Quali furono la partecipazione e le reazioni dei Napoletani riguardo a quello che stava accadendo?
Non è affatto facile dissipare la nebbia diffusa dalle due opposte propagande. Secondo gli Italiani solo 10.312 uomini su 1.312.376 vo-tanti, lo 0,79%, (risultato del plebiscito nelle province napoletane, in Sicilia andò anche meglio) rimasero fedeli al loro re. Tutti gli altri impazzirono per la gioia prodotta dal cambio di regime. Le donne naturalmente non esistevano. Secondo i borbonici invece tutte le cose che accaddero prima, durante e dopo i drammatici eventi che abbiamo descritto furono il risultato di minacce, violenze, intrighi, imbrogli, tradimenti, delitti di ogni genere e corruzione. A farla da padroni furono i camorristi.
Nessuna di queste due rappresentazioni è attendibile.
Abbiamo già detto che il sentimento nazionale italiano nel Sud non era fortissimo, ma che esistevano ideali liberali nella parte mi-gliore della borghesia, che peraltro non era molto sviluppata, tanto che un osservatore svizzero giunse a affermare che essa, al di fuori della classe dei letterati, non esisteva1. Le nuove idee correvano an-che tra i giovani, tra i superstiti ormai molto anziani del periodo di Gioacchino Murat, infine in una piccola parte illuminata della no-biltà. Non dimentichiamo che fu proprio a Napoli, nel 1799, che ci fu la prima rivolta italiana contro l’assolutismo monarchico e che
1. M. Monnier, Historie du brigandage dans l’Italie meridionale, p.5 Michel Lévy Fre-res, Paris 1862.
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le armate napoleoniche di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Mu-rat avevano portato con loro la speranza di un rinnovamento della politica e della società sull’onda delle idee nuove della rivoluzione francese, sia pure nel ridimensionamento che ne aveva fatto Napo-leone. Il neocesarismo di quest’ultimo, tuttavia, aveva svegliato in alcuni italiani la consapevolezza della loro servitù e dipendenza da stranieri.
La letteratura risorgimentale, a partire da Ugo Foscolo (1778–
1827), ebbe anche al Sud influenza sulla diffusione dell’ideale libera-le e unitario, ma limitatamente e in ambienti abbastanza circoscritti.
Foscolo, nato a Zante da padre italiano e madre greca, quindi cit-tadino della repubblica di Venezia, fu per tutta la vita fermamente italiano e appassionato dell’Ellade. Ebbe naturalmente formazione neoclassica e fu sempre amante del mondo classico per la sugge-stione che la terra in cui era nato esercitava su di lui. Il classicissi-mo stemperò in Foscolo la forza attrattiva del romanticisclassicissi-mo. Nel 1799 combatté nella Guardia Nazionale della Repubblica Cisalpina2 contro gli austro–russi, ma fu sempre molto critico verso la Fran-cia napoleonica che nel 1797, con il trattato di Campoformio, aveva svenduto Venezia agli Austriaci e determinato la fine della millenaria Repubblica. Foscolo sulle pagine del Monitore Napoletano, il periodi-co bisettimanale della Repubblica Napoletana del 1799, diretto da Eleonora de Fonseca Pimentel, avanzò l’idea dell’unità e indipen-denza d’Italia.
Nelle sue Ultime lettere di Jacopo Ortis, che è un alter ego dell’auto-re, Foscolo offrirà un modello di patriota puro e indomabile, che si oppone a quegli Italiani che si accontentano di cambiare padrone (in questo caso la Francia di Napoleone) pur di averne uno meno retrogrado e più illuminato. Jacopo Ortis sostiene che i Francesi, moltiplicando le repubbliche nella penisola, dimostrano di temere la formazione di una nuova Italia unita e che è una pia illusione credere
2. La Repubblica Cisalpina fu una repubblica sorella e satellite della Francia rivoluziona-ria che era diretta dai Giacobini. Fu fondata da Napoleone nel 1797 in Italia settentrionale.
IV. Partecipazione e reazioni della Nazione Napoletana 117
che le nazioni straniere vengano a trucidarsi sui campi di battaglia d’Italia per altruismo e per donare a noi la libertà.
Nel 1818 a Milano Silvio Pellico e Giovanni Berchet fondarono Il Conciliatore, periodico bisettimanale politico e letterario, che soprav-visse solo tredici mesi al rigore della censura austriaca. Capiremo immediatamente perché. Uno dei temi fondanti di questa rivista fu la polemica letteraria tra classicisti e romantici.
