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Per non concludere: le scritture della camera

Chi voglia, dunque, addentrarsi nello studio delle vicende delle temporalità e del patrimonio arcivescovile milanese, troverà nelle 60 carte superstiti delle imbre-viature di Lanzarotto informazioni e rimandi ad altre carte, che potrà seguire per il periodo successivo con le (non abbastanza valorizzate) lettere di Roberto Visconti e con le oltre 600 carte dei Mastri I e II della mensa di fine secolo; sempre che voglia accostare quest’ultimo materiale come insieme complesso, ossia quale prodotto ibrido di un tentativo di ripristino di una situazione compromessa da un quindicen-nio di crisi (rimasto a livello prevalentemente teorico-rivendicativo per quanto ri-guarda le giurisdizioni) e della riattivazione (questa sì effettiva) di una articolata amministrazione patrimoniale, dunque come documenti da vagliare con occhio di-plomatistico, storico-economico e storico-istituzionale.

Qui, più modestamente, si è indicato solo qualche spunto, essendo altri i due protagonisti di queste note e dell’edizione che esse devono presentare. Il primo è un ufficio (in questo caso non un officium), o più precisamente l’ambiente fisico e umano di due sale situate in arcivescovado, sede di funzioni collocate a metà tra amministra-zione ecclesiastica ed amministraamministra-zione signorile. Qui, contemporaneamente, si svolge-vano più attività, segnate dall’affollarsi di incaricati diversi: anzitutto il vicario arcive-scovile in temporalibus e procuratore di Giovanni; poi il vero e proprio corpo ammini-strativo composto da una dozzina di notai con ruoli differenti, a partire da quelli più elevati di officiali e familiari addetti alla revisione contabile e alla gestione dei beni e dei relativi registri; ancora, il tesoriere del signore e i suoi banchieri, i fattori e i grossi fit-tavoli che svolgevano una funzione poco diversa dai primi, i locatari di singoli beni, poi ancora i laici controparte degli atti, i rappresentanti delle comunità sottoposte alla giu-risdizione arcivescovile, aristocratici locali e procuratori di enti ecclesiastici; infine altri officiali signorili come Folchino Schizzi, familiari di varia natura e testi, molti dei quali presenti occasionalmente per motivi che sfuggono all’indagine. I loro ruoli sono abba-stanza definiti, ma si sovrappongono e in parte si confondono tra amministrazione e partecipazione personale all’arricchimento del signore, con piccoli o grandi vantaggi. È il quadro di un’officialità ancora fluida, dai compiti intercambiabili 286, una classe

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286 Siffatto quadro presenta qualche similitudine con il notariato di curia, in quanto formato da pro-fessionisti della scrittura che stabilivano un rapporto vitalizio con la curia stessa e al suo interno si trovava-no a svolgere ruoli accessori, anche se trovava-non articolati come nel caso dei quattro maggiori collaboratori

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gente amministrativa che è insieme clientela, in una fase burocraticamente creativa e sperimentale di una signoria in dilatazione ma il cui consolidamento non è anteriore al 1330 e in cui la congiunzione tra dominio civile e arcivescovato è una (lunga) parentesi.

Tolte le comparse, quasi tutti questi personaggi producono scritture diverse, ognuno secondo il suo ruolo, in un affollamento non disordinato. Siffatta «pluralità di scritture finanziarie caratteristica della contabilità trecentesca» 287, che è il secondo protagonista di questa trattazione introduttiva, non è elemento di confusione, bensì, all’opposto, costituisce un mezzo per superarla: essa rispecchia – e al tempo stesso ne è elemento essenziale – una razionalità contabile strutturata sulla divisione dei compiti amministrativi, che a sua volta è funzionale alla natura bicipite del potere del dominus et archiepiscopus (che oltretutto nel biennio 1345-46 convive con un al-tro dominus), che è anche ricco proprietario terriero. Tanto la divisione dei compiti quanto la corrispondente produzione scrittoria (notarile, in senso lato, e contabile;

ma qualche notaio è anche gestore o conduttore) sono costruite su basi empiriche – la pratica del governo – e non sono istituzionalizzate nemmeno nelle denominazioni degli uffici e delle scritture. Le soluzioni sperimentate funzionano, dato che sono conservate nel 1352, ma non hanno lunga storia: svaniscono con la ragione della lo-ro esistenza, che è la pluralità dei ruoli del dominus.

