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Sublime Spirito, luce degli uomini, purifica le orride tenebre della nostra mente.

Notker il Balbo, Hymnus in die Pentecostes

15

La compagnia del mercante pernottò a Prouille e al mattino si congedò dal vescovo Folco per riprendere il viaggio. Ignazio era reduce da un dormiveglia pieno di ripensamenti. Dopo le ultime rivelazioni sentiva l’ombra del Gonzalez alle sue spalle. Non riusciva a comprendere le intenzioni di quel domenicano e nemmeno fino a che punto il Lusignano ne fosse al corrente.

Aveva valutato l’alternativa di fuggire per andare alla ricerca di Uberto, che immaginava disperso fra i sentieri della Linguadoca, forse in pericolo. Ma agire in quel modo avrebbe significato trasgredire gli ordini di Ferdinando III, con le dovute conseguenze. Il mercante era quindi costretto a lasciarsi trasportare dalla marea degli eventi, in attesa del momento propizio per agire. Soffermandosi su simili pensieri, egli però tralasciava di proposito altre considerazioni. Di fatto il mistero di Airagne lo incuriosiva al punto da impedirgli di rinunciare alla spedizione. Voleva scoprire cosa si nascondesse in quel luogo di fuoco e di metallo fuso, e da dove nascesse la follia dell’ossesso di Prouille.

Superarono le terre del Lauragais, lasciandosi alle spalle l’abitato di Fanjeaux, e dopo una sosta dinanzi alle mura di Carcassonne proseguirono verso sud, lungo il corso dell’Aude.

Oltrepassati Limoux ed Espéraza il paesaggio mutò, la vegetazione si fece più fitta e le vette dei monti Corbières spuntarono all’orizzonte.

Quando giunsero presso il castello di Quillan deviarono verso ovest in direzione di Puivert e seguirono un sentiero che si inoltrava in un bosco. Entro breve, stando alle indicazioni di Folco, avrebbero raggiunto il béguinage di Santa Lucina.

Durante il cammino Willalme sgusciò dalla sua cappa di silenzio per porre una domanda a Ignazio: «Cosa intendevi nelle segrete di Prouille, attribuendo il comportamento dell’ossesso a una sorta di febbre?».

L’espressione del mercante, che fino ad allora era stata assorta, mutò in un sorriso volpino.

«Quell’uomo non era posseduto da nessuno spirito maligno. Potrei scommetterci».

«Ritieni fosse stato colpito da una malattia?»

«Non da una malattia, ma da una sostanza velenosa. Le esalazioni di un metallo».

Il Lusignano avvicinò il suo cavallo al carro. «Teoria interessante, mastro Ignazio.

Spiegatevi meglio».

Il mercante gli rivolse uno sguardo ironico. Il sospetto e il disprezzo che nutriva per quell’uomo si stavano tramutando in autentica avversione. «Messer Filippo, pensavo condivideste l’opinione di Folco. Non vorrei compromettere le vostre convinzioni in merito».

«Non siate ingenuo. Semplicemente non ho ritenuto opportuno contraddire uno dei prelati più influenti del Sud della Francia. D’altro canto, confesso di sapere ben poco sulle possessioni demoniache. Il mio compito, finora, si è limitato a combattere i mori», si giustificò. «Ma Sébastien, quel miserabile, non recava traccia di malvagità nello sguardo. Tutto quel che ho notato in lui è stato lo squilibrio mentale e, come dire, una sorta di bizzarria fisica, uno scoordinamento nei movimenti».

«Infatti, ma vi sono altri elementi degni di nota». Ignazio prese a contare sulla punta delle dita. «L’odore dolciastro dell’alito. Il tremore diffuso per il corpo. La paralisi degli arti. Il colorito della pelle. Infine, una sorta di orlo bluastro sulle gengive». Pronunciò le ultime parole con una certa enfasi, in modo che la sua voce sovrastasse il ballonzolare del carro. «E poi le convulsioni, il sangue nell’urina, gli attacchi di vomito... Sono tutti sintomi di un disturbo molto

raro. Ne so molto poco, ma ho sentito dire che a volte colpisce chi pratica l’alchimia».

Willalme lo fissò con curiosità. «A cosa alludi?»

«Parlo di un male identificato già dagli antichi. Viene chiamato “saturnismo” o, meglio,

“male di Saturno”».

«Ancora non capisco», ammise il Lusignano. «Spiegatevi più in dettaglio».

