: l‘ingresso nella storia dell‘umanità sinora emarginata è sancito dalla pittoresca figura del cantore analfabeta Suleiman, che improvvisa versi popolari ad un convegno sul folklore in URSS. L‘articolo suscita un dibattito piuttosto acceso; in particolare, la precisazione di Franco Fortini su «Paese sera» porterà Pavese a prendere a sua volta posizione sull‘argomento. Fortini manifesta sincera perplessità rispetto ad almeno due punti dell‘argomentazione demartiniana: non lo convince l‘indebito accostamento del proletariato urbano europeo ai lavoratori coloniali orientali o africani; inoltre la tentazione irrazionalistica pare annidarsi nell‘approccio all‘intera questione. Fortini spiega il ―dubbio grave‖ nel suo articolo Il diavolo sa travestirsi da primitivo:

[...] questo implicito appello al popolare e al primitivo, come latori di una cultura che dev‘essere non già razionalisticamente irrisa bensì oggetto di pietà storica; questo esaltare il cantore analfabeta al congresso degli scrittori sovietici e il «folklore vivente» sovietico; tutto questo e altro ancora e l‘accenno all‘«imbarbarimento» che dovrebbe accompagnarsi ad ogni rivoluzione proletaria,

23

De Martino 1949 : 422.

24 De Martino 1949: 423-424.

25 De Martino 1949: 427; è pur vero che, sulla carta, la costituzione sovietica pareva un capolavoro di

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tutto questo dico, ci mette in fierissimo sospetto. Il sospetto che le forze irrazionali e i miti dell‘irrazionale non siano ancora esorcizzati e possano essere volti in senso inconsciamente reazionario. In un mondo come il nostro, poi! Queste concessioni sono troppo pericolose. Dirò di più: indicative di una deviazione già diffusa, che speriamo sia presto studiata e definita.26

Pavese non tarderà a esprimere il proprio punto di vista sulla questione27, prendendo le difese della collana e delle posizioni di de Martino, secondo una linea che anni dopo sarà aspramente ricusata dallo studioso napoletano, ormai determinato a combattere la propria battaglia culturale dall‘interno del PCI. Lo scrittore piemontese, forse con una certa ingenuità, rimprovera a Fortini di sottovalutare l‘altro aspetto della mentalità mitica, ―il carattere più importante: l‘assoluto valore conoscitivo ch‘essi [miti] rappresentarono28, la loro originalità storica, la loro perenne vitalità nella sfera dello spirito‖. Di certo de Martino coglie da subito l‘inadeguatezza di un simile discorso come ―risposta‖ a chi esigeva evidentemente più razionalità e maggiore distacco di fronte all‘argomento scottante del mito. Le divergenze a questo proposito emergeranno chiaramente nel corso di un aspro confronto epistolare di cui vale la pena riportare i documenti più significativi. Già nel ‘48 era emersa una contesa sulle prefazioni, con un de Martino fermo nel pretendere una maggiore attenzione ai dati di contesto delle singole opere, onde avvertire il lettore del pericolo, sempre in agguato, che si sarebbe celato nell‘ambigua materia ―primitivistica‖, come testimonia la missiva del 9 ottobre 1948:

[...] bisognava far precedere ogni opera da una introduzione che la ambientasse nel clima culturale italiano e guidasse il lettore sprovveduto a leggere criticamente l‘opera presentata. Altrimenti, a mio avviso, si corre un rischio: di favorire mode e infatuamenti pericolosi, e di provvedere non già all‘allargamento dell‘orizzonte umanistico ma al costituirsi di nuovi dilettantismi. La cosa era tanto più necessaria per la nostra collezione in quanto si toccavano qui argomenti senza tradizione specifica nella nostra cultura nazionale: stava a noi stabilire il riattacco con la tradizione, soprattutto attraverso le introduzioni. [...] Due parole sul sistema di lavoro collegiale da voi adoperato. Lavoro collegiale (permettimi questo sermoncino) non significa confusione e torre di Babele. Sono di accordo che nella scelta dei volumi si sia in più persone a proporre, e va da sé che Giulio ha una certa libertà di iniziativa e di scelta. Ritengo però che le introduzioni ai vari volumi debbano avere un carattere unitario, e che tutte le introduzioni siano fatte da una stessa persona, alla quale la Casa affida appunto questo compito. Se lavoro collegiale significa che alcune opere escono con l‘introduzione (come il Lévy-Bruhl) e altre no (come Kerényi), che alcune opere siano introdotte da Tizio e altre da Caio che non ha nulla in comune con Tizio, allora vi dirò francamente che ho delle forti riserve su questo strano tipo di lavoro collegiale.29

26 L‘articolo di Fortini apparve su «Paese sera» del 23 febbraio 1950.

27 Pavese 1991: 323-324. Articolo comparso per la prima volta in «Cultura e realtà» I, maggio-giugno

1950.

