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CAPITOLO IV: LA PRIGIONE: L’ANALISI DRAMMATURGICA E LE INTERPRETAZIONI TESTUALI

IV.1 LE PECULIARITÀ DELLA PIÈCE DAL PUNTO DI VISTA REGISTICO

Quando Judith Malina ha redatto alcune Note di Regia, al fine di mettere in scena la pièce, ha preso ispirazione da tre numi tutelari del teatro moderno – un russo, un francese e un tedesco – per poi rifarsi, infine, a un’opera “d’autorità antica e collettiva”232, il Manuale dei Marines.

Il primo autore, o meglio, la prima metodologia teatrale a cui Malina si ispira è quella del regista russo Mejerchol’d (1874-1940). Egli, dopo aver combattuto “sul palcoscenico della Rivoluzione”233

nel 1917 e averne perciò vissuto appieno le contraddizioni e, soprattutto, le crudeltà che vi sono state compiute, giunge a credere che, soltanto delle complesse strutture tecniche volte a ‘opprimere’ e a minare l’importanza dell’attore potrebbero esprimere lo scenario reale della propria epoca.

In tal modo, dunque, Mejerchol’d si confà al ‘Costruttivismo filosofico’ - per cui la rappresentazione della realtà consiste nel risultato delle strutture cognitive di chi vi abita - in quanto, nel suo teatro, si esige, adesso, uno scenario che sia l’azione. Per ottenere un risultato del genere, il regista inizia a regolare i movimenti dell’attore ‘disumanizzandolo’, conducendo perciò la sua troupe a lamentarsene e il pubblico stesso a definire il proprio teatro «ostile alla gente».234

Tuttavia, egli prosegue in tale direzione, sostenendo la nota ‘teoria biomeccanica’ che definisce come “l’organizzazione e la geometrizzazione del movimento, basate su uno studio profondo del corpo umano”235 e capendo che la posta in gioco sia qualcosa di psicofisico. Il recupero della

232 Judith Malina, “Note di regia”, in Kenneth Brown, La Prigione, Einaudi, Torino, 1967, p. 86. 233 Ivi, p. 87.

234 Ibidem. 235 Ibidem.

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sensibilità dello spettatore, infatti, deve avvenire attraverso il nuovo riferimento al corpo umano che si trova intrappolato, sul palcoscenico, di fronte a lui.

In La Prigione, dunque, ciascun attore avverte la propria creatività totale quando la forma esterna della sua azione è talmente inibita e l’unica frase che egli ripete è talmente restrittiva, che tutta la sua anima gli freme sul volto e nel corpo, in tal modo gli spettacoli si colmano di emozioni e si arricchiscono di mistero.

Alla luce di tale confronto, è stato pertanto possibile definire tale pièce, “un dramma costruttivista”236, poiché la costruzione della scena detta e guida l’azione con la forza dei propri vettori

e dei suoi centri di gravità. Una struttura del genere è stata disegnata dagli architetti delle antiche prigioni militari e realizzata da artigiani massonici di torri e cripte sotterranee e, da questa, deriva direttamente il vantaggio del minimo di costruzione e del massimo di sicurezza. Perciò in La Prigione la struttura rafforza quella disciplina ritmica del corpo dell’attore, che Mejerchol’d ha definito ‘biomeccanica’, senza tuttavia danneggiare le sue capacità, bensì potenziandole.

L’altro autore a cui Judith Malina si ispira è Antonin Artaud, che ella giunge a considerare addirittura la sua «folle musa».237 È stato lui, infatti, a esigere dall’attore le grandi gesta atletiche insieme ai gesti senza senso spezzati in danze di dolore e di insania; e a invocare a gran voce, nel la cella del suo manicomio, un teatro così violento da rendersi insopportabile a chiunque vi si approcciasse.

In tal modo, Artaud auspica un tipo di rappresentazione nella quale gli attori siano vittime arse sul rogo “che fanno segnali attraverso le fiamme”; in cui “l’ossessione fisica dei muscoli vibranti di affetto sia in grado, come nel gioco dei respiri, di scatenare questo affetto in tutta la sua forza, conferendogli un campo muto, ma profondo, di straordinaria violenza” e “il sovrapporsi delle immagini e dei movimenti raggiunga il culmine, attraverso la collusione di oggetti, silenzi, grida e ritmi, o in un linguaggio genuinamente fisico con segni, non parole, alle proprie radici”238.