«Il nome di Saturno designa il plumbum nigrum, volgarmente detto “piombo”. Le persone che lo manipolano o ne respirano le polveri, a volte, vengono colte dalla pazzia. Come Sébastien. Il piombo entra nel loro sangue e le fa sragionare». Ignazio sottolineò un concetto:

«Il plumbum nigrum viene impiegato nella prima fase dell’opera alchemica, Nigredo. Come vedete, ancora una volta gli indizi ci portano verso la solita direzione».

«Ma certo, il Conte di Nigredo... Il suo legame con l’alchimia...», disse il Lusignano. «Però mi sembra strano che quel mentecatto di Sébastien possa essere stato un alchimista. E se invece avesse semplicemente lavorato in una cava di galena, da cui si ricava il piombo?»

«Dimenticate la formula latina che ripeteva di continuo: “Miscete, coquite, abluite et coagulate”. Non biascicava a vanvera. Elencava le operazioni necessarie per la trasmutazione alchemica dei metalli, che probabilmente aveva svolto di persona».

«La faccenda si fa interessante», proferì Willalme.

«Interessante e misteriosa», soggiunse Ignazio. «Ecco perché gli agenti inviati da Folco per indagare sul béguinage di Santa Lucina non hanno trovato indizi. Cercano sospetti di eresia. Noi invece dovremo prestare attenzione a particolari molto più insoliti, facili a essere confusi per qualcos’altro, come ad esempio gli effetti collaterali cagionati dall’opera di un alchimista».

Filippo annuì compiaciuto. «Comprendo il motivo per cui re Ferdinando vi tiene tanto in considerazione. Siete davvero una mente illuminata».

L’allusione al monarca provocò in Ignazio una sorta di agitazione interiore. Non un turbamento emotivo ma un sovrapporsi di pensieri che fece brillare le sue iridi di una luce più intensa. E senza rivolgersi a nessuno in particolare, enunciò: «Solo ora intuisco la vera ragione per cui ci è stata affidata questa missione».

Thiago non si lasciò sfuggire quelle parole. «Cosa intendete?».

Ignazio fissò il navarro, che doveva essere molto più intelligente di quanto lasciasse trapelare. Prima di rispondergli si chiese se quell’uomo serbasse maggior fedeltà verso il Lusignano o verso il Gonzalez. O se magari servisse una terza persona. «Intendo che Ferdinando III, padre Gonzalez e il vescovo Folco non sono interessati a soccorrere Bianca di Castiglia, ma a qualcos’altro».

Thiago storse il naso con fare dubbioso, ma fu Filippo a rompere il silenzio: «Suvvia, mastro Ignazio, non c’è motivo di esprimersi tanto aspramente nei confronti del nostro monarca...».

D’un tratto un grido di battaglia risuonò dal folto della macchia. Un attimo dopo si udirono passi affrettati tra i cespugli, poi sbucarono dalla boscaglia un cavaliere e cinque fanti muniti di lance e balestre.

I viandanti non ebbero il tempo di coordinarsi per rispondere all’assalto e gli aggressori ne approfittarono. Il cavaliere nemico avanzò a spada tratta e vibrò un fendente in pieno volto a Thiago, dopodiché incrociò la lama con quella del Lusignano mentre gli altri armigeri accerchiavano il carro.

Willalme balzò dalla serpa e si gettò nella mischia, sguainò la scimitarra, evitò la stoccata di un fante e con un gesto fluido gli amputò un braccio. Mentre metteva in difficoltà un secondo avversario, non si accorse di un balestriere che lo stava prendendo di mira. La balestra scoccò un verrettone che lo trafisse alla spalla sinistra. Il mercante vide l’amico cadere a terra e perdere la spada, fece per soccorrerlo, ma un armigero gli fu addosso e tentò di strappargli le redini di

mano. Reagendo d’istinto, Ignazio strattonò le briglie. I cavalli, già spaventati, si impennarono con un nitrito e si lanciarono al galoppo.

Il carro schizzò senza controllo nella macchia e il mercante non poté fare altro che aggrapparsi alla serpa per evitare di essere sbalzato a terra. Tutto avvenne a una velocità vertiginosa. Si guardò alle spalle, verso i suoi compagni, e riuscì a distinguere la sagoma di Thiago riemergere dalla mischia, la spada e la faccia sporche di sangue.

Sprezzante del dolore, Willalme si rialzò sulle ginocchia per anticipare un nuovo assalto.