28 Faccio presente che de Martino legge ―rappresentano‖, mentre la ristampa corrente dei saggi letterari di

Pavese riporta a questo punto ―rappresentarono‖: la differenza di significato non è certo trascurabile.

29

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Pavese per ora incassa, ma non manca di evidenziare la contraddittorietà della stessa posizione di de Martino, responsabile diretto delle scelte editoriali e lui stesso ancora incerto al bivio tra idealismo crociano e istanze marxiste, nella replica datata 13 ottobre 1948:

[...] Sull‘orientamento della collezione sono sostanzialmente d‘accordo. Bada però che se i libri, usciti sinora e tutti concordati con te, mancano di presentazione unitaria, ciò vuol dire che è pressoché impossibile ottenerla - almeno nel senso da te indicato. Tieni presente che le due esigenze - ambientare i testi nel milieu idealistico italiano e accordarli con le velleità marxistiche dei nostri consulenti ideologici - sono di per sé quasi contraddittorie. Sovente, disperato, io concludo che è meglio darli nudi e crudi e lasciare che i litigi avvengano sulle riviste.30

Il punto di rottura è ancora lontano, ma i prodromi sono qui già ben evidenti. All‘incirca un anno più tardi, alla fine di ottobre del 1949, la questione delle prefazioni ritorna in tutta la sua urgenza, dopo lo scandalo provocato dall‘introduzione al Cannibalismo di Volhard (un vero elogio del sangue) curata dall‘ex fascista ed ex razzista Giulio Cogni e approvata da entrambi i responsabili della Collana, che evidentemente avevano sottovalutato le conseguenze dell‘impresa; essa aveva scatenato un putiferio tra i giornali della sinistra. Ciò nonostante, Pavese accoglie con una certa ironia l‘ansia di de Martino di ―vaccinare‖ i lettori dal temibile irrazionalismo con ―dieci pagine di mani avanti e di proteste antifasciste‖; anche questa volta la reazione dell‘etnologo napoletano è dura e franca.

A de Martino, Roma

Torino, 31 ottobre 1949

Caro de Martino,

Bandinelli ha accettato il tuo piccolo innesto. Ma insiste per una nota biobibliografica su Frobenius: dice che in Italia nessuno sa chi è e bisogna dirlo. Non so dargli torto: è più utile una precisa notizia filologica che non dieci pagine di «mani avanti» e di proteste antifasciste.

Attendo sempre notizie sul Cassirer. Come ti ho scritto la Vedova non vuol mollare il volume isolato e noi l‘abbiamo mandata con Dio.

Cordialmente.31 A Pavese, Torino

[Roma,] 11 novembre 1949

Caro Pavese,

ho ricevuto la tua del 31 ottobre, ma con l‘abituale franchezza che caratterizza i nostri rapporti debbo dirti che non mi ha fatto buona impressione. Sono certo di accordo per la nota bibliografica su Frobenius (che del resto non posso inviarvi se non ai primi di dicembre): ma che cosa significa «è più utile una precisa nota filologica che non dieci pagine di mani avanti e di proteste antifasciste»? Mi sembra di ravvisare in queste parole una condanna o almeno una certa ironia per ciò che costituisce una mia ferma convinzione: essere cioè soprattutto necessario

30 Angelini 1991: 111. 31

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non tanto o non soltanto una presentazione pilatesca dei volumi della collana viola, o una semplice delucidazione filologica, ma piuttosto una introduzione impegnativa che vaccini dai pericoli e inquadri l‘opera nel nostro ambiente culturale. Se non siamo d‘accordo su questo punto, la mia collaborazione è inutile. Non fai cenno né alla mia introduzione su Malinowski, né alle mie proposte relative alla sistemazione economica delle mie prestazioni (proposte consegnate a Einaudi). Ho motivo di non essere soddisfatto del trattamento che mi fate. Che cosa si è deciso? Sono sempre in attesa che liquidiate il vostro debito. Non ti nascondo che comincio ad essere impaziente.

