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Patto di non concorrenza: nozione e contenuto

IL PATTO DI NON CONCORRENZA

4.1 Patto di non concorrenza: nozione e contenuto

Come detto nella precedente parte della trattazione l’obbligo di fedeltà posto in capo al dipendente si riferisce al periodo di durata del rapporto di lavoro.1 Cessato quest’ultimo il lavoratore riacquista piena libertà di lavoro. Salva, tuttavia, la possibilità per l’imprenditore di stipulare con il lavoratore un patto di non concorrenza che limiti la libertà in attività concorrenziali del lavoratore anche per un periodo successivo alla cessazione del rapporto.2

La regolamentazione della materia è principalmente dettata dall’art. 2125 c.c., che disciplina il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, stabilendo che lo stesso è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo. La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti ed a tre anni negli altri casi.

Stante il silenzio della norma l’oggetto del patto può essere astrattamente costituito da qualunque attività esercitata dall'ex dipendente in seguito alla cessazione del rapporto di lavoro. Una siffatta ampia interpretazione, tuttavia, potrebbe comportare la giuridica impossibilità per l’ex dipendente di svolgere qualsivoglia attività lavorativa e, del resto, a ben vedere, si porrebbe in contrasto con la stessa ratio legis, che è quella di consentire al lavoratore di svolgere, in concreto, la

1 Cfr. Cassazione, 23 aprile 1997, n. 3528, in Massimario giurisprudenza lavoro, 1997, p. 377; Cassazione, 3

giugno 1985, n. 3301, in Rivista diritto lavoro, 1986, II, p. 362.

sua attività professionalità e di assicurarsi un reddito da lavoro.3 Insomma, se ne ricava la nullità del patto qualora la professionalità del lavoratore sia compressa a tal punto da privarlo di qualunque residua capacità di produzione di reddito.4 In altre occasioni, tuttavia, la giurisprudenza ha affermato che il patto di non concorrenza può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni svolte durante il rapporto di lavoro: l’oggetto, comunque, non deve spaziare in modo tale da precludere al lavoratore ogni possibilità di reperire una nuova occupazione,5 tanto è vero che è stato ritenuto nullo il patto che prevedeva il divieto di prestare attività per aziende operanti nello stesso settore

3 Cfr. Cassazione, 4 aprile 2006, n. 7835, in Notiziario giur. lav., 2006, 5, p. 723.

4 Per valutare tale requisito la giurisprudenza ha fatto sovente ricorso alla formazione professionale del lavoratore

(cfr. Cassazione, 3 dicembre 2001, n. 15253, in Giustizia civile Mass., 2001, p. 2072; nonché in Notiziario giur. lav., 2002, p. 243; nonché in Arch. civ., 2002, p. 565, la cui massima è la seguente: «Il patto di non concorrenza, previsto dall'art. 2125 c.c., può riguardare una qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto. Esso, perciò, è nullo solo allorché la sua ampiezza sia tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale. (Nella specie il giudice del merito, con la sentenza confermata dalla S.C., aveva ritenuto valido un patto stipulato con un impresa operante nel settore della produzione di articoli per giardinaggio e irrigazione che precludeva all'ex direttore commerciale lo svolgimento in Italia, Francia, Svizzera, Germania e Austria per un biennio di qualsiasi attività lavorativa alle dipendenze di imprese operanti nel medesimo settore e qualsiasi attività indipendente con essa concorrente, sul principale rilievo che la capacità professionale specifica del lavoratore non doveva essere posta in relazione all'esperienza lavorativa nel suddetto settore merceologico, ma andava individuata nel nucleo significativo delle mansioni svolte di direttore commerciale)»; Cassazione, 2 maggio 2000, n. 5477, in Giustizia civile Mass., 2000, p. 914; nonché in Notiziario giur. lavoro, 2000, p. 492, secondo cui, appunto, nel rapporto di lavoro subordinato il patto di non concorrenza è nullo se il divieto di attività successive alla risoluzione del rapporto non è contenuto entro limiti determinati di oggetto, di tempo e di luogo; l'ampiezza del vincolo, infatti, deve essere tale da comprimere l'esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che non ne compromettano la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita.

In altri casi, invece, si è ritenuto che la validità del patto vada stabilita in concreto, ossia con riferimento specifico al suo contenuto e non alle capacità professionali del lavoratore (cfr. Cassazione, 24 agosto 1990 n. 8641, in Rivista it.

diritto lavoro, 1992, II, p. 122).

5Cfr. Cassazione, 3 dicembre 2001, n. 15253, cit.; Corte Appello Milano, 17 marzo 2006 e Tribunale Ravenna, 24

dell'impresa (ex) datrice di lavoro, senza che lo stesso contenesse ulteriori elementi di specificazione.6 Insomma, «il patto di non concorrenza, previsto dall'art. 2125 c.c., può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto. Esso, è, perciò, nullo allorché la sua ampiezza è tale da comprimere l'esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenziale reddituale».7 In altri termini, «ai sensi dell'art. 2125 c.c., il patto di non concorrenza è nullo soltanto quando la sua ampiezza sia tale, in ragione del tipo di attività vietata, del periodo di tempo ivi indicato e della sua estensione territoriale, da compromettere la possibilità per il lavoratore di assicurarsi, tenuto anche conto del contenuto altamente specialistico della attività vietata, un guadagno idoneo alle esigenze di vita».8

Si tratta, dunque, di una norma solo in apparenza di semplice ed immediata esegesi. In realtà, già da quanto sopra, si evince come le problematiche connesse ad una compiuta e sistematica analisi della norma siano molteplici e riguardino tematiche non solo di stretto diritto positivo, ma anche corrispondenti a valutazioni di carattere economico e sociale.