Raccolse la lancia del fante che aveva abbattuto, la bilanciò sul palmo e la scagliò contro un balestriere acquattato fra i cespugli. L’uomo gettò l’arma a terra e sollevò a difesa un brocchiere, ma la punta della lancia scivolò sopra lo scudo e gli perforò la gola. Il francese lo osservò accasciarsi sull’erba.

Filippo nel frattempo disarcionò il cavaliere nemico e caricò in soccorso di Thiago. Il navarro, ferito al volto, armeggiava alla cieca contro due fanti.

Willalme lanciò un’occhiata ai compagni.

«Pensate a mastro Ignazio!», gridò il Lusignano, mentre vibrava un fendente sulla testa di un soldato.

Il francese non replicò, balzò in sella al corsiero del cavaliere disarcionato e con un colpo di briglia sparì fra gli arbusti. La spalla, trafitta dalla punta del verrettone, gli doleva terribilmente.

Quando Ignazio riuscì a frenare i cavalli, il carro era ormai giunto presso un rivo nascosto tra gli alberi. Sulla sponda opposta, il bosco si interrompeva lasciando spazio a una radura e in mezzo allo spiazzo compariva un accampamento militare circondato da palizzate, fra le quali stazionavano soldati con uniformi di varia foggia.

Il mercante reputò che si trattasse di un esercito di mercenari. Nelle terre di Linguadoca era frequente imbattersi in reparti di soudadiers a pagamento. Ma quando identificò i loro stendardi si ricredette e, colto dall’inquietudine, arretrò con cautela dove la macchia si infittiva.

Un rumore di zoccoli al galoppo lo fece trasalire, poi si voltò di scatto e si accorse che l’uomo a cavallo aveva un volto amico. Il sollievo durò solo un attimo, poiché Willalme ebbe un calo di forze e scivolò dalla sella.

Ignazio si precipitò in suo aiuto mentre il francese, per non stramazzare al suolo, si era aggrappato a una borsa fissata all’arcione, facendola cadere a terra insieme a lui. Un attimo dopo il mercante era al suo fianco. «Sei ferito».

«Nulla di grave...», minimizzò il francese, pallido in volto. «Tu piuttosto... Sei salvo!».

«Parla a voce bassa, per carità», lo esortò il mercante, indicando l’accampamento oltre il rivo.

«Chi sono quei soudadiers?». Poi Willalme osservò le insegne ed ebbe un sussulto.

«Raffigurano un sole nero su campo giallo... Pensi che siano gli Archontes?»

«Sì». Il mercante esaminò la ferita del compagno. «Gli sgherri che ci hanno attaccato devono essere dei loro. Forse in esplorazione».

«O forse cercavano proprio noi...», insinuò il francese, portandosi la mano alla spalla. «Ma ora aiutami a togliere questo verrettone...».

Il mercante scosse il capo. «Se lo togliessi ora, lacererei la carne e ti farei perdere molto sangue. Dobbiamo trovare un luogo sicuro per medicarti a dovere. Fammi vedere come posso rimediare nel frattempo...». Strappò la casacca dell’amico per scoprire la ferita e tamponò il sangue con una pezza di stoffa, poi raffazzonò una fasciatura provvisoria. «Messer Filippo e Thiago?», chiese nel frattempo.

«Sono bravi guerrieri... Avranno già fatto piazza pulita».

«Raggiungiamoli». Ignazio diresse un’ultima occhiata verso l’accampamento e notò con

sorpresa che alcuni soldati sfoggiavano uniformi crociate o addirittura dell’esercito regio.

«Dobbiamo allontanarci da qui alla svelta».

«Aspetta...», obiettò Willalme. «Se quelli sono davvero gli Archontes, non sarebbe meglio seguirli?»

«Prima devo pensare a te, e poi non è detto che quei miliziani sappiano dove sia reclusa Bianca di Castiglia».

Il mercante aiutò il compagno a salire sul carro, ma prima che potesse sedersi accanto a lui uno strano luccichio attirò il suo sguardo e lo fece tornare dov’era caduta la borsa staccata dall’arcione. Parte del contenuto si era rovesciato a terra. Si chinò in mezzo all’erba e scoprì con meraviglia che conteneva monete d’oro. «Da dove proviene questo denaro?»

«Non ne ho idea», rispose il francese, altrettanto meravigliato. «Il cavallo apparteneva a uno dei soldati nemici... Forse l’oro proviene da una razzia».

Ignazio raccolse una moneta dall’erba e la osservò con crescente stupore, dopodiché la porse al compagno. Era stata marcata con l’effigie di un ragno dalle zampe ricurve.