Infine, il modello per eccelleza di Malina è stato Erwin Piscator: il suo maestro. Egli, agli antipodi rispetto ad Artaud che invoca a gran voce la Follia, patrocina la Ragione, la Chiarezza e la Comunicazione. Gli effetti di tale metodologia vengono resi perfettamente dalle parole di Bertolt Brecht, il quale scrive di Piscator, citato dalla stessa Malina:

I suoi esperimenti provocarono, soprattutto, un caos assoluto nel teatro. […] Per Piscator il teatro era un parlamento, e il pubblico un corpo legislativo. A tale parlamento erano presentati in termini plastici

236 Ibidem. 237 Ivi, p. 88. 238 Ibidem.

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importanti affari pubblici che esigevano una decisione. Invece dell’intervento di un membro del parlamento relativo a certe insostenibili condizioni sociali, vi appariva una riproduzione artistica della situazione. Il teatro di Piscator voleva strappare agli spettatori un impegno concreto a intervenire attivamente nella vita.239

Proprio riguardo quest’ultimo paragrafo entra in gioco La Prigione. Il contenuto così forte di un dramma del genere, che è stato proibito dallo Stato perché il teatro non poteva mantenere i propri impegni finanziari, ha spinto la troupe e alcuni spettatori a rappresentarlo ugualmente e farsi volontariamente arrestare sulla scena, piuttosto che permettere, senza protestare, che questo dramma cessasse di far sentire la propria voce.

Sull’opera del Manuale dei Marines sono stati espressi alcuni concetti nello scorso capitolo, durante l’introduzione alla pièce. In questa sede è tuttavia necessario aggiungere nuove informazioni più dettagliate al fine di comprendere il clima di oppressione che serpeggia all’interno del dramma.

Judith Malina lo definisce, con una certa amarezza, “uno dei Grandi Libri”, nonché un efficiente mezzo atto ad addestrare “un giovane dolceodorante e pulito”240, in modo da trasformarlo in una sorta

di automa capace di eseguire infallibilmente quanto gli viene richiesto, anche se ne va della propria vita. Solo così quest’ultimo può imparare a camminare a passi misurati, a cantare rispettando un rigido metro, ad avere paura del proprio superiore, a obbedire senza comprendere se l’imposizione ricevuta possieda o meno una morale e ad agire, dunque, secondo gli ordini, senza considerare il significato dell’atto.

È compito primario del Manuale insegnare, ad esempio, «come strisciare»241, ossia come sollevare il corpo da terra, poggiando il peso sugli avambracci e sulla parte inferiore delle gambe, con il fucile posto trasversalmente sulle braccia in modo da impedire alla sporcizia di infiltrarsi nella canna; così come “piantare la lama nel nemico […]”242, dopo averne individuato le varie zone vitali, al fine di

ucciderlo, anziché limitarsi a sconfiggerlo.

Come afferma Malina, in conclusione, la peculiarità - o «pregio» - del manuale del corpo dei Marines è fondamentalmente “quello di indicare i punti più vulnerabili, quelli dove né l’arte né i Sacri Testi né i processi evolutivi offrono una sicura terapia per la bestia malata che è in noi”243.

239 Ivi, p. 89. 240 Ivi, p. 90. 241 Ivi, p. 91. 242 Ibidem. 243 Ibidem.

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IV.2 UNO SGUARDO SULLE COMPONENTI TECNICHE DELLA PIÈCE

Per quanto riguarda una prima analisi di La Prigione, è necessario soffermarsi sui vari aspetti tecnici che hanno caratterizzato la messa in scena della pièce e il suo conseguente svolgimento.

I personaggi che prendono parte al dramma possono essere suddivisi in tre raggruppamenti: le guardie, i prigionieri e i due barellieri che rivestono un ruolo secondario, in quanto faranno una breve comparsa al termine della messinscena.

I componenti del primo gruppo sono, dunque, quattro giovani uomini, di età compresa tra i diciannove e i trent’anni, che occupano una posizione di superiorità grazie ai gradi che possiedono appuntati sull’uniforme. I loro nomi sono Tepperman, Grace e Lintz, mentre l’ultimo tra loro, nonché il maggiore per età e gradi, ovvero il Capoguardia, viene denominato a partire dal proprio ruolo.

Dalla parte opposta, in subordine rispetto a questi si trovano i prigionieri. Essi sono undici e, come è possibile leggere nella didascalia introduttiva, hanno il gravoso compito di formare “una specie di campione della società americana”.244

Come si potrà osservare nell’analisi successiva, inoltre, i detenuti sono soggetti a un meccanismo di spersonalizzazione che li conduce a sostituire il proprio nome di battesimo con un numero cardinale. Si tratta, infine, di uomini molto giovani che hanno, paradossalmente, la medesima età dei loro superiori.

