1. Dal “Vento del Nord” al “Vento del Sud”
La fine della guerra e della lotta per la Liberazione segnarono l'apogeo e l'inizio del declino per quello che l'allora segretario del PSIUP Pietro Nenni aveva definito “Vento del Nord”, ovvero quello «sforzo necessario, da parte delle masse lavoratrici e dei partigiani dell’Italia settentrionale» per liberare l'Italia dal nazifascismo338. Di questa spinta fu espressione massima il governo del CLN che venne a costituirsi nel mese giugno sotto la guida del capo partigiano e azionista Ferruccio Parri, anche se la sua nomina fu in verità un compromesso tra le forze di sinistra e quelle centriste339. La sua breve parabola di sei mesi coincise con l'innalzarsi del “Vento del Sud”, ovvero quelle forze moderate e reazionarie del centro e del meridione d'Italia che non erano state toccate dalla lotta per la Liberazione e che non si riconoscevano nel governo del CLN o che avevano iniziato ad avversare le sue politiche. Lo stesso Nenni ne accennava in un articolo del febbraio 1945 rispondendo ad un non meglio specificato interlocutore che dalla Calabria lo metteva in guardia sulla difficoltà, da parte delle popolazioni del Meridione, di recepire la «portata salvifica ed innovatrice» della lotta partigiana340. Il segretario socialista liquidava rapidamente la sua controparte, ma non era un caso che proprio dalla Calabria, come abbiamo visto regione importante per lo sviluppo del fascismo clandestino, giungessero inviti agli esponenti del CLN di prestare attenzione alle spinte reazionarie che provenivano dal Sud Italia. L'entusiasmo e la speranza suscitata nelle provincie del Nord dal 25 aprile, non corrispondeva ad altrettanta passione, ad esclusione degli ambienti politici ed intellettuali antifascisti. In gran parte del Centro e del Sud, che aveva già iniziato a sperimentare la transizione dal regime fascista già durante la guerra, regnavano «stanchezza e disincanto, indifferenza e sfiducia»341. Una relazione che la sezione “Situazione” del centro di controspionaggio di Bari del SIM elaborò per il mese di marzo 1945, esemplifica in modo chiaro il pensiero della popolazione meridionale, ma anche dello stesso personale militare e delle forze di polizia, alla vigilia della Liberazione:
338 P. Nenni, Dal congresso di Bari a oggi. Un anno di lotte politiche, ''Avanti'', 28 gennaio 1945, in P. Nenni, Vento del Nord. Giugno 1944-Giugno 1945, Torino, Einaudi, 1978, p. 279.
339 R. Gualtieri, La nascita della Repubblica. Dibattito politico e transizione istituzionale (1943-1946), in G. Monina (a cura di), 1945-1946. Le origini della Repubblica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, vol. II, pp. 95.
340 P. Nenni, Il Vento del Sud, ''Avanti'', 25 febbraio 1945, in ivi, p. 299.
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Per la loro situazione e la loro attività i partiti sono screditati dinnanzi a tutti. Gli stessi partiti lamentano che il popolo non li segua e si comprende. La pertinace denominazione antifascista che sostanzialmente non vuol dire nulla se non una comoda etichetta, il personalismo di coloro che hanno usurpato i poteri dello Stato, allontanano sempre più gli animi dagli odierni partiti, i quali, uniti nella dittatura dell’esarcato intollerante demagogico e dedito ai sistemi delle violenze e delle minacce, peraltro non si rivela se non per i concorrenti ed aspiranti successori della dittatura fascista. Queste considerazioni sono dilagate sia negli ambienti civili che militari. Il popolo italiano non vuole né il fascismo né l’antifascismo, né dittature di destra né di sinistra. Ma se questo pensiero e questa esigenza sono chiari nella mente degli intellettuali, di coloro che hanno coscienza patriottica e sensibilità civica, riescono oscuri nelle masse, nella folla dei più umili, operai, ecc…, i quali tanto più facendo il confronto con la situazione prima e dopo il 25 luglio e l’8 settembre 1943, ragionano superficialmente, e finiscono col considerare assai meglio un nuovo fascismo anziché il caos odierno, in cui non esiste alcun ordine, alcuna autorità, alcuna garanzia, ma solo il tirare a campare di singoli uomini che pensano ai propri egoismi, ai propri interessi, al proprio tornaconto, senza più alcun freno ed alcun ritegno342.
