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Anche la Grecia, come l’Italia, nel corso del diciannovesimo secolo si è liberata da tiranni e dominatori stranieri ed è diventata uno stato indipendente. Le differenze tra i processi di redenzione e unificazio-ne della Grecia da una parte e dell’Italia dall’altra sono enormi, ma essi hanno tuttavia il denominatore comune che l’esito fausto fu in entrambi i casi concausa e conseguenza della crisi irreversibile di due grandi imperi sovranazionali: rispettivamente di quello Ottomano e di quello d’Austria.

La Grecia, a differenza dell’Italia dove l’occupazione da parte di uno straniero riguardava solo una parte della penisola anche se mol-to importante, era occupata da quattro secoli da un nemico odioso, crudele, corrotto, con una religione e una civiltà diverse: facile unire tutto il popolo in una gloriosa guerra di liberazione. E rispetto all’I-talia c’era un’altra differenza: qui la dinastia dei Savoia aveva sposato la questione nazionale, se ne era assunta la direzione e aveva attuato l’unificazione con grande azzardo e sacrificio, là non esisteva invece alcun punto di riferimento su cui fondare il nuovo stato , se non il ricordo del glorioso passato. Il passato recente però era una tabula rasa. Ciò condusse i Greci a subire per ben due volte consecutive una scelta dinastica che oggi appare inverosimile perché faceva della Grecia poco meno di un protettorato delle grandi potenze europee, in particolare del Regno Unito.

La situazione italiana era completamente diversa: noi avevamo sei stati nazionali autonomi, due dei quali relativamente potenti e ben radicati nei loro territori e il terzo, quello del papa, forte

dell’in-28 Possiamo non considerarci italiani?

vestitura divina. Gli altri tre, due dei quali piccolissimi, erano legati all’Austria. Il regno Lombardo–Veneto invece non lo metto nel con-to perché, sebbene nominalmente aucon-tonomo, era a tutti gli effetti una dipendenza dell’Austria.

Cominciamo dal Regno di Sardegna dei Savoia, il cui centro era Torino e la cui culla fu la Savoia, che ora appartiene alla Francia.

Nacque nel 1416 con l’unione della contea di Savoia e del principato di Torino. Era dunque uno stato che aveva due diverse componenti nazionali: una francese e l’altra italiana. Esso era uno stato «milita-re», relativamente piccolo, ma dotato di notevole forza espansiva.

Dal 1831 al 1848 ebbe un sovrano, Carlo Alberto di Savoia–Carigna-no (1798–1849), che da ragazzo fu «ospite» in Francia di Napoleo-ne. Carlo Alberto proveniva da un ramo collaterale di casa Savoia1. Possiamo considerarlo quindi un homo novus. Ebbe un’educazione liberale e fu un uomo più aperto e moderno dei suoi pari del tempo, legato da amicizia ai personaggi di maggior rilievo dell’ambiente li-berale piemontese. Gli è stata rimproverata l’indecisione, ma in que-sto caso essa deve essere considerata più una qualità che un difetto

1. Il Re di Sardegna Carlo Felice, zio della regina di Napoli Maria Cristina, madre dell’ultimo re di Napoli, morì nel 1831 senza eredi. Per garantire la successione fu necessario rivolgersi a Carlo Alberto, principe di Carignano. Questi non era ormai neppure più un parente del re defunto perché per risalire al capostipite comune fu necessario arrivare, attraverso sette generazioni, a Carlo Emanuele, undicesimo duca di Savoia (1562–1630) che ebbe due figli: Vittorio Amedeo, dodicesimo duca di Savoia (1587–1637), antenato di Carlo Felice e Tommaso Francesco (1569–1656), primo prin-cipe di Carignano, antenato di Carlo Alberto. Il titolo reale sulla Sicilia giunse in casa Savoia solo nel 1713 con il trattato di Utrecht, in seguito alla guerra di successione spagnola. Nel 1718 la Sicilia fu scambiata con la Sardegna e da allora lo stato sabau-do si chiamò Regno di Sardegna. Carlo Alberto, il cui padre era stato al servizio di Napoleone, era di educazione liberale, di carattere incerto, intellettualmente vivace.