È allora necessario ritornare, in modo circolare, all’archivio arcivescovile da cui siamo partiti 288, per restringere però il quadro al suddetto secondo protagonista del-l’indagine, ossia alla porzione di esso che si trovava fisicamente collocato nelle due ca-mere ove operava Lanzarotto, o perché lì prodotto oppure perché lì soltanto deposi-tato – intendendo come archivio un semplice deposito dalla fisionomia indeterminata, informale quanto l’ufficio (come fin qui delineato, nel suo significato dai contorni non ufficiali) e dunque sperimentante una pluralità di modi di conservazione delle scritture.

Il problema della produzione documentaria è infatti strettamente connesso con quello della conservazione. Due attività, soprattutto, si svolgevano parallelamente:

da una parte la redazione di atti notarili in forma di quaderni di imbreviature, seguita dalla pubblicazione in mundum di alcuni di essi, qualora richiesta (in circa la metà dei casi: tratti di penna obliqui segnano il testo pubblicato in un documento esterno),

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dell’Arimondi e del da Bobbio: BELLONI - LUNARI 2004, pp. XII-XIV. L’articolazione dei compiti e le car-riere, anche se più limitate, hanno maggiori corrispondenze con quelle dei notai e dei cancellieri signorili, come Arasmolo da Pirovano.

287 MAINONI 1993, p. 12.

288 Soprattutto per il sec. XV, DELLA MISERICORDIA 2000. Per la ricostruzione di un archivio inte-ramente perduto, ma di natura diversa, quello dell’inquisizione fiorentina, cfr. MERLO 2007b.

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dall’altra la compilazione di due registri paralleli, che si devono ritenere assai corposi non solo in ragione dell’intensità del lavoro e della somiglianza con quelli conservati a fine secolo, ma anche per riferimenti espliciti a loro singole carte: il «liber rationum archiepiscopatus» 289, e il «liber rationum possessionum domini»; di quest’ultimo sono segnalati due esemplari, probabilmente in successione cronologica, uno co-pertus carta 290 e uno copertus copertura nigra 291. Anche se affidate ai medesimi pro-fessionisti, queste due attività sono formalmente diverse, dato che per i registri contabili non sono mai menzionate forme di autenticazione (né vi sono su quelli degli anni 1376-1401, pur se redatti da due notai). I mastri erano conservati nella

«camera deputata rationum bonorum» dell’arcivescovo, dove in effetti sono atte-stati nel loro utilizzo 292, e formavano il nucleo dell’archivio. Il registro relativo alla mensa (da intendere forse come serie di volumi in successione cronologica) era probabilmente già perduto nel XVI secolo, dal momento che per le già accennate ri-cognizioni si dovette ricorrere a quello poco più tardo di Roberto Visconti.

È invece da ritenere che i registri dei beni viscontei, morto Giovanni, fossero stati consegnati agli eredi, ossia ai nipoti Matteo, Galeazzo e Bernabò, ma non se ne sa più nulla. Risulta più arduo stabilire se entrassero a far parte stabilmente dell’archivio, sotto forma di grossi mastri o di piccoli registri, le scritture contabili prodotte da offi-ciali esterni come i fattori, i negotiorum gestores e la pluralità di amministratori locali di cui si è trattato 293, fino a comprendere conduttori-imprenditori-(officiali) quali il

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289 Quaderno I, c. 44r: «in libro rationum dicti archiepiscopatus in folio tertiodecimo, qui liber est ad cameram deputatam rationibus bonorum prefati domini archiepiscopi» (antecedente del più volte ricordato

«liber rationum archiepiscopatus tempore domini Roberti olim archiepiscopi Mediolani»: v. cap. II).

290 Quaderno I, doc. 4, c. 2r (3 gennaio 1345: «in libro possessionum coperto carta in folio CXXXIII», ove sono indicati i pagamenti di un canone in denaro e in natura).

