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PENITENZIARIA IN ITALIA

SOMMARIO: 2.1 – Introduzione; 2.2 – Il quadro normativo nazionale di riferimento; 2.3 – L’organizzazione del Servizio Sanitario Penitenziario prima del DPCM 1 aprile 2008; D.P.C.M. 1 aprile 2008: a che punto siamo?; 2.5 – Conclusioni.

§. 2.1 - Introduzione

Nella realtà nazionale il settore sanitario si configura come un ambito in cui la legislazione assume un ruolo centrale nella definizione delle strutture organizzative formali. Osservando il “quadro normativo” del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) ed in particolare di quello in ambito detentivo, emerge un settore fortemente “istituzionalizzato”. Le forze istituzionalizzanti che agiscono nel mondo sanitario non hanno natura solo normativa o di regolamentazione, ma sono anche legate alla presenza di logiche istituzionali ovvero al sistema di cognizioni e di costruzioni simboliche che sono a disposizione degli attori del sistema e che contribuiscono a definire le forme organizzative e le regole di funzionamento (Friedland e Alford, 1991).

Il problema della sanità in carcere è attualmente fra i temi più dibattuti sia nel mondo sanitario che in quello della giustizia penale, contestualmente alle criticità legate al sovraffollamento negli istituti di pena. Esso chiama in causa due ordini di fattori: da un lato, il diritto alla salute, sancito dall’art. 32 della Costituzione Italiana, ribadito dall’art. 1 del D. Lgs. 230/99, secondo il quale “i detenuti e gli internati hanno il diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, all’erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate”; dall’altro le risorse, umane ed economiche, necessarie per la sostenibilità di efficaci modelli assistenziali e per l’attuazione di politiche gestionali che tengano conto delle peculiarità della realtà penitenziaria. Senza voler ridurre la complessità della problematica in questione, è chiaro che la principale sfida della sanità penitenziaria si

gioca fra la tensione verso la prevenzione e la tutela della salute, che non può incontrare i confini delle mura carcerarie ed i limiti imposti dalla scarsità delle risorse. Non si tratta di una contrapposizione meramente teorica, fra un principio etico e/o umanitario, ed un ritorno all’effettiva realtà del sistema sanitario penitenziario italiano, poiché entrambe le parti in causa sono orientate nella stessa direzione, solo ad una velocità differente. Le risorse risultano infatti, spesso non in grado di sostenere tutte le implicazioni in cui il “diritto alla salute” dei detenuti si declina, dall’esigenza di strutture che possano garantire, in caso di patologie mediche e psichiatriche, un ottimale connubio tra il perseguimento di standard soddisfacenti di tutela della sicurezza dei ristretti, una politica efficace di reinserimento nella società civile e la necessità di garantire una continuità di cure prima e dopo l’esperienza carceraria, compatibilmente con le politiche di razionalizzazione e contenimento della spesa farmaceutica. Sulla sanità penitenziaria si sono succedute nel tempo, e secondo esigenze e modelli espressi dalla società, leggi che hanno avuto come obiettivo quello di assicurare la salute dei detenuti entro i confini ed i limiti imposti dalle esigenze di sicurezza del regime detentivo, cercando contestualmente di rendere l’assistenza sanitaria in carcere di pari livello rispetto a quella prevista per i cittadini liberi; tale obiettivo è stato purtroppo, spesso, “compresso” dalla contestuale necessità di individuare ed implementare politiche gestionali dei reclusi nell’ottica di una predominante cultura “custodialistica”, incentrata sull’esclusivo perseguimento di adeguati standard di ordine e sicurezza all’interno delle strutture penitenziarie, nell’errata convinzione che la domanda di salute della popolazione detenuta potesse essere soddisfatta, con modalità autoreferenziali, dal solo sistema penitenziario. L’obiettivo di questo lavoro è quello di analizzare le principali implicazioni organizzativo – gestionali determinate dall’emissione del DPCM 1 aprile 2008, soprattutto cercando di cogliere i “driver” critici che non hanno consentito, allo stato attuale, di procedere ad un’implementazione effettiva del processo di riforma che, ormai da decenni è rintracciabile nei diversificati interventi normativi che si sono succeduti in materia. Pertanto, risulta necessario ripercorrere le principali tappe storiche nell’evoluzione della normativa, fino all’emanazione del DPCM 1 aprile