Da ragazzo visse in quasi prigionia e in ristrettezze economiche a Parigi. Era figlio di una principessa di Sassonia e sposò una figlia del Granduca di Toscana, quindi non aveva stretti legami con le grandi case regnanti dell’epoca. Infine la sua ascesa al trono di Sardegna, quando egli nacque, non era ipotizzabile, perciò lo ho definito nel testo homo novus. Credo che questo mascherato cambio dinastico abbia avuto importanza sull’evoluzione del Regno di Sardegna rispetto agli altri stati italiani. Carlo Alberto è il padre di Vittorio Emanuele II.

I. Quadro storico generale 29

perché non derivava da inadeguatezza intellettuale, bensì dalla sua personalità complessa e tormentata, scissa tra il vecchio mondo e il nuovo. Noi oggi siamo portati a dare per scontate le acquisizioni moderne e non pensiamo al percorso che dovettero fare a quei tem-pi i protagonisti della storia ai quali era stato inculcato il concetto della natura divina e sacerdotale della regalità. I sovrani piemontesi fecero quel cammino, i napoletani purtroppo no.

Il Regno di Sardegna a partire dal 1848 si diede una Costituzione liberale e abbracciò i tempi nuovi. Sarà questo il motore dell’Uni-tà d’Italia, anche grazie a una grandissima figura di uomo di Stato:

Camillo Benso, conte di Cavour, che preparò l’unificazione con una politica geniale di alleanze a tratti cinica e disinvolta2.

Il fulcro della politica estera di Cavour fu l’amicizia con il Regno Unito e l’alleanza con la Francia di Napoleone III.

L’accordo originario con la Francia, stipulato segretamente e ver-balmente a Plombières nel 1858 a opera di Costantino Nigra, il di-plomatico di Cavour, prevedeva la guerra all’Austria e un’Italia ripar-tita in due zone di influenza: una sabauda e l’altra francese. Il Regno di Sardegna avrebbe occupato tutta l’Italia settentrionale e l’Emilia Romagna. In Italia centrale si sarebbe costituito un nuovo stato con un sovrano da designarsi, possibilmente la duchessa di Parma, una Borbone, il che serviva a Napoleone III per ingraziarsi i monarchici lealisti del suo paese, che lo detestavano. Al papa sarebbe rimasto il solo Lazio con la protezione dei Francesi. Quanto al Sud i contraenti erano ben consapevoli della forza del re Ferdinando II di Borbone, quindi solo in via ipotetica si immaginò di insediare a Napoli un sovrano francese della stirpe di Gioacchino Murat, che vi aveva re-gnato dal 1808 al 1815. Infine il Regno di Sardegna avrebbe ceduto alla Francia Nizza e la Savoia.

Lo scopo della Francia era quello di conseguire la maggiore in-fluenza possibile nella penisola italiana e di acquistare le due

pro-2. R. Romeo, Cavour e il suo tempo (1854–1861), Laterza, Bari 1984. R. Romeo, Vita di Cavour, Laterza, Bari 2004. L. Cafagna, Cavour, Il Mulino, Bologna 1999.

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vince francofone che si trovavano all’interno dei suoi confini na-turali, mentre Cavour contava sulla forza attrattiva del Regno di Sardegna nei confronti dei patrioti italiani per giungere, anche se in tempi non brevissimi, all’unificazione dell’Italia intera sotto casa Savoia.