291 Ibidem, doc. 18, c. 8v (9 aprile 1345; cfr. nota 295 e citazione corrispondente); un anno dopo, il 9 marzo 1346 (doc. 84, c. 42r), si legge della «ratio ipsius Pasini facta de negotiis sibi comissis scripta in libro rationum de possessoribus [recte: possessionibus] domini coperto copertura nigra, in folio CXLIIII». Se, come è probabile, il riferimento nel doc. 49, c. 19v (3 settembre 134: «in libro facto de rationibus possessionum prefati domini archiepiscopi in folio CXXI»), è allo stesso registro rilegato in nero, si ricava che il suo ordi-namento interno è per aree geografiche (come per il mastro principale della mensa). La presenza di fattori signorili responsabili di complessi di beni in località adiacenti confermerebbe del resto questa impostazione.

292 Per la collocazione del mastro della mensa, v. anche nota 289.

293 Quaderno I, doc. 10, c. 5v, a proposito di Paolo Scrosato, fattore incaricato per un periodo dell’ampliamento del castello di Melegnano: «ut continetur in quodam suo libro dictarum expensarum», di cui si menzionano le cc. da 24 a 138, paragonabile dunque per voluminosità ai due registri (in successione cronologica, il primo rilegato in rosso, il secondo in nero) del tesoriere Giovannolo Mondella, dei quali quello completo giunge alla c. 94 (è composto di migliaia di voci di entata e uscita, presumibilmente

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converso cistercense insediato a Melegnano 294. I loro rendicondi confluivano in ar-civescovado per essere esaminati, quindi vi permanevano almeno per un breve lasso di tempo. Dopo la ratio, essi non erano più indispensabili ai vicari né ai notai, dal momento che gli estremi erano riportati nelle imbreviature delle confessiones rogate per attestarne la correttezza e nei registri maggiori; va ricordato che l’esame delle rationes e la contestuale compilazione dei mastri costituiva uno dei due compiti principali del personale della camera deputata rationibus. L’espressione utilizzata per una ratio resa dal fattore Albertazzo Carrano e riportata nel «liber rationum posses-sionum domini» conferma di fatto che quest’ultimo era costituito dall’insieme delle rationes (ridotte ai dati essenziali) dei singoli gestori:

«occasione dictarum possessionum et factorie et administrationis in dictis tribus annis fecerit et reddiderit bonam, plenam et debitam rationem […], ut apparet per suam rationem finalem et con-clusam factam per Franciscolum Cazam notarium et offitiallem ad rationem eiusdem domini de-putatum et scriptam in libro rationum possessionum prefati domini coperto copertura nigra, in-ceptam in folio secundo dicti libri et finitam in folio tertio ipsius libri» 295.

In alcuni casi è possibile che il registro dei fattori rimanesse in curia: Andrino Fasolo, fattore arcivescovile a Lecco, Riviera e Valsassina, per ragioni a noi ignote annota le sue riscossioni del 1344 in due libri identici, uno dei quali consegnato «ad cameram» 296. Tali scritture parziali potevano, in effetti, risultare utili nel caso (del re-sto frequente) di sostituzione dei gere-stori e non è escluso che esse passassero dall’uno o dall’altro, come sembra accadere allo stesso Andrino nel 1355, morto Giovanni 297. Nel 1376 i gestori del patrimonio della mensa avranno sotto mano una pluralità di pic-coli registri relativi alle singole fictalicie, non casualmente chiamati beroldini (ad esem-pio si sono ricordati i «beroldini dei debitori di Legnano»): probabilmente a rimanere nella camera deputata rationibus (e ad essere ricordati tre decenni dopo) erano

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sime, considerato il rapporto tra il loro numero e quello delle carte): ibidem, doc. 48, cc. 15v-16r. Per altre rationes rese non si conosce la dimensione dei registri che le contenevano, ad esempio per i due anni di am-ministrazione di Ruffino de Falengassio, gestore dei beni della mensa a Pontecurone: ibidem, doc. 19.

294 Quest’ultimo il 14 gennaio 1352 presenta un «quaternus sue rationis» relativo al 1350 e 1352:

Quaderno II, doc. 99, c. 4r. Al contrario dell’espressione liber, comunemente usata, la parola quaternus è utilizzata solo in questo punto.

295 Quaderno I, doc. 18, c. 8v.

296 I fitti spettanti alla mensa riscossi da Andrino Fasolo nel 1344 sono contenuti «in quodam suo libro facto de ipsis fictis, conditiis et aliis, cuius exemplum consignavit et dimisit dictus Andrinus ad came-ram ubi tractantur et fiunt rationes prefati domini archiepiscopi in curia eius»: ibidem, doc. 20, c. 9v.