Il romanticismo nacque in Germania alla fine del settecento in op-posizione, tra l’altro, al classicismo e si diffuse in Italia, nella seconda decade dell’ottocento in forma meno estrema, più conciliante che al-trove in ragione della più forte tradizione classica presente nella peni-sola. Semplificando un argomento di dimensioni colossali possiamo dire che il romanticismo ebbe come contenuto l’opposizione al razio-nalismo illuminista e al classicismo, la rivendicazione del sentimento contro la fredda ragione, l’esaltazione della fantasia di fronte al rigido intellettualismo, lo storicismo, la rivalutazione dei valori religiosi con-tro il deismo e l’ateismo settecenteschi, la rivalutazione del medioevo e del cristianesimo nelle loro forme originarie ed eroiche. Nel medio-evo più lontano e nel cristianesimo evangelico delle origini i romantici cercavano il fondamento della modernità. Vi fu un capovolgimento: il rinascimento italiano, epoca della prima riscoperta del mondo classi-co, fu considerato paganesimo e quello che il rinascimento chiamava barbarie, cioè il medioevo, divenne la fonte del nuovo movimento.
L’Europa ricostruiva la sua memoria. Alle antichità greche e romane si sostituirono i ricordi individuali nazionali e ogni popolo si riallacciò alle sue tradizione e riscoprì la sua identità. Questa concezione potreb-be sembrare retrograda e aperta a nostalgie reazionarie e in qualche frangia in effetti lo fu. I romantici però nel cristianesimo evangelico riscoprirono anche la vena sentimentale, democratica e di solidarietà che arriva dove la ragione non giunge. Le conseguenze dirette di ciò furono la nascita delle ideologie politiche di redenzione sociale ed egualitarie, dalle più moderate e prudenti di contenuto liberale, alle più estreme, rivoluzionarie e anarchiche e il risveglio dei sentimenti
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nazionali3 che giunsero fino al misticismo parossistico. Questa nuova visione del mondo produsse il clima che avrebbe imposto la forma-zione dei nuovi stati nazionali, ma ebbe poi come degeneraforma-zione la nascita del nazionalismo e la giustificazione dei tremendi conflitti che sconquassarono l’Europa fino alla metà del novecento. In questa loro polemica conto il classicismo i romantici de Il Conciliatore rimprovera-vano ai classicisti la concezione estetizzante e astratta della letteratura, chiusa in un passato immobile, che si autocompiaceva dell’eleganza formale ed era avulsa dal presente. Alle fredde e razionaliste architet-ture neoclassiche i romantici opposero il predominio dei sentimenti, il ritorno alla natura, la preponderanza della fantasia. Il classicismo non fu solo quello che i seguaci del nuovo movimento gli addebitavano, il giudizio in parte era ingiusto e manicheo, ma in quella temperie era chiara la portata dello scontro. Aderire al romanticismo equivaleva a dichiararsi liberale, poco importa in quale forma, intendo dire se più o meno estrema. Ciò consentì che potessero considerarsi romantici e liberali sia il cattolico, monarchico, moderato e pacato Manzoni, sia il neoguelfo4, inquieto, eloquente (e monotono) Gioberti, sia il veemen-te, rivoluzionario e repubblicano Mazzini (1805–1872). Tutti avevano in comune la concezione provvidenziale e dinamica della storia e l’i-dea, che risaliva a Saint Simon, di un nuovo cristianesimo, o comun-que di una religione, rigeneratore della vita sociale. Comportò anche la conseguenza che i romantici diventassero i nemici giurati dell’impe-ro sovranazionale per antonomasia, quello di Austria.
Il romanticismo fu quindi il collante del movimento unitario italiano.
Quest’ultimo aspetto è molto più debole nel Mezzogiorno, dove esistevano un’antica identità statale e una tradizione talvolta splendida di lasciti culturali. Regnava una dinastia autonoma ormai radicata nel bene e nel male sul terreno da tre generazioni di sovrani che aveva restituito al regno l’indipendenza. Ho ripetuto più di una volta come a
3. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Feltrinelli, Milano 1964, vol. II p.