Il francese sgranò gli occhi. «Cosa significa?».

Invece di rispondere, Ignazio gli mostrò l’iscrizione impressa sul rovescio della moneta:

AIRAGNE. «Capisci ora? Questi scudi devono essere stati coniati ad Airagne». Soppesò con attenzione la moneta. «Strano però... C’è qualcosa di anomalo...».

«A me sembra normalissimo oro». Willalme si avvicinò per guardare meglio, cercando di ignorare il dolore della ferita. «Ma dato che siamo soli, fammi una confidenza... Spiegami a cosa alludevi dicendo che lo scopo della missione non è soccorrere Bianca di Castiglia».

«Devo prima accertarmi di alcune cose». Il mercante si guardò intorno con circospezione, racimolò il gruzzolo e lo nascose nel bancale del carro. «E mi raccomando, non fare parola con nessuno di quanto abbiamo scoperto, né dell’accampamento degli Archontes né dell’oro di Airagne».

Fecero appena in tempo a raggiungere i due compagni per vedere Filippo infilzare l’ultimo soldato caduto a terra, che ancora accennava a muoversi.

Thiago rinfoderò la spada e corse verso il mercante. «State bene?».

Ignazio, prima di rispondere, scrutò il volto del navarro. Il fendente del cavaliere nemico l’aveva sfigurato, aprendogli un taglio trasversale sulla faccia. Per fortuna era stato colpito di striscio. Se la sarebbe cavata con uno sfregio, ma aveva rischiato di perdere il naso e un occhio, se non peggio.

«Io sto bene», disse il mercante. «Ma abbiamo due feriti da curare».

«Nulla a cui non possa rimediare un bravo cerusico», sdrammatizzò Filippo con un gesto

grossolano.

«E gli aggressori?», proseguì Ignazio. Contò sei cadaveri. «Li avete uccisi tutti? Avete idea di chi fossero?»

«Tutti morti», rispose Thiago. «Non portavano insegne... Al diavolo!». Con una smorfia di dolore, si portò la mano al volto. «Questo maledetto taglio non smette di sanguinare. La mia vista si annebbia... Cosa contate di fare?».

Il mercante indicò un punto poco distante, dove il sentiero scendeva verso una vallata.

«Secondo le indicazioni di Folco, in quella direzione sorge il béguinage di Santa Lucina. Se ci muoviamo lo raggiungeremo prima del vespro, ne sono certo. Là riceveremo le cure necessarie e troveremo rifugio per la notte».

«E nel frattempo cercheremo indizi sul Conte di Nigredo», soggiunse il Lusignano, pulendo la spada su un cadavere.

16

Moira era fuggita durante la notte. Ecco cosa si guadagnava a fidarsi delle donne, pensò Uberto, al risveglio, dopo essersi accorto della sua assenza. L’aveva salvata, le aveva dato da mangiare, da vestirsi, e per giunta si era quasi infatuato di lei... Era chiaro che gli mancava quella capacità di valutare le persone tanto spiccata in suo padre.

Indispettito e umiliato, era stato tentato di lasciarla andare per la sua strada, poi ci ripensò.

Non poteva permetterselo. Lei gli serviva, conosceva la strada per Airagne. Elaborò quindi un piano per rintracciarla e rimontò in sella. Se non altro, Moira era stata così gentile da non rubargli il cavallo...

Perlustrò per mezza giornata i sentieri circostanti finché non trovò alcune tracce fresche.

Erano dirette verso est e lo condussero a una grande foresta di querce. Il sentiero piegava a sud, aggirando la macchia, ma le tracce proseguivano dentro la foresta e Uberto non poté fare altro che seguirle.

Le chiome degli alberi erano così fitte da impedire il passaggio dei raggi solari. Il giovane scese da sella per evitare i rami bassi e proseguì a piedi conducendo Jaloque per le redini. Si sentiva avvolto da un’atmosfera dal sapore antico, quasi sacrale. La foresta somigliava a una sconfinata cattedrale, con i tronchi al posto delle colonne e le chiome come intricati soffitti.

Ma a occupare i suoi pensieri era soprattutto Moira. Si interrogò sul vero motivo che lo spingeva a rincorrerla e si accorse che il suo interesse per lei era più forte di quanto pensasse.

Ora non provava più risentimento, ma preoccupazione. Era impaziente di ritrovarla e sperava che non le fosse accaduto nulla di brutto. Ma d’un tratto si sentì uno sciocco e si impose di mantenersi lucido. Moira gli serviva anzitutto per l’adempimento della missione, il resto non contava.