Vedremo come, a causa di una concatenazione di eventi straordi-nari, alcuni previsti e prevedibili, altri casuali, come la morte prema-tura del re di Napoli, Ferdinando II, nel 1859, il disegno di Cavour si realizzò con un ritmo precipitoso e ben al di là del progetto origina-rio, a parte la conquista del Veneto e della Venezia Giulia che dovette essere rinviata di sei anni, del Lazio e di Roma che attesero fino al 1870 e di Trento e Trieste che furono annesse nel 1918.

Invece più gramo fu il vantaggio della Francia, che aveva soste-nuto la maggior parte del peso della guerra contro l’Austria. Essa ottenne Nizza e la Savoia, ma non raggiunse lo scopo di mettere radici profonde nella penisola italiana, anzi nella nuova Italia troverà talvolta in futuro una rivale. I rapporti tra le due «cugine» latine non sono sempre stati facilissimi, influenzati come sono da interessi tal-volta concorrenti e dagli opposti complessi di superiorità e di inferio-rità che affliggono le due nazioni. Ancora oggi spesso assistiamo a inutili liti da cortile e a dispetti reciproci che danneggiano entrambe e che francamente bisognerebbe evitare.

È recente il caso della Libia. La Francia ha profittato dell’attuale debolezza dell’Italia e si è inserita pesantemente nelle vicende dell’ex colonia italiana, dove noi avevamo enormi interessi. Il risultato è sta-to che la Libia dopo 108 anni è sta-tornata nella sfera d’influenza del rinascente «impero ottomano» dell’islamico Recep Tayyip Erdogan, con danno per entrambe e per tutta l’Europa.

Vi era poi il Regno delle Due Sicilie, con la dinastia borbonica, che, al contrario, dopo la Restaurazione del 1815 rimase chiuso in se stesso, isolato dal contesto internazionale e sordo a ogni novi-tà. Per una migliore comprensione di quello che ho appena detto, anticipo in due parole che dal 1806 al 1815 la parte continenta-le del regno fu occupata dai Francesi con Giuseppe Bonaparte e

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Gioacchino Murat e il re Ferdinando IV riparò in Sicilia protetto dall’Inghilterra3.

Si trattava però di uno stato con due diverse identità nazionali: una napoletana e l’altra siciliana. Buona parte della popolazione continen-tale era legata alla monarchia, è inutile negarlo; non così quella insula-re. Questo è uno degli argomenti che ci occuperà più avanti.

Il terzo era lo Stato della Chiesa, quello che ho definito investito da Dio, governato dal papa e dai suoi cardinali. Il papa si oppone-va all’unificazione e al liberalismo e aveoppone-va purtroppo influenza in tutta Italia su molti cattolici che obbedivano al successore di San Pietro. Quali fossero le condizioni di vita sotto un governo di preti è facile immaginarlo. Goethe, che visitò velocemente l’università di Bologna la sera del 19 ottobre del 1786, si accorse subito di come

«quell’Istituto non potesse andare totalmente a genio a un Tedesco assuefatto a metodi di studio più liberi»4. A questo punto però è necessario accennare al fatto che nel 1846, in un Conclave diviso tra cardinali conservatori e progressisti5, fu eletto al soglio pontifi-cio il cardinale Giovanni Maria Mastai Feretti, capofila dell’ala «li-berale», che assunse il nome di Pio IX. L’imperatore Ferdinando I d’Austria, avvalendosi dell’antico ius exlusivae, dell’imperatore del Sacro Romano Impero a un’elezione papale6, aveva dato incarico al Cardinale della Corona Karl Kajetan von Gaisruck, arcivescovo di Milano, di porre il veto all’elezione del Mastai Ferretti, ma il Gaisruk arrivò in ritardo e l’elezione fu confermata7. Questo veto

3. P. Colletta, Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825 Napoli, 1835. Ristampa ana-statica S.A.R.A. Ed., Trezzano 1992. A. De Martino Giustizia e Politica nel Mezzogiorno tra antico e nuovo regime, Giappichelli, Torino, 2002. A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Il Mulino, Bologna 1997. G. Galasso, Il Regno di Napoli – Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale (1815–1860). UTET, Torino 2008.

