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Pensare in inglese, scrivere in italiano: una traduzione contra legem?

Il titolo volutamente un po’ provocatorio del mio intervento vuo- le richiamare l’attenzione su un problema posto dalla redazione mul- tilingue degli atti normativi dell’Unione europea, un problema che – credo – non sia spesso considerato tra quelli, davvero moltissimi, che la traduzione giuridica pone2.

Si parla spesso di concetti giuridici elaborati in una delle lingue di lavoro delle istituzioni comunitarie, ma del tutto intraducibili in altre lingue, oppure traducibili mediante equivalenti semantici o fun- zionali o, ancora, apparentemente traducibili senza particolari pro-

1Professoressa di Diritto processuale civile comparato – Università di Pavia

2La letteratura sulla traduzione giuridica è sterminata. occupandosi di diritto pro-

cessuale civile comparato, chi scrive vive spesso la condizione di traduttrice “acciden- tale” ma, consapevole della limitatezza delle proprie conoscenze nel campo delle scienze traduttologiche, ritiene inappropriato qualunque tentativo di stilare una bi- bliografia sul tema: di qui, la scelta di limitarsi a segnalare alcune letture che sono ri- sultate particolarmente utili per la stesura di questo contributo, quali I. Richard, La

fidélité en traduction juridique: stratégies de traduction, de l’Anglais vers le Français, de vrais et faux amis, in International Journal for the Semiotics of Law/Revue internationale de Sémiotique jurique 26 (2013) pp. 651-671; M. Cornu et M. Moreau (sous la di-

rection de), Droit de la traduction et traduction du droit, Paris 2011; C. Bocquet, La

traduction juridique. Fondément et méthode, Bruxelles 2008; E. alcaraz, B. hughes, Legal Translation Explained, New York 2002; M. harvey, What’s so Special about Legal Translation?, in Meta: Translators' Journal 47 (2002) pp. 177-185 (consultabile al-

l’indirizzo <http://www.erudit.org/revue/meta/2002/v47/n2/008007ar.pdf>); R. Sacco (sous la direction de), L'interprétation des textes juridiques rédigés dans plus d'une

langue, Paris 2002; J.-C. Gémar, Les enjeux de la traduction juridique. Principes et nuances, in Actes du colloque ASTTI (Berne, 25 septembre 1998), consultabile al-

blemi, ma solo a patto di riconoscere che la traduzione fa riferimento ad un istituto giuridico il cui significato, la cui disciplina sono, nel linguaggio giuridico “di destinazione”, assai diversi dal significato e dalla disciplina che il medesimo istituto ha nell’ordinamento al quale fa riferimento la versione linguistica originaria. Soprattutto con riguardo a quest’ultima ipotesi, gli esempi sono moltissimi. Il più banale, forse, è rappresentato dal termine inglese contract: in- tuitivamente, si comprende che la traduzione italiana non può che essere “contratto”, il che appare del tutto legittimo a condizione di avere ben chiaro che non solo la disciplina del contratto negli or- dinamenti di common law è profondamente diversa da quella de- gli ordinamenti dell’Europa continentale, ma soprattutto che diverso è il substrato culturale su cui la teoria del contratto in un sistema di common law è stata costruita3.

Come ho detto, gli esempi sono molti, ma, visto che io mi oc- cupo di processo civile, vorrei menzionarne un altro proprio tratto dalla procedura, ossia un esempio di termini apparentemente affini, ma la cui traduzione (sempre dall’inglese all’italiano, ma anche dal- l’inglese al francese e allo spagnolo, ad esempio) può creare difficol- tà e incomprensioni: alludo ai termini process, proceeding, procedure. anche in questo caso, la traduzione è semplice solo in apparenza. Pro- cesso, procedimento e procedura hanno nel nostro linguaggio giu- ridico significati specifici e certo non interscambiabili: di qui, la dif- ficoltà di individuare la traduzione che meglio si allinei con i concetti ed i princìpi che sono familiari al giurista italiano.