La scenografia è concreta e semplice, poiché essenziali sono gli oggetti di arredo che la compongono. Essa ha il compito di rappresentare l’interno di un edificio austero qual è la prigione e, dunque, vi è previsto l’utilizzo di brandine, armadietti in ferro, filo spinato per delineare i confini, e di una scrivania come sede per i superiori.

Tuttavia, occorre focalizzare l’attenzione su un elemento scenografico in particolare che, presente durante l’intero svolgimento della pièce, acquisisce una valenza metaforica. Si tratta di semplici segni bianchi tracciati sul pavimento della Prigione, che rappresentano la naturalità con cui viene inflitta la tortura. Sono i punti designati dalle autorità, oltre i quali non è possibile andare e, con una tale funzione potrebbero ricollegarsi a un antico tabù, non privo di analogie psicologiche e mitologiche.

Judith Malina associa questi segni a un’altra nota linea invalicabile: il Cerchio Magico, che solitamente è disegnato dallo stregone intorno alla vittima, la quale risiede impotente al centro di esso mentre l’incantesimo viene tessuto intorno a lei. L’autorità antica e quella nuova dimostrano, in tal modo, di possedere la convinzione della vittima nelle proprie mani, che rende reale ciò che è irreale. È credendosi intrappolata che questa termina per esserlo concretamente.

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In tal senso, Malina cita l’opera di Paul Goodman dal titolo Tracciare la linea, in cui l’autore scrive: “Nella società commista di coercizione e di natura, il nostro atto caratteristico consiste nel Tracciare la linea oltre la quale non possiamo cooperare. […] Eppure ciascuno di noi ha l’impressione che tutto dipende dal luogo dove traccia linea! Ciò perché questi particolari sono la chiave simbolica delle sue forze represse”.245

Gli uomini della Prigione, dunque, stabiliscono il confine sulla linea bianca, oltra la quale inizia il dolore. Essa, “oltre la quale non possiamo cooperare”246, è tracciata sia dal prigioniero che dalla

guardia, la cui sofferenza costituisce il vero problema. Goodman prosegue, affermando, infatti:

Un uomo libero non si porrebbe tali problemi; non sarebbe costretto alla fine a tracciare una linea in quelle assurde condizioni che egli ha sdegnato fin dal principio…

Nessuna linea tracciata potrà mai essere sostenibile sul piano della logica. Ma la retta via che allontana da ogni linea si rivelerà più chiaramente passo per passo e colpo per colpo247.

Dal punto di vista dell’illuminazione, non sono presenti grandi effetti o giochi di luce, coerentemente con la scenografia e l’ambiente austero della Prigione, ma soltanto la tendenza a rappresentare, attraverso questa, le varie fasi del giorno.

All’inizio della prima scena, che si svolge durante la notte, si ha il semplice utilizzo di un ‘riflettore a uomo’ che, con un’unica luce colorata, illumina la scrivania dove risiedono i tre superiori, focalizzando l’attenzione del pubblico unicamente su di loro. Tutto intorno è buio, poiché la fioca illuminazione segue solamente i movimenti dei tre uomini, per poi concentrarsi su quelli di uno, il maggiore Tepperman, che darà avvio all’azione, affiancato dall’altro superiore, Grace che gira un interruttore posto sulla parete a fianco della scrivania.

In questo preciso istante, ha tuttavia luogo un fenomeno scioccante sia per gli attori che per il pubblico: la scena viene di colpo inondata di luce viva, bianca ed elettrica e, contemporaneamente, Tepperman scaglia il coperchio a terra in mezzo al recinto, con grande fracasso. Dunque, in tal modo lo shock visivo, accompagnato da quello acustico, introduce la pièce, mostrando al pubblico il tipo di clima e la brutalità alle quali sta per andare incontro.

Soltanto a partire dalla scena successiva, una luce più ‘delicata’, seppur vivida, generata da fonti luminose ‘nascoste’, si spande nel buio dalle finestre e dalla porta di ingresso all’interno dando la

245 Paul Goodman, Tracciare la linea, Random House, New York, 1962, in Judith Malina, “Note di regia” …, cit., pp.

102-103.

246 Ivi, p. 103. 247 Ibidem.

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sensazione del sorgere del sole. D’ora in poi l’illuminazione sarà presente costantemente sulla scena, in quanto l’intera pièce avrà luogo durante la medesima giornata.