4. W. Goethe, Italienische Reise, 1816–1817. Molte traduzioni in italiano tra cui: W.

Goethe Viaggio in Italia, trad. E. Castellani, Mondadori, Milano 1983.

5. G. Nepi, Le schede di scrutinio del Conclave del 1846, Studi Maceratesi 1860.

6. Si trattava di una dichiarazione di non gradimento che non aveva valore vincolan-te, ma comunque un gran peso politico.

7. A. Piazzoni, Storia delle elezioni pontificie, Piemme, Bologna 2003.

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consolidò, forse un po’ fuor di misura, la fama del liberalismo del nuovo papa.

Fino al 1848, l’anno delle rivoluzioni, Pio IX in effetti si dimo-strò un uomo abbastanza moderno: permise lo studio e la proget-tazione delle ferrovie, che il precedente papa aveva definito uno strumento del diavolo, diede il via all’illuminazione a gas di Roma, fece alcune modernizzazioni, nel campo politico beninteso, come il varo di un governo laico (presieduto da un cardinale), concesse una limitata libertà di stampa e produsse alcune riforme libera-li dello Stato, culminate con la Costituzione del marzo 1848. Per queste ragioni da alcuni fu visto come il soggetto intorno al quale avrebbe potuto aggregarsi una federazione di stati italiani. Ne ri-parleremo.

La Lombardia, il Veneto e il Friuli costituivano il Regno Lombar-do Veneto, il cui sovrano era l’Imperatore d’Austria. Di nome era un vero e proprio stato, a differenza del Trentino e della Venezia Giulia con Trieste che erano parte dell’impero, ma in realtà giaceva sotto il giogo dell’Austria, il che risulta evidente se solo si riflette sul fatto che l’imperatore d’Austria, che ne era il capo, fino al 1866, e cioè negli anni di cui ci stiamo occupando, fu un sovrano assoluto. Il governo di Vienna ne nominava il viceré e il governatore che furono sempre austriaci, con due sole eccezioni quanto al governatore, e tutti gli organi di governo. Per l’impero era un possedimento impor-tantissimo giacché dal Lombardo Veneto traeva un terzo delle sue ricchezze, nonostante il fatto che esso avesse solo un ottavo della sua popolazione8. Vi si producevano tessuti, sete, calzature; si lavo-ravano metalli e la produzione di armi del bresciano era già molto rilevante. L’Austria governava in maniera autoritaria, talvolta addi-rittura feroce, ma a differenza di quanto facevano i Turchi in Grecia, con buone leggi e con un’ottima amministrazione, con saggezza, e

8. C. Cattaneo, Memorie. Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra.

Tipografia della Svizzera italiana, Lugano, 1849. Edizione moderna a cura di M. Merig-gi, Feltrinelli, Milano 2011.

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correttezza, anche mediante funzionari italiani, ma preferibilmente non ai gradi più elevati, come vedremo subito. Era un impero mul-tietnico ed era abbastanza rispettoso delle nazionalità che lo compo-nevano. Ricordo per esempio, anche se la cosa riguarda un periodo posteriore ai fatti di cui ci stiamo occupando, che il futuro presidente del consiglio italiano Alcide De Gasperi (1881–1954), trentino, nella giovinezza era stato suddito austriaco e, come tale, fu deputato al parlamento di Vienna (1911).