Un dato che mi preme sottolineare e che, come spero di dimo-

3In argomento, cfr. i saggi raccolti in S. Ferreri (a cura di), Falsi amici e trappole linguistiche. Termini contrattuali anglofoni e difficoltà di traduzione, torino 2010.

strare, ha una specifica rilevanza per il problema che voglio sottoporre alla vostra attenzione, è la finalità alla quale risponde l’elaborazione multilingue degli atti normativi dell’Unione: questa finalità è l’ar- monizzazione del diritto nello spazio giuridico europeo. Ma questa stessa finalità dovrebbe anche essere quella cui tende o dovrebbe ten- dere la traduzione in un contesto multilingue. La norma originaria, qualunque sia la lingua in cui è stata inizialmente formulata, una vol- ta tradotta nelle altre lingue dell’Unione e, soprattutto, una volta tra- sposta nell’ordinamento di tutti gli Stati membri (naturalmente, nei casi in cui la trasposizione è necessaria), dovrebbe produrre i mede- simi effetti giuridici. Ma cosa accade se in uno di questi ordinamenti la norma europea non solo fa riferimento ad un istituto non disci- plinato dal diritto nazionale, ma addirittura ad un istituto che, se in- trodotto ex novo, risulterebbe in contrasto con il diritto vigente?

È questo il problema specifico di cui voglio parlarvi, un problema in cui mi sono imbattuta nei miei studi sulle azioni collettive.

Per chi non è giurista, forse è necessaria una brevissima spiegazione, senza alcuna pretesa di completezza: quando si parla di tutela collettiva (o anche di classe o di gruppo), si fa riferimento ad una particolare forma di tutela giurisdizionale che consente di azionare mediante un unico procedimento le pretese individuali di una pluralità indeter- minata di soggetti ugualmente pregiudicati da una stessa attività il- lecita. Praticamente, si tratta dell’azione proposta e condotta da un soggetto in rappresentanza o, meglio, in nome e per conto del grup- po o della classe di persone che possono lamentare lo stesso pregiu- dizio causato dalla condotta lesiva posta in essere da un medesimo soggetto. I membri della classe subiranno gli effetti della sentenza, come se avessero effettivamente partecipato al procedimento.

pi, le istituzioni europee hanno dedicato particolare attenzione, so- prattutto con riferimento ai diritti di consumatori ed utenti. Si trat- ta di un settore in cui è molto sentita la necessità di una armoniz- zazione, che superi le profonde differenze che esistono nella legi- slazione degli Stati membri. Sul tema, le istituzioni europee (e so- prattutto la Commissione) hanno prodotto vari documenti4; tra que-

sti, uno, in particolare, ha attirato la mia attenzione.

Si tratta di una Raccomandazione della Commissione dell’11 giugno 2013, intitolata «Raccomandazione relativa a princìpi co-

muni per i meccanismi di ricorso collettivo»5. Le raccomandazio-

4La Commissione, pur predicando l’esigenza di elaborare un modello pan-europeo

di azione collettiva (sia inibitoria che risarcitoria), allo scopo di assicurare a tutti i cit- tadini degli Stati membri un identico livello di tutela, manifesta non poche incertezze sulle future strutture portanti di tale modello. Invero, l’unica reale preoccupazione della Commissione sembra quella di scongiurare una imitazione pedissequa della

class action statunitense che, pur essendo in genere considerata come la forma più effi-

ciente di azione di gruppo, può prestarsi in concreto ad essere utilizzata a scopi ves- satori, trasformandosi in un toxic cocktail dagli effetti potenzialmente devastanti per la già fragile situazione economica dell’Unione. In argomento, sia consentito il rin- vio a E. Silvestri, Group Actions «À La Mode Européenne»: A Kinder, Gentler Class

Action for Europe?, in C. B. Picker, G. I. Seidman (eds.), e Dynamism of Civil Procedure – Global Trends and Developments, Cham-heidelberg-New York-Dor-

drecht-London 2016, pp. 203-214; Ead., e Difficult Art of Legal Transplant: e

Case of Class Actions, in Revista de Processo 35 (2010) pp. 99-112.

5Più precisamente, si tratta della Raccomandazione della Commissione dell’11 giu- gno 2013 relativa a princìpi comuni per i meccanismi di ricorso collettivo di natura inibitoria e risarcitoria negli Stati membri che riguardano violazioni di diritti confe- riti dalle norme dell’Unione (2013/396/UE), consultabile all’indirizzo <http://eur-

lex.europa.eu/legal-content/It/txt/PDF/?uri=CELEx:32013h0396&from=I>. Contemporanea alla Raccomandazione è la Comunicazione della Commissione al

Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Co- mitato delle Regioni “Verso un quadro orizzontale europeo per i ricorsi collettivi”

(CoM(2013) 401 final), disponibile all’indirizzo <http://eur-lex.europa.eu/legal- content/It/txt/PDF/?uri=CELEx:52013DC0401&from=It>.

ni, com’è noto, non hanno un’efficacia vincolante nei confronti dei soggetti cui sono rivolte, ma non sono neppure prive di efficacia giu- ridica, in quanto chiariscono il punto di vista dell’organo che le ema- na soprattutto nella prospettiva della sua attività normativa futura e contengono, quindi, suggerimenti rivolti (come nel caso di spe- cie) agli Stati membri per ciò che attiene alla regolazione di un de- terminato settore.