297 Nel 1355 Andrino Fasolo, già fattore di Giovanni sul Lario orientale, deve consegnare i libri rationum di cui è in possesso al suo successore Uberto Balbo: PALESTRA 1971, doc. 44, pp. 122-123.

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prattutto questi più maneggevoli registri, non prettamente contabili, riportanti elenchi di beni, diritti, fittavoli, canoni e altre informazioni e organizzati su base locale; nel 1376, più che alla contabilità, essi serviranno a compilare la parte introduttiva di ogni sezione, dedicata a fornire un quadro generale della fictalicia, che appunto comprende tali informazioni, a cui segue la contabilità vera e propria. All’archivio appartenevano probabilmente più antiche scritture, forse alcuni dei citati beroldini, certamente pergamene sciolte: la locazione delle miniere della Valtorta da parte dell’Arimondi è esemplata su quella di Ottone Visconti del 31 gennaio 1294, inte-gralmente trascritta nell’atto 298. Questo sembra confermare, come sopra ipotizzato, che al già menzionato saccheggio dell’archivio del 1311 abbia posto rimedio, a proprio vantaggio, Giovanni Visconti, divenuto beneficiario del patrimonio della mensa. Gli autori della spogliazione erano del resto seguaci o addirittura membri della propria dinastia (agli ordini di Matteo Visconti): farsi riconsegnare il dovuto, magari colti-vando la loro fedeltà con investiture terriere, non deve avere costituito un problema.

A riprova di ciò, uno degli assalitori del 1311, Mulo da Groppello, è ricordato in un atto rogato da Lanzarotto come fittavolo defunto di beni viscontei 299.

Quantitativamente altrettanto cospicuo doveva risultare l’altro prodotto del personale dell’ufficio, le imbreviature notarili. I punti oscuri restano molti, a partire dal numero dei rogatari: si è già accertato che almeno il da Menzago rogava contem-poraneamente al Negroni, ma degli altri notai non restano attestazioni dirette né in-dirette. Inoltre, anche all’interno delle due camere, i singoli notai tengono registri separati, in virtù della notevole specializzazione operativa e documentaria già rag-giunta forse sin dal XIII secolo 300. Anche uno stesso notaio stende le proprie im-breviature su diversi fascicoli o quaderni, poi rilegati in libri (come si deduce da quelle di Lanzarotto), distinti secondo la tipologia degli atti. Infatti, le imbreviature conservate concernono la gestione dei beni ad opera del vicario-procuratore (e ne-gozi accessori); ma il Negroni riunisce in altri quaderni quelle relative agli atti re-datti in quanto notaio del vicario arcivescovile in temporalibus nella sua funzione di

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298 Quaderno I, doc. 15: cfr. BOGNETTI 1926. A sua volta l’atto di Ottone rimanda a più antichi documenti allora esistenti: «sicut continetur in cartis quas fecerunt quondam domini Alghisius et Millo archiepiscopi Mediolanenses», ossia Algisio da Pirovano (?-1185: LUCIONI 2015) e Milone da Cardano (1187-1195: ALBERZONI 2010).

299 Quaderno II, doc. 102 (però per beni privati di Giovanni confiscati ai Torriani).

300 Per Milano mancano riscontri anteriori al 1342, ma a questa data tale pratica sembra già comu-ne e la differenziaziocomu-ne molto spinta, sicché è possibile ipotizzare un’analogia cronologica con altre dio-cesi: FISSORE 1969; NICOLAJ 1978, p. 169; ROVERE 1984, in particolare pp. 154-159; BRENTANO 1994, pp. 118-137; GARDONI 2004, pp. 62-69; GARDONI 2006, in particolare p. 159 e sgg.