E proseguì fra gli alberi.

Era difficile distinguere le tracce nell’oscurità del bosco. Le impronte diventavano incerte, oppure sparivano sotto uno strato di foglie secche, ciò nonostante Uberto era certo che quella fosse la direzione giusta.

Un rumore di passi lo fece trasalire, percepì un movimento alle spalle, ma prima che potesse voltarsi ricevette una bastonata alla testa. Cercò di reagire ma una seconda percossa, più violenta, lo colse alla bocca dello stomaco.

Si piegò in due per il dolore, e prima di svenire vide una sagoma cenciosa chinarsi su di lui.

Nel buio della foresta echeggiò una risata brutale.

Moira aveva superato indenne la spaventosa foresta di querce e stava attraversando un sentiero che l’avrebbe condotta a Tolosa, in compagnia dell’inseparabile cane nero. Spossata dal cammino e dalla calura, si avvicinò a un pozzo che sorgeva sul ciglio della strada. Si sedette sulla bocca di pietra grigia e calò un secchio sgangherato appeso al verricello. Trovarsi in uno spazio aperto le faceva apparire tutto più semplice, meno ostile, e senza neppure accorgersene ripensò al giovane che l’aveva aiutata, Uberto. Era dispiaciuta di essere fuggita da lui in quel modo, e più di una volta era stata sul punto di tornare indietro, verso quella voce e quel sorriso che l’avevano messa a suo agio. Forse, al suo fianco, avrebbe potuto tornare a essere la persona gentile che era stata un tempo. D’altro canto Uberto era diretto ad Airagne...

Il secchio risalì colmo d’acqua e Moira vi immerse le mani, si sciacquò il viso e bevve.

Avrebbe dovuto sentirsi corroborata, invece il rumore delle gocce e le increspature dell’acqua la turbarono. Si ingigantirono nella sua mente, fino a risvegliare il ricordo di una nave scossa dalla tempesta. Il fragore del mar Tirreno non dava pace, squassando a suo capriccio la chiglia mentre un gemito legnoso preannunciava lo scardinarsi dell’albero maestro. La prua si impennava tra le onde come se volesse ribellarsi ai flutti.

Poi ricordò il gorgo che si era aperto nel mare, un vortice dalle pareti nere e lucenti come metallo. Finché la nave non era stata inghiottita nell’abisso...

Uberto riaprì gli occhi, la testa pulsava per il dolore, ma prima di muoversi cercò di capire cosa fosse accaduto. Due uomini erano in piedi accanto a lui, impegnati a discutere. Parlavano con accento tolosano, più stretto rispetto a quello della gente di città. Il loro era un borbottio vernacolare e agreste.

Il più robusto dei due faceva la voce grossa, cercando di spartire il bottino a proprio vantaggio. Voleva tenere per sé il cavallo. L’altro, un gobbo, non era d’accordo. A suo avviso il cavallo valeva molto di più del resto.

Uberto prese atto della situazione, allungò furtivamente la mano destra verso la cintura e strinse l’impugnatura della jambiya preparandosi ad agire. I due compari nel frattempo erano giunti a un accordo: prima di spartire il bottino si sarebbero accertati del contenuto della bisaccia a tracolla della loro vittima.

Il bandito più robusto si chinò sul giovane e credendolo svenuto iniziò a frugargli addosso.

Ma un attimo dopo gridò di dolore e ritirò la mano, fulminato dalla sorpresa. Uberto si era voltato di scatto, la jambiya in pugno, tranciandogli di netto quattro dita.

L’uomo arretrò grufolando, premendo al petto l’arto ferito, mentre il compare lasciava cadere un fagotto già arraffato dalla sella, indeciso sul da farsi. Uberto approfittò della loro titubanza, si alzò in piedi minaccioso e puntò contro di loro il pugnale ricurvo. «Andate via!», gridò, incurante del dolore alla testa. «Via, bastardi, o vi uccido!».

I banditi esitarono, il gobbo raccolse un bastone da terra, ma il giovane avanzò, per nulla intimidito. Allora i due si scambiarono uno sguardo e sparirono a gambe levate fra le ombre del

I banditi esitarono, il gobbo raccolse un bastone da terra, ma il giovane avanzò, per nulla intimidito. Allora i due si scambiarono uno sguardo e sparirono a gambe levate fra le ombre del

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