2008, provvedimento destinato a “rivoluzionare” il sistema sanitario carcerario italiano, ma che allo stato è fermo al palo in termini di effettiva applicazione, per una serie di cause che saranno analizzate alla luce del dibattito che gli addetti ai lavori hanno intrapreso nell’ultimo decennio senza un vero e proprio approdo a livello scientifico ed accademico. Al fine di cogliere le criticità alla base del sostanziale “fallimento normativo” sull’ effettiva implementazione operativa di modelli organizzativi e gestionali in grado di garantire il diritto alla salute del paziente/detenuto si è scelto di procedere ad un’analisi sistematica della documentazione (circolari, disposizioni, note ecc.) emesse dall’amministrazione della Giustizia, al fine di coglierne gli orientamenti strategici di fondo, oltre che alla visione di fonti documentali sulla base di indagini giudiziarie espletate dalla Corte dei Conti nel periodo tra il 1999 ed il 2004. Il percorso metodologico seguito, pertanto, si è basato su una sostanziale sistematizzazione del flusso documentale a disposizione, reperito presso le singole istituzioni interessate, mediante la ricerca di dati sia di natura qualitativa che quantitativa che permettessero di tracciare un quadro “matriciale” in grado di porre in correlazione l’individuazione delle criticità, all’origine della mancata attuazione del processo di riforma, con le dinamiche del flusso “emergenziale” dei ristretti che negli ultimi anni hanno caratterizzato il sistema penitenziario italiano ed europeo. L’analisi delle criticità dovrà costituire il punto di partenza per l’individuazione di nuovi modelli organizzativi in grado di porre al centro il paziente/detenuto, sicuramente in una nuova logica di percorso assistenziale integrato (Grandori, 1995) recuperando i contributi in tema di “process

management” e “process reengineering” (Hammer e Champy 1993; Devenport

1993), quali frame-work di riferimento per comprendere sia la complessità del processo produttivo sanitario che si origina in tali contesti, nonchè le interdipendenze che si instaurano tra i diversificati flussi di attività (Camuffo, 1997). Sicuramente, la sanità penitenziaria necessita di contributi scientifici in ambito accademico; ciò è testimoniato dalla scarsa letteratura, allo stato, esistente in materia, (Sangiacomo M., Ianni L., Degrassi F., D’Urso A. in Mecosan, Anno XVIII, n.° 72/ 2009), e dai dibattiti, attualmente in corso, soprattutto tra i “practioners” del settore (vedi atti Convegno

Nazionale Simspe, 2007; Convegno Nazionale Amapi, 2009), per il quale si assiste ad un processo del tutto peculiare nel nostro Paese, seppur consolidato in ambito internazionale, in cui la domanda di ricerca originatasi nel mondo dei “practioners” è destinata a collocarsi con assoluta legittimazione in ambito accademico.

§. 2.2 - Il quadro normativo nazionale di riferimento.

Da una lettura sistematica del quadro legislativo della sanità penitenziaria emerge con chiarezza che i provvedimenti che si sono succeduti nel corso degli ultimi decenni sono stati caratterizzati da un fondamentale comune denominatore: rendere l’assistenza sanitaria in carcere di pari livello a quella prevista per i cittadini liberi. L’excursus normativo ci consentirà di capire le singolari asimmetricità che hanno caratterizzato questo particolare settore, al fine di facilitare l’individuazione delle criticità che, oggi, impediscono il processo di attuazione della riforma concretizzatasi con l’emissione del DPCM 1 aprile 2008.

La Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali ( United Nations, 1966) sancisce il diritto, per tutti i cittadini, di ricevere prestazioni sanitarie secondo i massimi standard raggiungibili per la tutela della salute fisica e mentale. I detenuti, come tutti gli esseri umani, hanno il diritto fondamentale di godere di buona salute e di ricevere standard di assistenza sanitaria almeno equivalente a quelli forniti a tutta la collettività.

Nell’ambito di un più vasto intervento riformatore riguardante l’intero assetto del sistema assistenziale pubblico, nel 1998 inizia la riorganizzazione del Sistema Sanitario Nazionale (S.S.N.) che coinvolge anche l’amministrazione penitenziaria, che fino ad allora, seppur destinataria di ripetuti interventi legislativi (R.D. 1930; Legge 740/70; Legge 354/75; L. 833/78), quest’ultimi non avevano inciso in maniera significativa sugli assetti organizzativi del sistema. Infatti prima dell’intervento legislativo del 19981, all’amministrazione penitenziaria era stata demandata la

11 Legge n.° 419 del 30 novembre 1998 recante la delega al Governo ad emanare uno o più decreti

regolamentazione “amministrativa” della salute dei detenuti, in un’ottica esclusivamente emergenziale, in relazione alle particolari criticità che storicamente hanno interessato il mondo penitenziario, originando di fatto un singolare processo di “amministrativizzazione” della materia, legittimato dall’emissione di una sentenza del Consiglio di Stato, sent. n.° 305 del 7/7/1978, che nell’ambito di una scarsa chiarezza delle suddette disposizioni legislative, confermò l’esclusiva competenza del Ministero della Giustizia – D.A.P. – nella tutela della salute delle persone recluse, ritenendo tale assistenza “tra i compiti riservati allo Stato, da svolgere con le preesistenti strutture

del servizio sanitario penitenziario….” .