Cordialmente

Ernesto de Martino32

Pavese appare del tutto disinteressato alla questione che è invece fondamentale per de Martino, ovvero la ―sterilizzazione‖ dell‘aspetto politico delle opere etnologiche: l‘avversione per le presentazioni ―pilatesche‖ suggerite da Pavese è motivata dalla consapevolezza della instabilità della situazione politica postbellica, nonché dalla convinzione che la società vada immunizzata a tutti i livelli dai germi, ancora insidiosi, del totalitarismo nazi-fascista. La posizione di de Martino in proposito si inasprisce al principio degli anni ‘50, in corrispondenza del suo avvicinamento al PCI e delle sue letture gramsciane. Pavese si uccide tra il 26 e il 27 agosto 1950 e de Martino si ritrova sostanzialmente solo a dover difendere un progetto editoriale della cui validità scientifica comincia a dubitare. In una lettera assai spiacevole inviata a Giulio Einaudi il 31 agosto 1950, dunque quattro giorni dopo il suicidio di Pavese, de Martino anticipa le argomentazioni che più chiaramente esprimerà, in un contesto parzialmente autocritico, nel contributo Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni, comparso su «Società» 9 (1953):

Caro Einaudi,

dopo la sciagura del povero Pavese vorrei sapere quale sarà per essere, nel tuo pensiero, il destino della collana. Pavese le aveva impresso un indirizzo che non era del tutto di mio gradimento, poiché ad ispirare tale indirizzo reagiva la sua troppo immediata simpatia per certe forme di irrazionalismo, scientificamente errate e politicamente sospette, che attraverso l‘idoleggiamento del mondo primitivo, del sacro, del mito, etc., avevano tenuto a battesimo alcuni aspetti dell‘involuzione culturale (e politica) della borghesia agonizzante. Pavese non era soltanto un narratore di favole, ma anche un inquieto cercatore di una visione del mondo, e a me è sembrato che ne stesse per scegliere una che equivaleva già a un commiato e a una morte. L‘articolo suo sul Mito e la polemica con me apparsi su ―Cultura e realtà‖ sono, credo, documenti assai gravi. La morte di Pavese non è un fatto privato, e non è certo un ―pettegolezzo‖ questo mio insistere sul caso Pavese come un fatto pubblico. Ed io penso che mancheremmo della necessaria pietà non solo verso lui morto, ma anche verso noi vivi, se applicassimo qui un tacere che equivarrebbe a un colpevole lasciar correre. La materia della collana è estremamente pericolosa, perché in essa si riflette, con particolare evidenza, la crisi della cultura borghese, le sue contraddizioni e le sue ultime alcinesche seduzioni. Ti sarò dunque grato se vorrai informarmi circa le tue intenzioni per la migliore

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sistemazione di una impresa editoriale che vuole vigilanza di controlli e unità di indirizzi, e che allo stato attuale, per la sciagura che ci ha colpiti, è rimasta praticamente acefala.

Cordialmente.33

Einaudi non gradisce affatto il tono di questa missiva, giunta oltretutto in un momento così doloroso, perché sa che il ruolo di de Martino nella gestione della collana era stato tutt‘altro che marginale e che dunque tutte le ―colpe‖ non potevano essere attribuite a Pavese34. Lo stesso de Martino, in un contesto scientifico, ammetterà se non altro la propria ingenuità di fronte all‘indirizzo irrazionalistico impresso da Pavese alla collezione. Il saggio Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni definisce uno statuto metodologico per la disciplina praticata da de Martino e rappresenta un‘occasione per tornare criticamente su aspetti controversi o non più accettabili della sua attività degli anni precedenti: in questo quadro si inserisce una minuziosa disamina della concezione mitica di Pavese, da cui lo studioso napoletano prende ora decisamente le distanze. L‘urgente missione è quella di incasellare una volta per tutte il Pavese letterato, ma soprattutto ―organizzatore della cultura‖35, nel quadro della ―famiglia equivoca‖36 dell‘irrazionalismo tedesco, in compagnia dei letterati-travestiti-da-scienziati, Frobenius, Kerényi, Eliade, Lévy-Bruhl. De Martino constata che ―il Pavese ha messo in circolazione in Italia una teoria del mito e del «selvaggio» che non vale solo per il critico come sussidio per meglio comprendere l‘opera letteraria dell‘autore, ma che pretende proprio di essere una teoria del mito e del «selvaggio»‖37. Ai Dialoghi con