Nessuna norma vietava ai sudditi italiani l’accesso ai gradi più alti dell’amministrazione, ma abbiamo una testimonianza interessante se-condo la quale il governo austriaco diffidava della nostra aristocrazia: la trovava frivola, incolta e con poca vocazione ai pubblici affari9. C’è poco da fare: ogni Nord è il Sud di qualcuno! Io credo invece che il governo austriaco dubitasse senza tanti preamboli della fedeltà italiana, anche di quella dei vecchi austriacanti e che molti Italiani difettassero della cono-scenza della lingua tedesca, che era un requisito indispensabile nei gradi elevati che dovevano colloquiare con Vienna, benché la lingua ufficiale del Lombardo Veneto fosse quella italiana. L’amministrazione pubblica comunque era proverbialmente molto buona: «Ora, negli stati austriaci

— scrive Stendhal ne La Certosa di Parma, a proposito del marchese Del Dongo che aveva avuto in premio una carica di rilievo dall’imperatore d’Austria senza averne le capacità — non è possibile durare in un ufficio importante senza avere le speciali qualità che esige l’amministrazione lenta e complicata, ma assai razionale, della vecchia monarchia»10.

Generalizzando possiamo dire che nel Regno Lombardo Veneto l’alta aristocrazia era per lo più filo austriaca, la gente delle cam-pagne lo era passivamente, mentre nelle città la piccola nobiltà, la classe media, ma anche il popolo erano fieramente avversi a questo dominio straniero.

9. K. Shönhals, Erinnerungen eines österreichischen Veteran aus dem italienishen Kriege in der Jaren 1848 und 1849, Suggard 1852, 2 Bde; Aufl. 1853. Memorie della Guerra d’Italia degli anni 1848–1849), su books google.it

10. Stendhal, La Certosa di Parma, Traduzione a cura di Giovanni Celati, Feltrinelli, Milano 2004.

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A buon diritto il poeta Giuseppe Giusti poteva scrivere nella sua poesia Sant’Ambrogio che tutti i bambini della mia generazione im-paravano a memoria alle scuole elementari:

«E quest’odio che mai non avvicina il popolo lombardo all’alemanno, giova a chi regna dividendo, e teme popoli avversi affratellati assieme».

Anche in queste contrade, in ricordo della buona amministrazio-ne, rimangono dei nostalgici dell’imperatore Francesco Giuseppe di Asburgo. Costoro dimenticano, o ignorano, che la maggior par-te dei conpar-temporanei odiava quel governo e aspirava alla libertà e all’indipendenza. Nel periodo delle più feroci repressioni del famige-rato maresciallo Radetzky (1849–1851)11, governatore generale del Lombardo Veneto, furono eseguite innumerevoli condanne a morte per motivi politici anche futili. Come al solito la memoria degli uo-mini è corta.

Molti veneti naturalmente rimpiangono la gloriosa e millenaria Repubblica Serenissima di Venezia, che fu barattata a Campoformio (1797) e tradita al Congresso di Vienna (1815): unico stato (con la piccola Repubblica di Lucca e Massa) anteriore alla tempesta napo-leonica (e il più antico) che non fu restaurato12.

Infine avevamo due piccoli ducati in pianura Padana (Modena e Reggio con gli Asburgo–Este e Parma e Piacenza con i Borbone–

Parma), uno in Toscana (Lucca che appartenne ai Borbone–Spagna, ma fu aggregato al Granducato di Toscana nel 1847) e il granducato di Toscana, con capitale a Firenze, che era appartenuto ai de’ Medici e ora era di un ramo collaterale degli Asburgo: gli Asburgo Lorena.

11. F. Fucci, Radetzky a Milano, Mursia, Milano 1997.

12. La Repubblica di Genova, ridotta alla sola città e ai suoi dintorni, sopravvisse solo un anno al Congresso di Vienna. Nel 1816 fu fagocitata violentemente dal Regno di Sardegna. Nel 1849 la città si ribellò e la rivolta fu repressa alla maniera sabauda, cioè con grande durezza.

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Questi stati minori sostanzialmente gravitavano nell’orbita dell’Au-stria. I loro governi erano relativamente tolleranti e illuminati e così, nonostante le limitate libertà dopo tutto ci si viveva assai bene, come in una famiglia. Per i Toscani il Granduca era il babbo.

In conclusione l’unico Stato che non è rimpianto da nessuno è lo Stato Pontificio.