Con l’emanazione della legge 419/1998, il Legislatore delineò le linee strategiche per l’avvio del processo di riordino del servizio sanitario penitenziario, mediante la previsione di un progressivo trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale, di risorse umane e di strutture del Ministero della Giustizia - D.A.P. - , con il duplice obiettivo di perseguire non solo efficaci ed efficienti livelli nell’erogazione delle prestazioni sanitarie all’interno delle strutture penitenziarie, ma di garantire condizioni dignitose ed umane ai detenuti, nel rispetto del dettato costituzionale e della consolidata normativa internazionale in materia. Risultò evidente la necessità di procedere all’attivazione di politiche gestionali orientate alla riduzione dei rischi connessi alla realizzazione di standard “accettabili” in termini di qualità ed efficacia del servizio sanitario erogato alla popolazione carceraria. In attuazione alla Legge Delega 419/98, fu di fondamentale importanza l’emissione del Decreto Legislativo n.° 230 del 22 giugno 1999, che rappresentò un passo decisivo per l’emanazione dei successivi decreti di riordino della medicina penitenziaria, compreso il DPCM 1 aprile 2008. Dalla lettura del D,Lgs 230/1999, emerge una linea programmatica, assolutamente innovativa e fortemente discontinua rispetto alla visione autoreferenziale e poco manageriale che aveva storicamente contraddistinto il servizio sanitario penitenziario. Le linee di azione tracciate dal D.Lgs 230 /1999, meritano di essere, di seguito evidenziate, in considerazione delle inevitabili ripercussioni che le stesse avrebbero avuto sui successivi processi di riforma :

- l’amministrazione penitenziaria deve provvedere alla sicurezza dei detenuti e degli internati;

- il passaggio di competenze deve avvenire a costo zero;

- gli obiettivi per la salute dei detenuti e degli internati devono essere precisati nei programmi delle Regioni, delle ASL e realizzati mediante l’individuazione di specifici modelli organizzativi, differenziati in rapporto alla tipologia degli istituti penitenziari e delle strutture minorili, ubicati in ciascuna regione.

Il D. Lgs 230/99 può considerarsi il primo tentativo di codificazione normativa in merito all’individuazione di criteri per la ripartizione delle attività di programmazione, finanziaria ed operativa, fra Stato, Regioni, Comuni, Asl, Istituti Penitenziari; la normativa in esame evidenziava la necessità di individuare principi e regole che consentissero un’equa distribuzione delle responsabilità per ciascun Ente. Venne ribadita, per l’ennesima volta, la “parità di trattamento e la piena uguaglianza dei diritti rispetto ai cittadini liberi”; si dispose il transito immediato delle funzioni relative alla prevenzione, all’assistenza e cura dei detenuti tossicodipendenti ed il trasferimento delle altre funzioni sanitarie, al termine di un periodo di sperimentazione da realizzarsi in alcune regioni. Il decreto ministeriale del 20 aprile 2000 confermò la sperimentazione, da svolgersi in tre regioni (Toscana, Lazio e Puglia), con lo scopo di acquisire conoscenze utili ad ottimizzare il passaggio delle funzioni sanitarie svolte dal Ministero della Giustizia – Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria – al Servizio Sanitario Nazionale, mettendo in atto forme di collaborazione fra le strutture penitenziarie e quelle sanitarie ubicate nei citati territori regionali. Tale fase fu avviata in ritardo rispetto ai termini stabiliti, tanto che il successivo decreto legislativo 433 del 22 dicembre 2000 prorogò il termine per completare le attività sperimentali e, mediante la partecipazione di altre regioni e province autonome , predispose l’ingresso dell’Emilia Romagna, della Campania e del Molise. Il d.lgs. 230 dettò anche le linee essenziali per l’attuazione del progetto obiettivo (art. 5), da svilupparsi in tre anni, con indirizzi specifici finalizzati ad orientare il Servizio Sanitario Nazionale verso il “miglioramento