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giusdicente. In una confessio del 31 dicembre 1345 (posta tra le imbreviature ammi-nistrative poiché riguarda un passaggio di denaro, e in cui è correttamente omesso, perché non attinente, il riferimento alla nomina dell’Arimondi a gestore anche dei beni privati) compare il riferimento a un precetto del vicario medesimo, rogato anch’esso da Lanzarotto, in una causa tra Alcherio Visconti, canonico agostiniano di Bernate Ticino 301, e un laico novarese per ignote questioni patrimoniali: un pre-cetto dettato «per dictum dominum vicarium dicto Mafiolo ad petitionem ipsius fratris Alcherii», scritto e sottoscritto «per me Lanzarotum notarium et offitio dicti domini vicarii deputatum» e di cui si dice che è stato collocato «in actis factis coram ipso domino vicario» alla data 13 dicembre 1345 302. Lanzarotto opera come notaio del vicario agente in veste di giudice («notarius et offitio dicti domini vicarii depu-tatus», espressione mai altrimenti utilizzata), perciò l’imbreviatura non è collocata tra quelle stese per lui nella gestione patrimoniale, bensì «in actis factis coram ipso domino vicario», per i quali si può ipotizzare una conservazione separata, nella ca-mera domini vicarii e non in quella deputata rationibus, con le cui mansioni non ha nulla a che fare: infatti il mandato del 13 dicembre, pur appartenendo a un periodo coperto dal primo frammento di Breviature conservato, non ne fa parte.

Si tratta di una pluralità di scritture notarili fra loro parallele comune agli altri episcopati italiani, attestata ad esempio nella prima metà del XV secolo a Como an-che all’interno della stessa gestione della mensa, con quaderni di imbreviature dedi-cati alle locazioni e altri, contemporanei, riservati alle infeudazioni (quest’ultima

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301 Alcherio Visconti, canonico regolare del monastero di Bernate Ticino, aveva poco prima (il 12 marzo 1345) ottenuto da Clemente VI, per intercessione congiunta di Giovanni e Luchino Visconti, il priorato di Sant’Andrea di Villa nel Padovano: BISCARO 1919-1937, III, p. 232. Dovette poi entrare in contrasto con Giovanni. Quando Clemente VI, dopo aver scomunicato l’arcivescovo in risposta all’acquisto di Bologna nel 1350, aprì contro di lui anche un procedimento canonico per eresia, utilizzò allo scopo la testimonianza di Alcherio, divenuto nel frattempo abate del monastero benedettino di San Pietro a Lodi Vecchio: questi avrebbe accusato Giovanni di empietà nei confronti dell’eucaristia, dichiarando che egli (al tempo dell’episcopato novarese) non avrebbe considerato l’eucaristia vero corpo di Cristo, avrebbe celebrato messa una sola volta, dichiarando di preferire i banchetti al pane azzimo, e in quell’unico caso avrebbe disprezzato il sacramento eucaristico, sostituendo un’ostia consacrata cadutagli di mano con una non consacrata. Il processo si concluse rapidamente, o meglio si arenò (dichiarata l’inconsistenza delle accu-se) dopo le proteste di Giovanni, grazie all’evoluzione della trattativa politica (uno degli inviati ad Avignone era Guglielmo Arimondi), ancor prima che questa si chiudesse con l’assoluzione (24 aprile 1342: Codex di-plomaticus 1861-1862, II, pp. 223-233), e la concessione a Giovanni di Bologna, tenuta a nome della Chie-sa, in cambio di un censo annuo di 12.000 fiorini (28 aprile): BISCARO 1919-1937, IV, pp. 44-48; COGNASSO

1955, in particolare pp. 344-345 (sull’intera vicenda, pp. 341-346). Nel 1353 Alcherio non risulta più abate di San Pietro: Innocent VI 1959-2006, n. 299 (16 maggio 1353).

302 Quaderno I, doc. 78, c. 40r.

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categoria a Milano non è menzionata, ma si è già ricordata l’operazione di riordino delle concessioni feudali da parte di Giovanni Visconti, per cui la sua esistenza non va esclusa) 303. Al di là del fatto che il Negroni dimorasse per alcuni anni in arcive-scovado, rimane il problema del luogo di conservazione di un numero notevole di volumi di imbreviature. È noto che a Milano i notai di curia conservassero a casa propria le loro scritture (come già ricordato, a Bergamo contemporaneamente si ve-rificano entrambe le circostanze, una conservazione in curia e una presso il rogata-rio) 304, ma ciò non è risolutivo, poiché in questo caso si tratta di atti amministrativi redatti da officiales, i cui estremi sono sì riportati nei mastri, ma che contengono elementi indispensabili alla gestione patrimoniale, come attestano le annotazioni a margine cronologicamente ascrivibili a un vasto arco temporale (due secoli e mezzo).