Leucò de Martino non fa mai riferimento, ma è chiaro che egli non potrà considerarli

molto diversamente da un pericolo, capace di accrescere ―la malsanìa di un determinato indirizzo del gusto, della sensibilità e del costume‖38. La scelta argomentativa di de Martino è di fondare le proprie critiche a Pavese unicamente su note diaristiche o al più su stralci di saggi letterari, mai su componimenti poetici o parti di romanzi; si coglie tuttavia la volontà di avvicinare la produzione di Pavese nel suo complesso alla famiglia

equivoca in virtù di ―una sensibile parentela di esperienze‖39. Feria d’agosto o Leucò vengono tenuti fuori dal discorso in quanto l‘interesse dell‘etnologo è di dimostrare la comunanza di sentire tra gli irrazionalisti e il Pavese sia ―privato‖ che ―scientifico‖, prescindendo dalla più ambigua sfera dell‘elaborazione artistica. Il presupposto è infatti che questa ―letteratura etnologica‖ che si traveste di scientificità provochi pericolose immedesimazioni tra l‘osservatore e l‘oggetto di osservazione, nel caso specifico il mito, il selvaggio, il primitivo. L‘obiettivo polemico è il concetto di Ergriffenheit, che poteva esercitare il suo ―malefico fascino‖ soprattutto sulle ―anime inquiete‖40; tra queste c‘era ovviamente anche Pavese. Al di là dei giudizi di merito quanto meno impropri che de Martino si concede sulla persona e sull‘artista Pavese, l‘articolo centra

33 Angelini 1991: 181. 34

In particolare, l‘affaire Cogni coinvolgeva direttamente la responsabilità di de Martino almeno quanto quella di Pavese. 35 De Martino 1953: 333. 36 De Martino 1953: 334. 37 De Martino 1953: 333. 38 De Martino 1953: 334. 39 De Martino 1953: 335. 40 De Martino 1953: 333.

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perfettamente alcuni aspetti della elaborazione culturale pavesiana: innanzitutto il riconoscimento di un percorso ―legato per mille fili alle esperienze moderne‖41

; in secondo luogo, la compresenza in esso di un‘istanza ―mitica‖ e di un‘istanza ―storica‖, ossia di una rivelazione (il mito fuori dal tempo) e di un imperativo razionale e morale (dare poesia agli uomini). De Martino non riesce a cogliere la singolarità di una simile impostazione del problema e, nell‘ansia di censurare il ―Pavese segreto‖, finisce per minimizzare l‘apporto dell‘elemento razionale ed etico, che viene liquidato come aspirazione nevrotica ad un malinteso senso della storia. De Martino non comprende insomma lo sforzo compiuto da Pavese per armonizzare le due dimensioni della sua scrittura, ma si accontenta di dedurre una sostanziale ―inautenticità di tutta la sua avventura psichica, mentale e letteraria‖42. Un riferimento indiretto a Leucò potrebbe trovarsi a questo proposito nella dichiarazione di poco successiva: ―in queste condizioni il suo «mito» non poteva più essere qualche grande autentica cosmogonia arcaica, col suo rituale conforme, ma semplicemente «nostalgia dell‘infanzia», o dei «tremori campagnoli», tendendo infine a manifestarsi nella sua più cruda natura di «nevrosi del già accaduto»‖43. L‘esperimento è quindi liquidato come assurdo e artificioso: non si può riproporre oggi il mito arcaico come se nel frattempo non fossero passate decine di secoli! Viene negata la legittimità stessa di una simile operazione, senza andare troppo per il sottile. In particolare, viene contestata l‘idea di mito come più autentica natura umana. A sostegno di tali critiche, lo studioso napoletano rispolvera l‘antica querelle ingaggiata con Franco Fortini, il quale aveva espresso il dubbio che l‘attenzione per la materia etnologica enunciata da de Martino in Intorno a una storia del mondo popolare

subalterno celasse in realtà un‘inconfessabile affinità con quell‘irrazionalismo tanto