In questo clima era dunque facile che nascesse e si sviluppasse un movimento come il qualunquismo. Il nuovo soggetto politico nato nel giugno del 1945, in concomitanza, non a caso con la nascita del governo Parri, aveva preso il via dal settimanale “L’Uomo Qualunque” pubblicato per la prima volta nel dicembre del 1944 e diretto da Guglielmo Giannini, commediografo e giornalista napoletano343. Il partito, e il giornale, avevano significativamente come simbolo un cittadino comune schiacciato dal torchio delle tasse. Giannini ottenne in breve tempo un notevole successo, specialmente nelle regioni meridionali, facendo leva, in particolare, «sul rifiuto del professionismo politico in nome di una radicale “depoliticizzazione” delle istituzioni statali, espressa dalla formula programmatica qualunquista dello “Stato amministrativo”»344. Per Giannini, la classe politica in una democrazia avrebbe pertanto dovuto essere composta da “buoni ragionieri”, con mandato a termine, scelti in base a competenze tecniche. Costoro sarebbero stati selezionati all’interno della società civile, la “folla” formata da individui indipendenti, coscienti dei propri interessi e capaci di autogovernarsi. Giannini non tardò a scagliare le proprie invettive contro i leader del CLN, incarnazione di quegli “uomini politici professionali” che il movimento si proponeva di combattere. Il suo successo, almeno nei primissimi mesi e anni del dopoguerra, è emblematico della forza e dell’estensione dell’area moderato-reazionaria della popolazione che non si riconosceva o non era rappresentata adeguatamente dalle forze del CLN. In particolare, il movimento qualunquista fece breccia nel ceto
342 USSME, SIM, b. 328, f. 2-1-72 Relazione sulla situazione politica di Bari e provincia, Rapporto situazione sul mese di febbraio e marzo 1945, p. 7-8
343 Sull’Uomo Qualunque rimane ancora lo studio più documentato il lavoro di S. Setta, L’Uomo qualunque. 1944-1948, Roma-Bari, Laterza, 1995. Un’unica eccezione rappresenta la tesi di dottorato di M. Cocco, Il Qualunquismo storico. Le idee, l’organizzazione di partito, il personale politico, Università degli Studi di Cagliari, 2014. Sui partiti di destra italiani vedi G. Orsina (a cura di), Storia delle destre nell’Italia repubblicana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014; E. Capozzi, Storia dell’Italia moderata. Destre, centro, anti-ideologia, antipolitica nel secondo dopoguerra, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2016.
83 medio impiegatizio, che poteva risultare il più colpito dalle norme di epurazione, attuando una propaganda fortemente contraria alle leggi varate dal governo italiano e alla loro applicazione. L’operazione di epurazione aveva preso il via già nel 1943 con alcuni provvedimenti attuati dagli angloamericani nelle zone liberate che avevano come obiettivo quello di rimuovere tutti gli elementi fascisti e filofascisti dall’amministrazione e dalle istituzioni di carattere pubblico. Dopo un inizio debole, una forte accellerata venne data tramite la pubblicazione del decreto emanato dal governo Bonomi del 27 luglio 1944, con il quale venivano stabilite le norme per la punizione dei delitti fascisti, l’epurazione della pubblica amministrazione, l’avocazione dei profitti di regime e l’istituzione dell’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo345. Se tutte le forze politiche del CLN erano d’accordo sulla necessità di una epurazione dei responsabili e dei complici della dittatura fascista, le differenze di opinioni emergevano sul modo di intendere l’estensione dei provvedimenti e sugli obiettivi finali. Gli opposti modi di concepire le sanzioni da parte, in particolare, delle forze socialcomuniste, che le consideravano come lo strumento più immediato per attuare un rinnovamento radicale dal contenuto classista, e cattoliche e liberali secondo cui era necessario mirare a colpire solo le più gravi responsabilità individuali, furono tra le cause della «contraddittorietà e inefficacia» della loro applicazione pratica346. Nonostante l’esplicita volontà di “colpire in alto e di indulgere in basso”, si ebbero vistosi casi di salvataggio di gerarchi e collaborazionisti di alto livello mentre, almeno inizialmente, venivano puniti semplici gregari. In particolare, nel campo della pubblica amministrazione, dove venne coinvolto il maggior numero di persone, era praticamente impossibile essere rimasti immuni da ogni compromissione con il fascismo vista la lunga durata del regime mussoliniano. Anche in questo caso, vennero colpiti soprattutto coloro i quali non erano riusciti nel frattempo a esibire veri o presunti meriti partigiani, oppure a trovare un appoggio da parte dei nuovi partiti politici o delle autorità alleate. Emblematico è ad esempio, il caso delle forze di polizia, all’interno delle quali vennero ben presto reintegrati coloro i quali avevano fatto carriera nel corso del regime fascista, anche all’interno delle strutture dell’Ovra, a scapito degli ex partigiani della polizia ausiliaria o dei prefetti “politici” che avrebbero dovuto costituire il nuovo nucleo delle forze dell’ordine dello Stato democratico347.