838. N. Sapegno, Storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze 1948.
4. Vedi nota 9 del primo capitolo.
IV. Partecipazione e reazioni della Nazione Napoletana 119
partire dal 1799 la monarchia borbonica cominciò il suo divorzio dalle élite meridionali, ma questo non riguardò la massa della popolazio-ne che non era affatto sedotta dal progetto nazionale italiano. Si deve aggiungere a questo che nel Mezzogiorno l’attrazione per il mondo classico continuava a essere fortissima a causa dell’enorme quantità e alla qualità straordinaria delle memorie materiali della Magna Gre-cia e di Roma che esistevano e continuavano a essere riportate alla luce. Inoltre chi si volgeva al medioevo trovava in quello più remoto l’ingombrante presenza dell’autocrazia bizantina o di Longobardi se-mibarbari, e in quello più recente la fioritura della splendida civiltà autoctona arabo normanna. L’imperatore Federico di Svevia, Roberto di Angiò, Alfonso il Magnanimo e suo figlio Ferrante erano ricordati come grandissimi sovrani nazionali, poco importa che solo il secondo fosse nato nel Regno di Napoli. Insomma la persona di media cultura del Sud d’Italia aveva la memoria di un passato nazionale tutt’altro che disprezzabile. Conservava, è vero, un cattivo ricordo e cioè quello dei due secoli di dominio della Spagna e del successivo ventennio austria-co, ma riteneva che la monarchia borbonica con il re Carlo aveva fatto cessare questo stato di subalternità e ripristinato l’indipendenza del regno. Pochi erano disposti a perderla di nuovo.
Tra gli autori liberali italiani prevalse per importanza e spessore Alessandro Manzoni (1785–1873), che nel corso della sua lunga vita ebbe un’influenza enorme nella penisola, tanto da essere considera-to uno dei padri della patria.
Nel 1814 Manzoni rispose a un appello di Gioacchino Murat, che invitava gli Italiani a appoggiarlo nel progetto velleitario della con-quista dell’Alta Italia e compose il Proclama di Rimini che conteneva il verso «liberi non sarem se non siam uni». Il poeta si pentì di questo verso. Raccontava Cesare Cantù che Manzoni gli aveva confidato:
«Ho tanto bramato l’Unità d’Italia che le ho fatto scientemente il più grande dei sacrifici: quello di scrivere un brutto verso»5. Ciò non
5. A. Bertoldi, Poesie liriche di Alessandro Manzoni con note storiche e dichiarative, San-soni, Firenze 1892. Ristampa 1978.
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impedì tuttavia che «liberi non sarem se non siam uni» diventasse uno dei motti del Risorgimento.
Nel Mezzogiorno d’Italia la letteratura romantica non ebbe ugua-le diffusione e radicamento e ancor meno produzioni di livello. Non trovo dei nomi di rilievo, se si escludono quelli di Francesco De San-ctis e Luigi Settembrini, che però appartengono, con l’incolmabile distanza che separa i due, entrambi alla storia della letteratura e il secondo anche alla memorialistica.
Non c’è dubbio che dopo la restaurazione del 1815 l’ambiente letterario napoletano risentì del peso della monarchia reazionaria e clericale che era stata rimessa sul trono dalle armate straniere di quella che presto diventerà la Santa Alleanza ed è vero che ci fu un’e-morragia di intelligenze e molta timidezza nei confronti del potere.
Può anche darsi che questa povertà letteraria sia da attribuire solo al caso, come mi ha fatto osservare, tra il serio e il faceto, un’amica letterata un po’ discola: «Sai Fabrizio — mi ha detto — chi può esclu-dere una cosa molto semplice e banale e cioè che non sia nato in quel periodo a Napoli alcun genio letterario? Potrebbe essersi trat-tato solo di sfortuna». Vero pure questo. E si può ipotizzare infine con un certo fondamento che questo vuoto sia derivato piuttosto dal ricordo e dall’influenza persistenti della grandissima tradizione illuminista napoletana, dalla sopravvivenza del classicismo e dalla forza della tradizione pagana che del classicismo è un aspetto. Se così fosse, e io lo credo, anche questo quadrerebbe con il limitato spirito nazionale e unitario che ho riscontrato in Italia meridionale.
A me sembra inoltre abbastanza evidente che emozioni e ideali di tal genere potevano trovare terreno fertile solo in classi elevate e letterate, mentre noi abbiamo visto, e vedremo ancora nel prossimo capitolo, come l’aristocrazia meridionale fosse generalmente chiusa nel suo privilegio, come la borghesia fosse poco sviluppata, molto spesso gretta e come avesse poca consapevolezza di classe, quanto poco gli ideali del 1799 furono accolti al di fuori della cerchia dei pochi eletti che sacrificarono a essi la loro vita o la libertà, come il popolo, sia urbano che rurale, fosse tenuto in una condizione
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riale e morale subumana dalla quale non poteva scaturire altro che una reazione anarchica e selvaggia alle ingiustizie e alla miseria.