La stessa struttura dei due frammenti di registri conservati, oltre alla legatura almeno parzialmente in cuoio, manifesta alcuni caratteri atti ad agevolare una rapida consulta-zione: la rubrica all’inizio di ogni atto, la cartulazione, la presenza della data su ogni carta, lo spazio lasciato ai margini. Inoltre si è già osservato come al tempo di Antonio da Saluzzo (1376-1401) si citeranno atti di Lanzarotto e di Brunasio. Non è quindi possibile escludere che le imbreviature almeno dei notai officiales e bonorum gestores fossero conservate per un periodo più o meno lungo nella camera deputata rationi-bus oppure (per gli atti giudiziari) in quella deputata domino vicario. Le incertezze sulla modalità di conservazione sono del resto lo specchio dell’elemento

sperimen-———————

303 DELLA MISERICORDIA 2000, pp. 30-41; DELLA MISERICORDIA 2003, in particolare pp. 2-7 del-l’estratto. Non sembra invece attestata a Milano l’abitudine di tenere ulteriori quaderni, di maggiore formato, con le sole imbreviature (più dettagliate di quelle dei protocolli) di cui era stata richiesta la stesura in mundum: d’altra parte le imbreviature di Lanzarotto sono esse stesse molto ampie e dettagliate, alcune con l’intero formulario, in pratica corrispondenti ad atti completi. Nell’attività gestionale dell’Arimondi, del da Bobbio e dei loro notai e officiali non compaiono mai scritture che uniscano i caratteri dell’instrumentum a quello cancelleresco, quindi con forme di autenticazione “mista”, ossia con il sigillo dell’autorità e il segno del notaio: ibidem e LUNARI 1995, pp. 486-489; RANDO 1997, in particolare pp. 18-19. Una sola volta in un atto di Lanzarotto, conservato in mundum, è inserto un mandatum di Giovanni Visconti, ma esso è ema-nato da Giovanni in quanto arcivescovo (dunque è prodotto nella cancelleria “spirituale” da un notaio di cu-ria o da un notarius archiepiscopi) per autorizzare un ente ecclesiastico a compiere una permuta, ed è sola-mente inserito in un secondo tempo nell’atto stesso di permuta (rogato dal Negroni perché si tratta anche di beni privati viscontei): ASMi, AD, PF, S. Maria Beltrade, cart. 453, 15 febbraio 1348 (v. nota 97). Quasi certamente avevano invece queste caratteristiche miste gli atti in forma autoritativa emessi dall’Arimondi e dal da Bobbio in quanto vicari in temporalibus e giusdicenti: si è ricordato il preceptum emesso da Guglielmo

303 DELLA MISERICORDIA 2000, pp. 30-41; DELLA MISERICORDIA 2003, in particolare pp. 2-7 del-l’estratto. Non sembra invece attestata a Milano l’abitudine di tenere ulteriori quaderni, di maggiore formato, con le sole imbreviature (più dettagliate di quelle dei protocolli) di cui era stata richiesta la stesura in mundum: d’altra parte le imbreviature di Lanzarotto sono esse stesse molto ampie e dettagliate, alcune con l’intero formulario, in pratica corrispondenti ad atti completi. Nell’attività gestionale dell’Arimondi, del da Bobbio e dei loro notai e officiali non compaiono mai scritture che uniscano i caratteri dell’instrumentum a quello cancelleresco, quindi con forme di autenticazione “mista”, ossia con il sigillo dell’autorità e il segno del notaio: ibidem e LUNARI 1995, pp. 486-489; RANDO 1997, in particolare pp. 18-19. Una sola volta in un atto di Lanzarotto, conservato in mundum, è inserto un mandatum di Giovanni Visconti, ma esso è ema-nato da Giovanni in quanto arcivescovo (dunque è prodotto nella cancelleria “spirituale” da un notaio di cu-ria o da un notarius archiepiscopi) per autorizzare un ente ecclesiastico a compiere una permuta, ed è sola-mente inserito in un secondo tempo nell’atto stesso di permuta (rogato dal Negroni perché si tratta anche di beni privati viscontei): ASMi, AD, PF, S. Maria Beltrade, cart. 453, 15 febbraio 1348 (v. nota 97). Quasi certamente avevano invece queste caratteristiche miste gli atti in forma autoritativa emessi dall’Arimondi e dal da Bobbio in quanto vicari in temporalibus e giusdicenti: si è ricordato il preceptum emesso da Guglielmo

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