compromesso coi fascismi d‘Europa. La questione chiamava in causa anche Pavese, in quanto responsabile della Collezione di studi etnologici, psicologici e religiosi; la ―rassicurazione‖ dello scrittore piemontese a Fortini suonava però come una conferma dei sospetti avanzati dal critico fiorentino, come de Martino cerca ora di dimostrare. Pavese si espresse secondo le equivoche categorie di ―partecipazione mistica‖, ―assoluto valore conoscitivo‖ del mito, ―perenne vitalità nella sfera dello spirito‖; proprio ciò che ―impediva che il trasformare includesse il definitivo tramonto storico della disposizione ierogonica delle civiltà umane, la fondazione di un umanesimo storicistico integrale‖ e che ―aveva già rivelato, in dati casi, la sua funzione politica di conservazione, anzi di reazione‖44. Giunto è il tempo di abbandonare tutte queste mistificazioni, questi ―«corti circuiti» tra arcaico e moderno‖45 per affrontare finalmente in maniera leale la storia. Un significativo ripensamento coglierà de Martino dieci anni più tardi. Clara Gallini spiega con chiarezza nella sua Introduzione all‘opera postuma di de Martino, La fine del

mondo46, quale tipo di approccio culturale al mito il suo maestro intendesse contrastare con le sue critiche a Pavese e alla ―famiglia equivoca‖: in un contesto di generale 41 De Martino 1953: 335. 42 De Martino 1953: 335. 43 De Martino 1953: 336. 44 De Martino 1953: 340. 45 De Martino 1953: 342. 46 Gallini 1977: LIV sgg.

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ripensamento del rapporto mythos-logos, una certa cultura europea indulgeva ad una concezione ―partecipazionista‖ del primitivo, del selvaggio, del mitico, con tutti i rischi ideologici connessi ad un simile atteggiamento. La preoccupazione dello studioso napoletano riguardava dunque sia il metodo che il merito dei trattati etnologici europei dei primi decenni del ‗900 e, più specificamente, la seduttività derivante dal loro stare a metà tra l‘inchiesta scientifica e la prosa d‘arte. Il documento L’etnologo e il poeta, redatto dallo studioso nel 1962 e rimasto inedito sino al 1991, anno in cui venne pubblicato da Pietro Angelini in appendice al carteggio de Martino-Pavese, testimonia un approfondimento del problema mito-storia in Pavese, sulla scorta della lettura critica del Fernandez47. In particolare, de Martino diviene consapevole del punto di partenza della elaborazione pavesiana: lo scrittore infatti ―riprende il filo della storia a partire dal momento in cui la storia si è fatta rassegnazione e compromesso... Le categorie del rustico, del selvaggio, del mistico, le esperienze del sangue e del sesso, la interpretazione di Vico e di Erodoto attraverso queste categorie, valgono come espressione della «ricerca del punto di partenza ideale, a partire dal quale la vita potrebbe essere di nuovo fondata sull‘assoluto». Fernandez 138 sg.‖48

. La storia per Pavese si situa dunque di qua da ―tutte le lotte che l‘umanità ha abbandonato per accettare le condizioni umilianti della vita in società‖49 e si articola nelle dimensioni della memoria e dell‘esperienza. La ricerca della ―esperienza zero‖ costituisce secondo de Martino il fondamento della contraddizione insita nella teoria pavesiana del mito: il ricordo dell‘assoluto cerca di fornire un senso ―al mondo che rischia ogni momento di «finire» nella sua umana operabilità‖50. Peccato che questa esperienza zero, principio della storia, non esista, ―se non per chi opta per lo zero‖51

; una scelta che risulta comunque storicamente identificata ―nel vario condizionamento della famiglia umana‖52. Insomma, della storia non ci si libera; così la ―liturgia della vita in collina‖ diventa per Pavese una liturgia ―disperata‖, proprio perché in fuga da un senso della storia irrimediabilmente radicato nella cultura contemporanea. La conclusione della lucida analisi demartiniana riguarda allora la scelta della prospettiva da adottare, date simili condizioni storiche e culturali: Pavese decise di non prendere coscienza della ―memoria di moltissimi‖, ma anzi di assolutizzare ―la propria singolarissima infanzia in collina‖. Rifiutarsi di porre la propria vicenda umana dentro la storia equivale per de Martino a optare per il nulla; la stessa solitudine può essere compresa nella sua dimensione di fenomeno culturale storicamente individuato, e venire così esorcizzata; solo ―il cammino dell‘isolarsi è il cammino verso la bara‖53

. Questo desolato sguardo è l‘ultimo atto di una lunga vicenda di incomprensioni, analizzate finalmente alla luce della ―terrena ragione‖54 e soprattutto di una pietà forse non troppo tarda a venire.