Nella Raccomandazione di cui sto parlando, un passaggio mi sem- bra interessante: è quello dedicato alle possibili fonti di finanziamento delle azioni collettive. La versione italiana della Raccomandazione parla della possibilità che le spese del procedimento siano sostenute avvalendosi di «risorse finanziarie messe a disposizione da un ter- zo»6. Espressioni analoghe si trovano nelle diverse versioni lingui-

stiche che sono stata in grado di consultare.

Perché questa espressione ha suscitato la mia curiosità? La ragione è la seguente: il finanziamento di una controversia civile, individuale o collettiva, ad opera di terzi, ossia di soggetti che non sono parte del procedimento (e, quindi, non sono direttamente coinvolti nel- la controversia) non solo è un istituto non contemplato dal dirit- to positivo italiano, ma è anche un istituto che, molto probabilmente, mai potrebbe essere introdotto in Italia. Quindi, il legislatore, se an- che decidesse di modificare la nostra disciplina dell’azione di clas- se adeguandosi alle indicazioni della Raccomandazione in preda ad un soprassalto di europeismo, dovrebbe confrontarsi con un istituto che, quasi certamente, risulterebbe in contrasto con alcuni princì- pi fondamentali del nostro ordinamento.

Non posso soffermarmi sulle ragioni che, a mio giudizio, im-

pedirebbero l’ingresso nel nostro ordinamento di istituti che con- sentano a terzi di finanziare controversie in cui non sono diretta- mente coinvolti, stipulando con la parte finanziata un accordo in virtù del quale, in caso di esito positivo del giudizio, una fetta co- spicua della somma ottenuta andrà a finire, appunto, nelle tasche del terzo finanziatore. Il discorso sarebbe tecnico e complesso: mi limito a dire che, nel nostro ordinamento, una pluralità di princì- pi, costituzionali e non, impediscono di concepire la tutela giuri- sdizionale come un mercato in cui investire a scopo di lucro, assu- mendo sì il rischio dell’investimento, ma anche acquisendo la pos- sibilità di condizionare e controllare le scelte di strategia processuale della parte finanziata7. ai colleghi giuristi posso dire che, con qual-

che approssimazione, i problemi sottesi all’illegittimità del finan- ziamento di controversie ad opera di terzi sono in parte analoghi a quelli che continuano a rendere vietato il cosiddetto patto di quo- ta-lite tra avvocato e cliente, collegando il compenso del primo al risultato della sua attività, ossia alla vittoria nella causa8.

7occorre sottolineare che il tema non sembra avere suscitato, ad oggi, l’interesse

della dottrina italiana, probabilmente non a conoscenza del fatto che negli ordina- menti di common law (come si dirà più oltre nel testo) il cd. ird Party Litigation

Funding rappresenta una forma di finanziamento delle controversie civili (indivi-

duali o, più spesso, collettive) molto comune. Per questa ragione, sono molto ap- prezzabili le considerazioni svolte da G. M. Solas, Alternative Litigation Funding and

the Italian Perspective, in European Review of Private Law, 24 (2016), pp. 253-270. 8Le alterne vicende del patto di quota-lite nel nostro ordinamento dipendono, al-

meno in epoca recente, dall’affastellarsi di interventi normativi non sempre lineari e di facile coordinamento. Fino al 2006, ossia fino all’entrata in vigore del cd. «Pac- chetto Bersani» sulle liberalizzazioni, le fonti del divieto del patto di quota-lite erano rappresentate dal terzo comma dell’articolo 2233 del codice civile (abrogato), dal- l’articolo 1261 del medesimo codice (tuttora in vigore) e dall’articolo 45 dell’allora vigente codice deontologico forense. Le incertezze interpretative determinate dalla

Quanto ho detto per il nostro ordinamento vale anche, in linea di principio, per una pluralità di altri Stati membri (cito, a titolo di esempio, Francia, Spagna e Portogallo).