Ci occuperemo in particolare degli eventi che determinarono la distruzione dello stato napoletano. La retorica risorgimentale li ha tramandati come un’epopea eroica13, ma non è completamen-te vero. D’altra parcompletamen-te non sono mai esisticompletamen-te epopee completamencompletamen-te eroiche. Fu invece un evento della storia necessario e ineludibile, non isolato, come tende a rappresentarlo la pseudo storiografia filo borbonica cui ho accennato nell’introduzione, ma perfettamente in-serito nel corso della storia europea di quei decenni, che certamente corrispondeva alle aspettative di parte della popolazione, altrimen-ti sarebbe fallito, ma tutto sommato molto illegale e ingiusto. Fu costellato di azioni eroiche e abominevoli tradimenti, determinato in massima parte dalle carenze strutturali e istituzionali dello stato sconfitto, dalla retromarcia innestata dopo il 1815 e ancor più dopo il 1821 e il 1848 con politiche chiuse a ogni novità, dalla questione siciliana della quale ci occuperemo, dall’isolamento internazionale in cui il penultimo sovrano, Ferdinando II, lo aveva cacciato e dalla sua politica immobilista e autoritaria, dall’inesperienza e mitezza di carattere del giovane re Francesco II e dall’inadeguatezza della classe dirigente e della borghesia meridionali.

Il cambio repentino di regime provocò all’inizio molto disagio alle classi umili, ma un enorme progresso generale in prospettiva e uno straordinario risveglio culturale, generato dalla libertà di opi-nione e di stampa, che erano cose sconosciute. Esso si concluse con

13. G.C. Abba, Da Quarto al Volturno, noterelle di uno dei Mille, (1880–1891), Nistri, Pisa 1866. Innumerevoli riedizioni, tra le quali segnalo: Mursia Milano, 1967, con presentazio-ne di Salvator Gotta e commento critico di G. Cenzato. È il libro celebrativo dell’impresa dei Mille più famoso e più bello, letto nelle scuole per tre generazioni e oggi purtroppo completamente dimenticato.

36 Possiamo non considerarci italiani?

un plebiscito (21 ottobre 1860) che ha dato la stura a innumerevoli recriminazioni14.

Negli stati napoletani il plebiscito fu organizzato dal giurista Raf-faele Conforti (1804–1880), ministro dell’Interno durante la dittatura di Garibaldi, patriota, condannato a morte ed esule dopo il breve pe-riodo del governo costituzionale del 1848 presieduto da Carlo Troya, nel quale aveva ricoperto la stessa carica. Questi aveva buoni motivi di rancore nei confronti del governo borbonico. Poiché nei plebisciti non basta vincere, ma occorre stravincere, altrimenti non sono più plebisciti con tanto di piazza o viale alberato conseguente, ogni se-gretezza fu bandita, nessun imbroglio e nessuna minaccia furono ri-sparmiate. Il quesito posto agli elettori, grammaticalmente sbilenco, era il seguente: «Il popolo vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e i suoi legittimi discendenti?». Nel seggio

Negli stati napoletani il plebiscito fu organizzato dal giurista Raf-faele Conforti (1804–1880), ministro dell’Interno durante la dittatura di Garibaldi, patriota, condannato a morte ed esule dopo il breve pe-riodo del governo costituzionale del 1848 presieduto da Carlo Troya, nel quale aveva ricoperto la stessa carica. Questi aveva buoni motivi di rancore nei confronti del governo borbonico. Poiché nei plebisciti non basta vincere, ma occorre stravincere, altrimenti non sono più plebisciti con tanto di piazza o viale alberato conseguente, ogni se-gretezza fu bandita, nessun imbroglio e nessuna minaccia furono ri-sparmiate. Il quesito posto agli elettori, grammaticalmente sbilenco, era il seguente: «Il popolo vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e i suoi legittimi discendenti?». Nel seggio

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