47

D. Fernandez, Il romanzo italiano e la crisi della coscienza moderna, Lerici, Milano 1958.

48 Angelini 1991: 193. 49 Angelini 1991: 193. 50 Angelini 1991: 194. 51 Angelini 1991: 194. 52 Angelini 1991: 194. 53 Angelini 1991: 194. 54 Angelini 1991: 192.

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18 Ritorno alle origini? Pavese e il mondo classico.

Tra le poche recensioni positive ai Dialoghi con Leucò spicca quella del filologo trentino Mario Untersteiner apparsa su L’educazione politica 6 (1947). Pavese gli aveva inviato una copia dell‘opera per omaggiare l‘autore de La fisiologia del mito, il trattato pubblicato a Milano nel 1946 che ricostruiva l‘evoluzione del pensiero greco dal mythos al logos. La prima lettera inviata da Pavese a Untersteiner testimonia esplicitamente tale debito intellettuale.

A Mario Untersteiner, Milano

Torino, 20 novembre [1947]

Caro professore,

la notizia che mi ha letto con simpatia e con gusto, mi dà molta gioia. Il mio libro è nato da un interesse per il problema del mito e delle cose etnologiche che mi ha indotto e mi induce a molte strane letture - ma poche mi hanno dato la soddisfazione e lo stimolo della sua Fisiologia. Pensi che le sue pagine hanno anche avuto questo effetto, che ho ripreso grammatiche e dizionari (dopo una giovinezza tutta impegnata in problemi di narrativa nordamericana e anglosassone) di venti anni fa e vado, quando posso, rosicchiandomi Omero, col solo rimpianto di non poter procedere scioltamente come vorrei. È una lingua terribile - divina e terribile, come la terra secondo Endimione. Inutile dirle che ogni suo appunto e apprezzamento mi sarà carissimo. Anche se non stampato.

Con cordiale amicizia.

Cesare Pavese

Da questa lettera emergono due aspetti: in primis, il ruolo di rilievo occupato dallo studio di Untersteiner nella elaborazione dell‘universo mitologico di Pavese; in secondo luogo, il rinnovato interesse dello scrittore piemontese per il mondo classico, in particolare per l‘epica omerica, dopo che l‘intera sua formazione universitaria era stata dedicata alla letteratura americana, peraltro con grande scorno del suo maestro Augusto Monti. Tale interesse per Omero porterà al progetto di una nuova traduzione dell‘Iliade, come vedremo in seguito. La risposta di Untersteiner è appunto la citata recensione su

L’educazione politica, in cui il filologo mette in evidenza i pregi ma anche i limiti

dell‘operazione Leucò.

Che i Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese siano documento di una singolare comprensione dei grandi momenti, che costituiscono eterne fonti d‘angoscia per gli uomini, che questi momenti siano modernamente rivissuti nella sostanza dell‘esperienze egee preelleniche ed elleniche; che infine l‘onda drammatica della poesia li animi con un impeto di irruente persuasione, io non dùbito. Se avrò molti consenzienti non so, né mi preoccupo. Per me il libro presenta un suo valore singolare55.

Untersteiner molto insisteva nel suo studio sul percorso di razionalizzazione della vicenda mitica, partendo dai primordi di questa, cioè da quella ―fase egea preellenica‖ che tanto affascinò Pavese. Egli coglie tuttavia un aspetto significativo dell‘esperimento

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letterario Leucò: ―l‘onda drammatica della poesia‖, ovvero il carattere propriamente poetico della raccolta di dialoghi. Tale interpretazione viene sostenuta dall‘analisi del dialogo L’uomo-lupo in cui il filologo ravvisa una ―apparente prosa‖ che rivela ―quel brivido trasformatosi in limpido fluire lirico, che è drammatica imposizione della chiarezza di un‘idea‖56

. È questa la chiave di lettura che permette di ravvisare nell‘opera un tentativo di ―rivivere modernamente nella sostanza‖ momenti sempre drammatici dell‘esperienza umana. Non manca tuttavia in Untersteiner la consapevolezza di un equivoco in cui Pavese sarebbe incappato sulla scorta della lettura del Frazer; così, in una lettera parzialmente riprodotta da Calvino nella raccolta delle Lettere di Pavese, il professore precisava:

Quanto a daivmwn, può ben aver tratto le sue origini da un mostro totemistico. Ai tempi in cui scrissi l‘articolo, certe cose non mi erano ancora chiare. Inoltre, io credo che, quando si parla di religione pregreca - da cui in qualche modo dipende anche Omero - bisogna guardarsi dal porre l‘equazione pregreci primitivi = moderni primitivi. Questa equazione, più o meno implicita, è forse l‘errore di prospettiva del Frazer.