Sul piano tecnico – giuridico il patto disciplinato dall’art. 2125 c.c. non può essere analizzato disgiuntamente dai principi e dalle regole dettate dal diritto interno e comunitario in materia di concorrenza, frutto in larga parte di considerazioni di natura finanziaria a tutela del mercato. Tali principi e regole devono essere a loro volta coordinati con quelli specifici che ineriscono il diritto del lavoro che, nato tradizionalmente per tutelare il lavoratore quale contraente debole, negli anni recenti, pur non perdendo la propria connotazione di fondo, risulta più attento anche alle esigenze

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Cfr. Pretore Milano, 13 gennaio 1999, inedita.

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Così Cassazione, 26 novembre 1994, n. 10062, in Notiziario giur. lavoro, 1995, p. 104; in Lavoro e prev. oggi, 1995, p. 781; in Rivista it. diritto lavoro, 1995, II, p. 582; in Massimario giur. lavoro, 1995, p. 76; in Orientamenti giur.

lavoro, 1995, I, p. 126; in Diritto lavoro, 1995, II, p. 4; in Giurisprudenza italiana, 1995, I, 1, p. 1506.

delle imprese. L’interpretazione di una norma, può dirsi, infatti compiuta in quanto partendo dalla

ratio legis giunga al suo inquadramento nel sistema complessivo dell’ordinamento vigente, tenendo

presente i principi che sono alla base e rappresentano la struttura portante del sistema stesso.9 Se si procede con lo studio della norma si dovrà inoltre sempre considerare la diversa posizione assunta dalle parti con la stipulazione del patto. Si tratta di un profilo di fondamentale rilievo per addivenire ad un’adeguata interpretazione di una disposizione emanata nel periodo repubblicano e che è rimasta immutata nella propria formulazione nel corso degli anni, nonostante il significativo cambiamento del contesto economico e giuridico. Il prestatore di lavoro può essere indotto alla sottoscrizione del patto dalle più svariate motivazioni, di regola diverse in ragione della personale posizione economica e professionale. Ma ciò che più rileva è che con la stipulazione dell’accordo il lavoratore accetta un vincolo limitativo degli spazi di ricerca di una nuova occupazione e della piena esplicazione delle proprie attitudini professionali. Dunque, accetta vincoli ulteriori rispetto a quelli riconducibili alla sfera meramente patrimoniale che nel comprimere la libertà di lavoro, tutelata dalla Costituzione, si traducono, in ultima analisi, in limiti alla piena esplicazione della libertà della persona. Infatti, la libertà di lavoro disciplinata dall’art. 4 della Carta Costituzionale, secondo cui ogni cittadino ha il diritto e il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività che concorra al proprio soddisfacimento personale ed al progresso materiale e spirituale della società, attiene, in base alla consolidata elaborazione dottrinale, alle prerogative fondamentali della persona.

L’interesse datoriale risulta in concreto garantito non solo nei confronti del lavoratore coerente, ma pure nei confronti di altri datori, anch’essi quantomeno di fatto vincolati, nel caso di utilizzo

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V.U. NATOLI, Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro, Giuffré, Milano, 1955, p. 7 s. secondo per cui ratio legis «va intesa non soltanto la finalità immediata e contingente che con la norma si è voluta raggiungere in relazione alle concrete circostanze storiche di cui la norma stessa è il prodotto, ma anche la funzione

della prestazione dei lavoratori che hanno sottoscritto il patto, al rispetto di quanto disposto nell’accordo limitativo della concorrenza.Ciò apre uno scenario più ampio che va oltre le posizioni giuridiche dei sottoscrittori del patto ed investe il più esteso tema dei limiti che il legislatore ordinario può prevedere per la libertà di concorrenza, riflesso del principio di libertà di iniziativa economica privata espressamente riconosciuta dall’art. 41 della Costituzione.

Queste sintetiche note introduttive fanno emergere la poliedricità e la pluralità delle questioni connesse ad una previsione solo in apparenza di semplice interpretazione. Ne consegue l’imprescindibile esigenza di analizzare l’art. 2125 c.c. alla luce dei principi costituzionali concernenti la libertà di lavoro ( principalmente artt. 4 e 35), di iniziativa economica (art. 41), oltre a quello di uguaglianza (art.3). Un’indagine finalizzata non tanto ad affrontare, in chiave peraltro ormai meramente ricognitiva, il problema inerente la costituzionalità dell’art. 2125 c.c., quanto ad enucleare alcuni principi informatori che risulteranno utili nella parte in cui si procederà all’interpretazione della norma ai fini della sua corretta applicazione.

Non meno rilevante sarà la considerazione dei principi desumibili dalla fonte comunitaria e dalle norme interne di rango ordinario che disciplinano la materia della concorrenza e, segnatamente, pongono limiti alla sua libera esplicazione. La finalità è di trarre indicazioni utili a valutare la relazione intercorrente tra l’art. 2125 c.c. e le altre disposizioni di fonte primaria, codicistiche e non, aventi per oggetto la disciplina della concorrenza.

4.2. Una sintetica ricostruzione dell’evoluzione normativa in materia di patto