La carenza di una classe borghese vivace e attiva e soprattutto priva di una forte coscienza di sé, il livello medio non eccelso dell’i-struzione e la presenza di una monarchia autoctona sono elementi che differenziano la parte meridionale della penisola da quella set-tentrionale e centrale e spiegano perché nel sud l’idea nazionale su-scitava meno entusiasmi che al Nord e al Centro.
Un sentimento di avversione forte verso un potere sentito come straniero e imposto esisteva tuttavia anche nel Regno delle Due Sici-lie e lo provavano i Siciliani nei confronti dei Napoletani.
Conosciamo ormai l’odio della Sicilia nei confronti di Napoli e abbiamo osservato che questo fu un elemento di grande debolezza nel momento del pericolo e che fu addirittura determinante della catastrofe della primavera – estate del 1860.
Non possiamo dimenticare che i primi cinquanta anni del se-colo furono effettivamente costellati di moti rivoluzionari liberali che scoppiarono qua e là nelle province, e nel 1848 anche a Napoli.
Il problema sta nel capire quanto fossero estesi questi ideali nei vari strati della società e quanta parte della motivazione rivolu-zionaria fosse determinata invece più da generale malcontento e disagio sociale, che da passione costituzionale e filo unitaria. Bi-sogna prima di tutto distinguere la capitale dalle province. Nella prima abbiamo visto quali fossero i sentimenti del popolo basso nei confronti del re. A Napoli una gran massa di persone viveva più o meno parassitariamente alle spalle della corona, degli ordini monastici e della nobiltà. Bastava continuare a foraggiarla e a di-strarla con qualche festa per tenerla fedele. Per questa ragione, per la vita lussuosa che vi conducevano i nobili, perché da lì arrivavano le tasse, i gendarmi, le leggi e mille altre seccature e oppressioni i provinciali si sentivano sfruttati dalla capitale, che non amava-no. Ancora oggi, nel ricordo di tutto ciò, Napoli non è popolare nel resto del Mezzogiorno. Questo comportò che nelle città della provincia meridionale si radicarono le logge massoniche e le
ven-122 Possiamo non considerarci italiani?
dite6 carbonare7 e che le antiche divisioni tra gruppi di notabili si riproducessero ora nella divisione tra progressisti e conservatori.
D’altra parte Napoli era il centro culturale del regno. Intellettuali, professionisti, studenti e giovani aderivano, nell’indifferenza o nel sospetto della massa della popolazione, alle nuove idee.
Sulla scia della rivoluzione spagnola del 1820 in Italia si sollevaro-no la Sicilia, Napoli e il Piemonte. In Sicilia la rivolta fu anche la con-seguenza dell’abolizione delle autonomie siciliane, ma fu indebolita dalle gelosie tra Palermo da un lato e Catania e Siracusa dall’altro.
A Napoli e a Torino i rivoltosi chiesero una costituzione. Ancora non si parlò di Unità d’Italia. La rivoluzione napoletana, in seguito alla quale il re concesse una costituzione, fu opera di militari carbo-nari formatisi sotto Murat il più famoso dei quali fu quel Gugliemo Pepe al quale abbiamo già accennato. Essa non attecchì in larghi strati della popolazione, ma solo in ambienti massoni e carbonari.
La rivolta fu repressa con l’aiuto di truppe austriache che sconfisse-ro i rivoltosi nella battaglia di Rieti combattuta il 7 marzo del 1821.
Le conseguenze di questo evento furono il discredito ulteriore della monarchia vassalla dello straniero, condanne a morte ed esilî e il giro di vite in senso reazionario del governo8.
Nel 1821 insorse anche la Grecia contro gli odiati Turchi e ne se-guì una guerra lunga e sanguinosa9. I patrioti greci cantavano:
«meglio un’ora di vita libera di quarant’anni di schiavitù e prigionia»
6. Termine convenzionale con il quale gli adepti indicavano le sedi della società segreta.
7. Vedi nota 34 del terzo capitolo.
8. P. Colletta, Storia del Reame di Napoli dal 1734 sino al 1825, op. cit.
9. G. Finlay, History of Greek Revolution, William Blackwood and Sons, London 1861.
G. Finlay, History of Greece, a cura di H.F. Tozer, The Clarendon Press, volumi V, VI, VII, Oxford 1877. R. Clogg, Storia della Grecia Moderna, dalla caduta dell’impero bizantino a oggi, Bompiani, Milano 1996.