Ma allora, perché la Commissione ha inserito nella Racco- mandazione sui ricorsi collettivi il riferimento ad un istituto che difficilmente potrebbe trovare spazio nel diritto di molti Stati membri?

La ragione è semplice: il testo originario della Raccomandazio- ne è stato elaborato in inglese non solo linguisticamente, ma so- prattutto concettualmente. In Inghilterra (come in molti altri or- dinamenti extrauropei di common law) il finanziamento di con- troversie ad opera di terzi non solo è un fenomeno diffuso, ma è an- che un istituto ormai regolato in dettaglio e, addirittura, conside- rato come essenziale per facilitare l’accesso alla giustizia a vantag- gio di coloro che non potrebbero permettersi di sostenere i costi ele-

contraddizione insita nell’abrogazione del terzo comma dell’articolo 2233 del co- dice civile e nella perdurante vigenza dell’articolo 1261 del medesimo codice non possono dirsi completamente superate per effetto delle novità introdotte dalla legge n. 247 del 2012 sulla nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense (articolo 13, comma 4) e dal nuovo codice deontologico forense (articolo 25, comma 2) in materia di compensi spettanti al professionista: apparentemente, le norme appena citate reintroducono espressamente il divieto del patto di quota lite (addirittura configurato come illecito disciplinare), ma l’intera disciplina dei com- pensi (anche nell’interpretazione di una giurisprudenza altalenante) presenta nu- merose «zone grigie», che possono indurre a ritenere che il divieto non sia assoluto. Sul tema, cfr. F. Bottoni, Il ritorno del morto presunto. Considerazioni sul divieto del

patto di quota lite alla luce della nuova disciplina dell’ordinamento professionale, in Rassegna forense xLVI (2013), pp. 27-45; G. Conte, La tormentata disciplina del “patto di quota lite” e le equivoche novità introdotte con la riforma forense, in Con- tratto e impresa (2013), pp. 1109-1121; U. Perfetti, Il compenso dell’avvocato, in Ras- segna forense xLVI (2013), pp. 647-666.

vatissimi del processo inglese9. Chi ha concepito e formulato la Rac-

comandazione, probabilmente, non solo non ha pensato ai problemi di traduzione in altre lingue, ma anche e soprattutto non ha pen- sato ai problemi di compatibilità di un istituto pienamente legit- timo in Inghilterra, ma forse addirittura contra legem in altri ordi- namenti.

In conclusione, spero di aver segnalato uno dei problemi che la redazione multilingue degli atti delle istituzioni europee pone. Si tratta forse di un problema minore, la cui ricorrenza può essere oc- casionale. tuttavia, mi sembra importante segnalarlo, alla luce di quanto ho affermato all’inizio: se la traduzione multilingue degli atti normativi dell’Unione è funzionale all’armonizzazione del di- ritto nello spazio giuridico europeo, non si può ignorare che talvolta è proprio la traduzione multilingue ad ostacolare il processo di ar- monizzazione.

9La letteratura in lingua inglese sul fenomeno del finanziamento di controversie

ad opera di terzi è ormai vastissima: in concreto, il finanziamento può prendere forme diverse, ma sembra indubbio che abbia assunto, negli ordinamenti che lo ammettono, il carattere di un business molto lucrativo, i giudizi sul quale non co- noscono vie di mezzo, in un’alternanza tra condanna implacabile dell’istituto e esaltazione delle sue virtù, nella prospettiva (accennata nel testo) di consentire una più ampia fruibilità della tutela giurisdizionale, spesso preclusa a chi non ha le ri- sorse economiche per permettersela. Per un primo approccio al tema e alle rea- zioni diverse che ha suscitato nel dibattito dottrinale, cfr., ad esempio, J. Kalajdzic, P. Cashman & a. Longmoore, Justice for Profit: A Comparative Analysis of

Australian, Canadian and U.S. ird Party Litigation Funding, in e American Journal of Comparative Law 61 (2013) pp. 93-148; M. Steinitz, Whose Claim Is is Anyway? ird-Party Litigation Funding, in Minnesota Law Review, 95 (2011) pp.

1268-1338; M. de Morpurgo, A Comparative Legal and Economic Approach to

ird-Party Litigation Funding, in Cardozo Journal of International & Comparative Law 19 (2011) pp. 343-411.

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