La critica riguarda evidentemente i dialoghi che focalizzano in maniera più esplicita i momenti aurorali dell‘umanità, sulla scorta delle ricostruzioni del Frazer; Pavese non replica nel merito ma si sofferma a ringraziare Untersteiner per l‘ottima recensione dei dialoghi, per poi lanciare un‘offerta lavorativa di responsabilità, ovvero una nuova traduzione di Omero.

A Mario Untersteiner, Milano

[Torino,] 12 gennaio [1948]

Caro professore,

ho la sua e il numero (l‘ultimo, ohimè!) dell‘«Educazione politica».

Rimuginavo la sua risposta relativa al demone-totem e naturalmente ci pativo perché lei ha tutte le ragioni, quando la recensione mi ha travolto. Le sono infinitamente grato. Lei ha letto i Dialoghi come appunto sognavo che si leggessero: dipanandone i motivi, interpretandoli. Per dire tutto in una, lei ha trattato questi Dialoghi appunto come si tratta un documento mitologico.

Potevo desiderare di più?

Certamente il senso di questo groviglio che sono anche per me i Dialoghi, sta nella ricerca dell‘autonomia umana. Non c‘era né tempo né occasione di soffermarsi sulla realtà costruita di ciascun dialogo, ma tuttavia con la trovata della stesura metrica anche su questo punto lei ha detto una grande verità. Badi però che, secondo me, questa contabilità delle battute è più un difetto che un pregio.

Adesso, una proposta. Da parte di Einaudi. È molto tempo che io sogno di vedere stampata una versione quasi letterale, a verso a verso, andando a capo quando il senso è finito, dell‘Iliade e dell‘Odissea. Come i drammi elisabettiani tradotti da Piccoli per Laterza. Come i versetti di Spoon River di cui le mando un saggio. Ho reso l‘idea? Che ne direbbe di pensarci anche lei e magari impegnarsi per farcela? O consigliarci, se le sue occupazioni non glielo consentono? Già l‘Eschilo mi pare sia andato accostandola a questo lavoro.

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Grazie ancora, suo

Pavese Aspetto Odissea, XI.

La soddisfazione per l‘articoletto viene espressa da Pavese anche ad altri suoi corrispondenti, come Tullio Pinelli, al quale scrive il 3 dicembre 1947 che i dialoghi ―non piacciono a nessuno, tranne a un valente professore di greco e studioso delle religioni, che mi ha sùbito regalato un suo estratto Il concetto di daivmwn in Omero con questa dedica: «a Cesare Pavese l’artista interprete della religione ellenica»‖. In particolare, l‘interpretazione proposta da Untersteiner si muove piuttosto sulla linea dei contenuti filosofici che non su quella filologica o antropologica. È appunto il tipo di approccio all‘ideologia religiosa greca, ―la ricerca dell‘autonomia umana‖, a costituire il punto d‘incontro tra i due intellettuali, oltre che la comune volontà di promuovere la cultura classica nel dibattito culturale contemporaneo. Uno scambio epistolare con Paolo Milano avvenuto nel gennaio del 1948 illustra chiaramente la maniera pavesiana di sentire il mito nella contemporaneità: Milano, nel riferire le proprie impressioni di lettura su Leucò, contesta a Pavese di essere vittima di un‘idea vichiana della storia, per cui ai miti del passato farebbe da controcanto l‘età logica e tecnica contemporanea, mentre i fascismi prima e la propaganda filoamericana e filosovietica poi, dimostravano quanto l‘epoca attuale fosse ―la più orrendamente mitomaniaca che sia mai stata‖, preda di ―«mistiche» tetre, che chiamiamo, per farci coraggio, la Storia‖. Pavese replica allora in questi termini:

[...] va bene che viviamo in mezzo a miti d‘ogni sorta, ma questi miti hanno appunto il difetto di non organizzarsi in modo coerente. Inoltre è questa della contemporaneità del mito, una ragione che giustifica Leucò e dà un riscontro vissuto alle sue fandonie: se veramente non sapessimo più che cos‘è mito, di che cosa saprebbe ancora Leucò?57

Questo puntiglio di accessibilità e di comunicabilità motiva la proposta di traduzione dei poemi omerici. Come sappiamo, questa nuova versione ―poco neoclassica‖ verrà affidata a Rosa Calzecchi Onesti, già allieva di Untersteiner al liceo Berchet, sul cui lavoro il maestro continuerà comunque a vigilare, oltre a svolgere un ruolo di consulente per la casa editrice Einaudi nel contesto della Collezione di studi religiosi,

etnologici e psicologici.