IV. Partecipazione e reazioni della Nazione Napoletana 123
In tutta Europa nacquero organizzazioni liberali filoelleniche per aiutare la Grecia. Molti volontari accorsero per combattere per la sua libertà e alcuni morirono. Tutti gli Italiani dovrebbero ricorda-re (dubito in verità che lo facciano) Giuseppe Tosi e Carlo Serassi, due ragazzi rispettivamente di 16 e 18 anni che furono uccisi dai Turchi già nel 1819 e furono seppelliti nel tempio di Efesto, o The-seion, nell’Agorà di Atene, che allora era la chiesa protestante di San Giorgio, e poi Santorre di Santarosa, molto più famoso. Certamente pochissimi napoletani onorano la memoria del generale Giuseppe Rossaroll, loro concittadino. Questi partecipò alla rivoluzione del 1799, fu condannato a morte e si salvò con la fuga. «Vago di libertà e per natura immaginoso ed estremo»10, combatté per Napoleone, per la Repubblica Cisalpina11 e per Giocchino Murat, raggiungendo il grado di generale di divisione. Dopo la restaurazione del 1815, grazie al suo valore e alla politica di pacificazione del primo ministro di Ferdinando I (ex IV) Luigi de’ Medici di Ottajano, fu reintegrato ed ebbe un importante comando in Sicilia. Quando nel 1821 gli Au-striaci marciarono su Napoli per reprimere la rivolta costituzionale, Giuseppe Rossaroll organizzò l’ultima resistenza contro l’invasore.
Fu di nuovo condannato a morte. Si rifugiò in Spagna e si arruolò nelle file dei costituzionali. Nel 1823 i liberali furono sconfitti anche in Spagna. Andò allora in Grecia per combattere per l’indipendenza greca e morì a Nauplia il 2 dicembre del 1825, combattendo come soldato semplice. A Napoli non esiste neppure un lurido vicolo, tra i tanti che ce ne sono, che ricordi questo suo eroe della libertà. Una vergogna che dimostra quanto poco la città sia legata a questo suo passato, anche se per completezza bisogna dire che esiste una gran-de strada intestata a Cesare Rossaroll, figlio di Giuseppe, che cadgran-de nel 1849 nella difesa di Venezia.
Gli eventi greci diedero una grande spinta agli ideali liberali e uni-tari anche in Italia.
10. P. Colletta, Storia del reame di Napoli ecc. op. cit.
11. Vedi nota 2 di questo capitolo.
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Per quanto riguarda il Regno delle Due Sicilie nel 1837 si sollevò Cosenza, nel 1847 Reggio Calabria anticipò la stagione rivoluzio-naria del 1848. Le rivolte di Palermo (12 gennaio 1848) e di Messina (29 gennaio 1848) furono represse nel sangue con estrema ferocia.
Il 15 maggio vennero alzate le barricate a Napoli. In Sicilia la rivo-luzione fu generale, a Napoli circoscritta agli elementi che abbia-mo appena indicato. L’isola però è un caso a sé: la maggior parte delle rivendicazioni dei Siciliani anche stavolta erano specifiche, tese cioè alla decadenza della monarchia borbonica e al distacco dal regno e solo in subordine a ottenere almeno una forma di governo. I Siciliani non avevano dimenticato la revoca delle auto-nomie effettuata dal primo Ferdinando con la Legge di riordinamento dello stato del 1816 e la soppressione de facto della Costituzione del 1812. Ne abbiamo già parlato.
In Sicilia dunque avemmo una partecipazione molto vasta della popolazione ai moti autonomisti. A Milano Carlo Cattaneo nelle sue Memorie dell’insurrezione del 1848 (nota 8 del primo capitolo) notava tra le vittime delle Cinque Giornate (18–21 marzo 1848) volti e mani di operai e artigiani. Due degli eroi di questa rivolta furono il calzolaio Pasquale Sottocorno e la popolana Luigia Bat-tistotti Sassi. A Napoli i moti del 1848 seguirono al rifiuto del re di cambiare la Costituzione in senso più democratico e partirono dal palazzo di Pasquale Catalano Gonzaga, duca di Cirella. Essi coin-volsero unicamente le élite liberali di classe medio alta alle quali ho già accennato, molti intellettuali e molti giovani e questo livello di partecipazione non cambiò molto negli anni successivi, fino al fatale 1860.
Un giornalista molto anticonformista dipinge nel 1850 un quadro molto nero della situazione della società napoletana contemporanea. L’aristocrazia sarebbe un «essere incompleto e impotente», la borghesia «straniera di ogni sentimento gentile,
Un giornalista molto anticonformista dipinge nel 1850 un quadro molto nero della situazione della società napoletana contemporanea. L’aristocrazia sarebbe un «essere incompleto e impotente», la borghesia «straniera di ogni sentimento gentile,