modelli organizzativi, anche di tipo dipartimentale, da differenziare secondo la tipologia di istituto. Inoltre, furono definite le linee guida finalizzate a favorire, all’interno delle strutture penitenziarie, lo sviluppo di modalità sistemiche di revisione e valutazione dell’assistenza erogata, assicurando l’applicazione di livelli uniformi, essenziali ed appropriati di assistenza. Bisogna evidenziare che già prima dell’emanazione del D. Lgs 433/2000 vi fu la pubblicazione del progetto obiettivo per la salute in ambito penitenziario, varato con il decreto ministeriale del 21 aprile 2000, in cui furono indicati i settori prioritari di intervento per il Servizio Sanitario Nazionale: prevenzione, assistenza medica generica, medicina d’urgenza, malattie psichiatriche, tossicodipendenza, problemi degli immigrati, malattie infettive, assistenza ai minori, attività di riabilitazione. Tra gli obiettivi specifici da realizzare fu prevista una rilevazione epidemiologica dello stato di salute della popolazione detenuta ed internata, dei rischi, della morbilità e delle cause di morte, al fine di rendere disponibile al Servizio Sanitario Nazionale ogni informazione utile per una corretta programmazione ed efficace azione di governo delle attività di prevenzione, di cura e riabilitazione. Il compito di precisare gli indirizzi da adottare dalle Regioni per l’elaborazione dei relativi piani sanitari, fu affidato ai Ministeri della Salute e della Giustizia , di concerto con il Tesoro e d’intesa con la Conferenza Unificata Stato – Regioni. Sulla base della normativa esaminata, al Ministro della Salute fu richiesto di inserire annualmente, nella Relazione sullo stato sanitario del Paese, un apposito capitolo sull’assistenza sanitaria nel sistema carcerario. E’ opportuno sottolineare che con l’emissione del D.Lgs 230/99 ci fu una forte accelerazione delle procedure per il passaggio al S.S.N. delle funzioni sanitarie relative ai “settori della prevenzione e della assistenza” destinati ai ristretti tossicodipendenti, effettivamente avvenuta con decorrenza 1 gennaio 2000, in considerazione delle criticità gestionali che tale tipologia di detenuti comportava per il servizio sanitario penitenziario. E’ però nel 2001, con la modifica del Titolo V della Costituzione, che vengono formalmente affidate alle Regioni, competenze in tema di organizzazione dell’assistenza e della salute attraverso il Servizio Sanitario Regionale (SSR). Vennero stabiliti “….la determinazione dei livelli essenziali (Lea) delle prestazioni

assistenziali da garantire in tutto il territorio nazionale…”, conferendo alle “ Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato….”. Non figurando la Sanità Penitenziaria tra le materie riservate allo Stato, le Regioni sono state chiamate ad intervenire in merito, superando divisioni di competenza e conseguenti frammentazioni degli interventi. L’orientamento fu quello di assicurare l’assistenza sanitaria in carcere attraverso una piena partecipazione e l’attivazione di sinergie tra gli attori principali (Ministero della Salute, Ministero della Giustizia e Regioni) del sistema per l’implementazione di dinamiche organizzative finalizzate all’individuazione di percorsi assistenziali fondati sull’integrazione dei servizi. Già dall’analisi normativa espletata fino a questo momento, emerge con chiarezza che la realizzazione dell’assistenza sanitaria in carcere deve essere rivolta ad evitare la sovrapposizione o la duplicazione di interventi, per una corretta gestione delle risorse e la definizione dei rispettivi ambiti di competenza. Negli stessi anni infatti, presso l’ex Ministero della Sanità venne istituito il “Comitato per il monitoraggio e la valutazione della fase sperimentale” a cui fu affidato il compito di coordinare e controllare i lavori in corso. Con l’emissione del decreto interministeriale del 2002, fu nominata la “Commissione mista” di studio per il rinnovamento del Servizio Sanitario Penitenziario. La Commissione evidenziò la mancata e tardiva attuazione del trasferimento delle funzioni, la resistenza del personale coinvolto in tali passaggi, l’erosione delle risorse e la necessità di prolungare la sperimentazione; a tal fine elaborò un ventaglio di proposte che dovevano costituire le basi per una bozza di disegno di legge.