A Mario Untersteiner, Milano.

Torino, 7 maggio 1948

Caro professore,

mi pare che il saggio della Calzecchi sia notevole. [...]

Ha ricevuto il Jung-Kerényi? Le piace? Non ha suggerimenti per questa neonata collezione, o meglio ancora proposte sue?

Cordialmente.

Pavese

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Ricevo ora la sua cartolina. Grazie del consiglio. La Thessalische Mythologie della Philippson, insieme all‘altro studio minore sulla Genealogie, farebbero certo un bel libro. Ma il problema è fino a che punto piacerebbero a un pubblico non specialista. Ci penserò. A me quel libro ha fatto grande effetto, e un dialogo del mio Leucò: «Le cavalle» ne è tutto intriso. Saluti e ancora complimenti alla dott. Calzecchi.

La lettera è interessante per due motivi: in primo luogo per l‘attiva partecipazione di Untersteiner alla scelta dei titoli ―irrazionalisti‖ della ―collana viola‖; secondariamente, per l‘avvio del progetto culturale di diffusione dei classici tanto caro a Pavese. Sotto l‘impulso del filologo trentino, Pavese si decise a pubblicare i due saggi fondamentali di Paula Philippson, Thessalische Mythologie e Untersuchungen über den griechischen

Mythos, in un unico volume dal titolo Origini e forme del mito greco (Torino, 1949).

Untersteiner viene indicato da Clara Gallini come esponente di spicco della scuola ―partecipazionista‖ rispetto al mito, al primitivo, al selvaggio; la sua influenza su Pavese si sarebbe quindi concretizzata proprio nella tanto deprecata dimensione dell‘irrazionalismo, almeno secondo l‘allieva di de Martino. Colpisce tuttavia la ben diversa considerazione di cui godette la figura intellettuale di Untersteiner nel panorama degli studi classici: una raccolta di studi in suo onore è intitolata L’etica della ragione, evidente tributo ad un principio di condotta valido tanto nella vita quanto negli studi. Fernanda Decleva Caizzi cita proprio la recensione del filologo trentino ai Dialoghi per delinearne un profilo umano tutto impregnato di logos: ―la fuga dal pensiero annienta la nostra umanità e non ce ne accorgiamo‖58. L‘indirizzo di studio prediletto da Untersteiner troverebbe la sua motivazione più profonda nella costante attenzione da lui rivolta alla ricerca dell‘autonomia umana: ―la scelta del mondo greco quale ambito privilegiato di indagine fu determinata dalla persuasione, ben presto acquisita, che ai Greci vada riconosciuto il merito di aver compiuto il massimo tentativo di «giustificare a sé e da sé la propria esistenza nel mondo» e che tale tentativo possa essere colto nel modo migliore ricostruendo la storia dell‘emergenza del logos nel pensiero antico‖59

. Il problema venne colto da Untersteiner in termini non meramente razionalistici, ma con una costante attenzione al rapporto tra esistenza, esperienza e riflessione; in quest‘ottica, non poteva rimanere insondato lo statuto del mito, creato dall‘idealizzazione di esperienze concrete e portatore in sé della contraddizione, dell‘antitesi, degli ―insolubili dissidi del reale, divenire ed essere, contingente ed eterno, umano e divino‖60. Al problema specifico dell‘insorgenza e della graduale razionalizzazione del mythos, Untersteiner dedicò uno studio specifico, La fisiologia del mito, che interessò Pavese soprattutto per la sezione riguardante il trapasso dalla religione preellenica all‘‖umanesimo‖ esiodeo. Soffermiamoci brevemente sui caratteri di quest‘opera, per accostarli finalmente alle speculazioni messe a punto dallo scrittore piemontese durante la stesura del suo Leucò, per quanto concerne l‘individuazione di un ―ritmo‖ di fondo inerente alla ―ricerca dell‘autonomia umana‖. La prefazione alla prima edizione della

58 Decleva Caizzi 1989: 39. 59 Decleva Caizzi 1989: 40. 60

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