L’azione vera e propria di La Prigione, dunque, ha inizio con due atti contraddistinti da un alto tasso di brutalità che generano uno shock nei presenti. È possibile pertanto anticipare che il movente di ogni gesto nel dramma è l’odio, a cui le vittime risponderanno con la paura e con un conseguente annullamento della propria umanità.

Esse sono, ovviamente, i prigionieri, la cui giornata illustra una “scarsezza di attività umana”248.

Attraverso i loro movimenti, ‘automatizzati’ e monotoni, traspare la figura dell’essere umano ridotto al minimo e confinato nei propri bisogni. Egli si alza, si lava, esegue la pulizia dei locali, urina, mangia, fuma, è perquisito, lavora, mangia, è frugato, lavora o pulisce il suo posto alla perfezione, mangia, scrive una lettera, fa la doccia, si rade e dorme. Talvolta, lascia la Prigione per poi rientrarvi, scatta o marcia e si vede sfuggire le giornate di vita. Ogni azione, dunque, convoglia un più grande fardello di umana sofferenza e, soprattutto, maggiori indizi della sua dignità soffocata.

All’interno di questa grande monotonia fattuale, emergono tuttavia ulteriori elementi di shock che traumatizzano e scuotono i presenti, tra i quali ritengo necessario analizzare quegli atti di violenza e quei colpi che i superiori assestano ai detenuti, come a voler sottolineare quella gerarchia che tiene loro distinti. Attraverso questi è, dunque, possibile definire il rapporto di distanza fisica tra i soggetti che prendono parte alla pièce.

Quando viene sferrato il primo pugno nella Prigione ancor prima dell’alba e il prigioniero freme di dolore e abbandona vacillando il proprio attenti superbamente rigido, la contrazione del suo corpo si ripete all’interno della fisicità dello spettatore e si misura, dunque, nel suo corpo. Come afferma Judith Malina, questo momento di trauma fisico corrisponde all’istante in cui l’uomo diventa vulnerabile.

La mente umana […] non può frenare la dolcezza dell’anima mentre chiede misericordia per il corpo. Lo spirito più gentile emerge per un istante nel rosso bagliore che accompagna il dolore di un colpo e intercede con l’uomo […] perché faccia il possibile per risparmiare al corpo amato il protrarsi, il ripetersi, il perdurare della pena249.

Il Marine definisce ciò codardia e torna, dunque, a porsi sull’attenti non appena il dolore si attenua quanto basta perché la sua volontà condizionata riacquisti il pieno dominio del suo fisico.

248 Ivi, p. 91. 249 Ivi, pp. 98-99.

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È possibile analizzare da vicino l’atto del colpire, facendo notare che esso si suddivide in quattro microsequenze, che prevedono un Momento iniziale, antecedente all’Impatto; il Momento dell’Impatto stesso; il «Momento di Ripresa» e il “Primo Momento del Nuovo Status Quo”250.

Dunque, secondo la successione completa, il prigioniero, prima di essere colpito, fa ricorso alla propria volontà e la concentra al fine di valersene, come se si trovasse alla vigilia di una battaglia, giungendo a temprarsi sia muscolarmente che psicologicamente. La guardia, da parte propria, si predispone a fare in modo che l’impatto del colpo sia efficace, preoccupandosi di far sì che, nel caso di un colpo, esso provochi un dolore e non una mutilazione. Egli dovrà pertanto calcolare fino a che punto sarà in grado di lasciarsi andare e, al contempo, controllarsi. Il Marine, a sua volta, si prepara a far male al superiore per quel tanto che ne ha il coraggio, tendendo i muscoli del pugno, delle braccia, del dorso, del torace e delle gambe per infliggere il colpo.

Nel momento in cui ha ‘finalmente’ luogo l’impatto, il detenuto perde la rigidità totale perché ormai riconosce di potersi salvare solamente grazie alla propria capacità di recupero che, tuttavia, viene considerata un attributo femminile, dunque vile, da utilizzare perciò rapidamente e superficialmente. Questo istante ha una durata breve, costituendo, bensì, l’apice del momento vulnerabile. Il passaggio sottilissimo tra il momento d’impatto e quello di ripresa fa da perno dapprima sulla volontà, mentre la mente si riprende dal proprio attimo di incoscienza.