In attuazione alle disposizioni contenute nel d. lgs 230/99, la Corte dei Conti – sezione centrale di controllo sulle amministrazioni dello stato - nel periodo tra il 2001 ed il 2004 - espletò delle indagini per verificare lo stato di attuazione della riforma. Particolarmente interessante è quanto emerge dalla Relazione alla Delibera 23/2005 della medesima Corte, in cui vengono analizzate le circostanze, nei limiti in cui sono state rese note, dalle quali si evince il sostanziale abbandono della prospettiva di ripartire, secondo l’indicato modello normativo, le competenze fra il Ministero della Giustizia ed il Servizio Sanitario Nazionale, fattore che,

inevitabilmente, portò alla mancata attuazione di gran parte della riforma. Dal citato rapporto emerse la scarsa attenzione dedicata, da ambedue le amministrazioni, all’esecuzione della “fase sperimentale”, ritenuta essenziale dal d.lgs. 230/1999 per trasferire con gradualità i compiti sanitari dalla Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale, testimoniata anche dal fatto che il Ministero della Giustizia dichiarò formalmente l’impossibilità di fornire elementi sull’evoluzione e sull’esito della sperimentazione. Tale circostanza impedì di approfondire l’analisi di un tema tanto importante per l’attuazione della legge del 1998; dal rapporto della Corte dei Conti si cita testualmente: “…i fatti che hanno determinato una anomalia tanto rilevante risultano privi di una spiegazione ragionevole….”. Peraltro da alcuni verbali trasmessi dal Ministero della Salute alla Corte dei Conti , si rileva l’intento di sospendere l’attuazione della riforma nella parte in cui sono illustrati gli esiti dei lavori condotti presso il Comitato per il monitoraggio della sperimentazione. Tali documenti attestano, inoltre, che è mancato un indirizzo chiaro nelle attività preliminari al passaggio delle funzioni, nonché un adeguato dialogo istituzionale di primo livello fra i Ministeri della Salute (ex Sanità) e della Giustizia. Anche tra gli atti esaminati dalla Sezione di Controllo sulle amministrazioni dello Stato della Corte dei Conti, è stato possibile appurare che nel medesimo periodo in cui presso il Ministero della Salute, erano in corso i lavori del “Comitato misto Salute – Giustizia” (insediato per monitorare i risultati della sperimentazione), fu costituita ed iniziò l’attività (presso il Ministero della Giustizia) una “Commissione mista Giustizia – Salute”, con il compito di elaborare un disegno di legge diretto tra l’altro a ricondurre il servizio presso l’amministrazione penitenziaria. Ovviamente, non risulta che lo schema di d.d.l. abbia iniziato l’iter parlamentare e per questa ragione il documento si configura ancora oggi quale espressione di un orientamento politico, il che ha indotto a non sottoporlo a valutazioni tecniche e di compatibilità finanziaria. Da quanto finora illustrato risulta con enorme evidenza il contorto cammino della sanità penitenziaria e quanto sia complesso individuare assetti organizzativi in grado di porre la salute del detenuto al centro della progettazione delle prestazioni sanitarie in carcere.

La Legge finanziaria del 2007 (art. 2, commi 283 e 284) ha provveduto ad un riordino delle funzioni sanitarie penitenziarie nell’ottica di attuazione delle linee programmatiche della riforma delineata dall’evoluzione della citata normativa. Il comma 283, di fondamentale importanza, prevedeva l’emanazione di un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, che doveva avvenire entro tre mesi dall’entrata in vigore della citata Legge, che finalmente doveva dare attuazione definitiva al processo di riforma.

Il DPCM 1 aprile 2008, è stato, quindi, emanato in attuazione del comma 283 della Legge Finanziaria del 2007; oltre che diretto a disciplinare le modalità del passaggio del personale sanitario alle ASL territorialmente competenti, contiene le linee di indirizzo per interventi negli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) nelle case di cura e custodia e le linee di indirizzo per gli interventi del SSN a tutela della salute dei detenuti e degli internati negli istituti penitenziari, nonché dei minorenni sottoposti a provvedimento penale.

La riforma perfezionata dal DPCM del 2008, può essere cosi sintetizzata: le funzioni sanitarie sono state interamente trasferite al Servizio Sanitario Nazionale, e con esse, le risorse umane e finanziarie, i beni strumentali, fino ad allora gestiti dal Ministero della Giustizia; il personale dipendente di ruolo, in servizio alla data del 15 marzo 2008, che esercitava funzioni sanitarie nell’ambito dell’amministrazione della Giustizia, è stato progressivamente trasferito “ope legis” alle ASL nei cui territori sono ubicati gli istituti penitenziari ed i servizi minorili. Le attrezzature , gli arredi, i beni strumentali afferenti alle attività sanitarie di precedente proprietà dei citati dipartimenti sono stati trasferiti, in base alle competenze territoriali, alle ASL,