Dunque, essa, col raccogliersi delle forze, si concentra nei muscoli del corpo mentre fa ritorno alla posizione rigida che la risolutezza dell’uomo gli impone. In questo istante cruciale, il dolore provato è, secondo Malina, catartico251. Il prigioniero, nel momento in cui viene colpito è vulnerabile e tenero e, dal punto di vista della mimica, il suo sguardo appare tradire il grido di agonia del fanciullo al primo vagito. La guardia, d’altro canto, una volta che ha potuto sferrare il colpo, si rilassa, tenendo tuttavia conto del pericolo di lasciarsi andare troppo a lungo, per timore che la vittima risponda non con la sconfitta, bensì con l’ira. Dunque, egli sta all’erta, attendendo le reazioni del prigioniero, studiandolo “con l’occhio del serpente”252 e suscitando nello spettatore sentimenti forti quali la pietà

e il terrore.

Nel momento in cui riesce a riprendersi, il detenuto incarna una volontà che prende il sopravvento: il suo sistema rigido, in lotta con il bisogno animale trionfa, perché, fondamentalmente, egli è un Marine. La guardia osserva questo processo con una certa soddisfazione, mantenendo attivo l’intento di colpire l’avversario, nel caso in cui questa parte dell’azione non si svolga come è necessario.

250 Ivi, pp. 99-100. 251 Ivi, p. 99. 252 Ibidem.

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Si tratta di un preciso momento, detto di «squadratura»253, in cui la speranza stessa, emersa dai sentimenti umani durante il colpo, giace irrealizzata. Tuttavia, non esiste alcuna disperazione nei confronti della vittima, ma piuttosto un senso di conquista: egli è stato abbattuto ma ha potuto riprendersi, ritrovando in tal modo la propria virilità. Secondo Judith, il pubblico, nel vederlo così sconfitto nella sua vittoria, sarebbe intenzionato a reagire alla sua disperazione e a rivoluzionare al fine di manifestargli solidarietà ed empatia.

Il prigioniero, dunque, si erge eretto e fiero, in seguito alla percossa ricevuta poiché, sebbene non abbia vinto, è tuttavia riuscito a sopravvivere. La guardia è, però, ancora all’erta per l’eventualità di una ribellione, in quanto sospetta sempre che il sottoposto possa reagire e colpirla, soprattutto in seguito alla percossa. Ella deve, pertanto, mantenere il medesimo atteggiamento il più a lungo possibile, poiché l’urto l’ha resa insicura: in tal senso si spiegano i suoi cambiamenti di umore che spaziano da un’allegria esagerata fino all’ira più profonda.

Adesso lo spettatore può far ritorno al mondo in cui tale colpo e tale dolore viscerale esistono, come accade, ad esempio, durante le gare di pugilato, in cui entrambi gli uomini lottano e la simpatia deve andare perduta nella vendetta che prontamente viene assestata, secondo quella regola universale per cui la percossa appartiene al più debole.

Per concludere, una sequenza del genere si ripete ogni qualvolta che ha luogo uno scontro tra superiore e subordinato: la sua analisi è molto importante, in quanto permette al lettore, allo spettatore e a chiunque intenda approcciarsi a tale pièce di comprendere i meccanismi perversi che sottostanno al rapporto tra la guardia e il prigioniero. Secondo Judith Malina, infatti, tale relazione costituisce “la pietra angolare umana del dramma”254

IV.3 INTERPRETAZIONE E ANALISI TESTUALI E SCENICHE

Atto I

Scena 1

Dalla didascalia che introduce questa prima scena, si apprende che sono le quattro del mattino e che essa si svolge all’interno della Prigione, in cui sono visibili il Posto Uno, il Posto Due e il recinto interno. Tuttavia, nel momento in cui si alza il sipario, la scena è totalmente avvolta nel buio: solo

253 Ivi, p. 100. 254 Ivi, p. 103.

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una pallida luce colorata illumina il soldato scelto, Tepperman, che sta parlando a bassa voce con il caporale Grace, il carceriere.

Tepperman entra nel dormitorio dopo aver fatto scattare la serratura e, con un manganello che ha estratto dal cinturone, batte leggermente sulla testa di un prigioniero addormentato, detto ‘Due’. Questi viene, perciò, svegliato e convocato a rapporto alla scrivania del carceriere, con l’intimazione di non proferire parola.

Sin dalle prime battute pronunciate principalmente da Tepperman con fare intimidatorio, è possibile notare una forte spersonalizzazione dei prigionieri. Innanzitutto, essi sono identificati attraverso dei numeri; e dalla battuta di rimprovero dell’uomo: “Due. Mettiti le scarpe. Non sai che

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