Non solo l’epurazione rappresentava un pericolo per la classe media moderata ma anche l’altro aspetto della “giustizia di transizione”, che stava accompagnando il passaggio tra i due regimi, ovvero
345 H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 193-205. Sull’epurazione vedi anche R. Canosa, Storia dell’epurazione in Italia.
346 S. Setta, L’Uomo qualunque, p. 19.
347 Vedi ad es. D. Conti, Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana, Torino, Einaudi, 2017; P. Dogliani, M. Matard-Bonucci, Democrazia insicura, Roma, Donzelli, 2017, pp. 24-27.
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la questione dei processi contro gli esponenti del regime fascista e della Repubblica di Salò348. Come abbiamo visto, il primo nucleo delle sanzioni contro il fascismo era rappresentato dal decreto luogotenenziale che disciplinava anche l’epurazione. Il 22 aprile 1945 veniva emanato inoltre il decreto istitutivo delle Corti d’assise straordinarie (Cas), composte da magistrati ordinari, che avevano il compito di operare sul territorio e di giudicare i reati fascisti. Si ponevano l’obiettivo di iniziare ad intervenire immediatamente dopo la Liberazione in modo tale da evitare il proliferare della prevedibile ondata di violenza popolare che si sarebbe abbattuta al termine del conflitto. L’introduzione delle Cas non ebbe tuttavia gli effetti sperati né come argine contro la giustizia sommaria né come strumento di punizione per quanto compiuto durante il regime fascista e per le atrocità commesse dalle formazioni della Repubblica sociale nel corso della guerra civile. Da una parte infatti, furono numerosi gli atti di violenza e vendetta compiuti da partigiani e dalla gente comune nei confronti di ex appartenenti al Partito fascista o aderenti alle formazioni della RSI. Cifre da parte neofascista stimavano a 300000 le uccisioni avvenute nell’immediato dopoguerra e in particolare tra maggio e giugno 1945. Notizie più attendibili, dati anche gli ultimi studi storici, sembrano tuttavia abbassare il numero alla cifra, comunque rilevante, di circa 9000-10000 vittime349. Dall’altra invece, fu un grande errore di valutazione confidare sulla neutralità e imparzialità di una giustizia non epurata350. Caso emblematico fu la magistratura di Cassazione la quale, approfittando di alcuni errori nella formulazione delle leggi, della presenza di imprecisioni formali nei dispositivi di condanna redatti dalle Cas, o di “sentenze suicide”, ovvero in contraddizione con il verdetto espresso, non esitava a garantire agli imputati l’annullamento del procedimento di primo grado per vizio formale351. Le violenze del periodo insurrezionale e lo zelo con cui le Cas avevano, almeno inizialmente, svolto il loro lavoro, rappresentavano seri motivi di preoccupazione per i ceti moderati i quali temevano, come auspicato dalla base partigiana, che la Liberazione fosse soltanto il primo passo per una profonda trasformazione delle strutture socio-economiche del Paese. Come scriveva Sandro Setta, «all’esecuzione dei fascisti andava di pari passo l’ostentazione […] di una imminente palingenesi sociale, che avrebbe tolto all’odiata borghesia i suoi antichi privilegi»352. I disordini e gli episodi di banditismo e di delinquenza comune erano pertanto interpretati come espressione
348 Sulla “giustizia di transizione” vedi in particolare G. Focardi, C. Nubola (a cura di), Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, Bologna, Il Mulino, 2015.
349 M. Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 2004, pp. 91-101. Anche in G. Crainz, L’ombra della guerra. Il 1945, l’Italia, Roma, Donzelli, 2007.
350 Sulla magistratura tra 1943 e 1948 vedi G. Focardi, Arbitri di una giustizia politica: i magistrati tra la dittatura fascista e la Repubblica democratica, in G. Focardi, C. Nubola (a cura di), Nei tribunali, pp. 91-134.
351 Vedi ad es. T. Rovatti, Tra giustizia legale e giustizia sommaria. Forme di punizione del nemico nell’Italia del dopoguerra, in G. Focardi, C. Nubola (a cura di), Nei tribunali, p. 43.
85 dell’anarchia dilagante e i delitti commessi nel Nord Italia visti come prodromi della conquista rivoluzionaria del potere e della dittatura del proletariato. Palmiro Togliatti aveva d’altronde fin da subito intuito il potenziale riflesso negativo, per il suo partito, prodotto dalla violenza indiscriminata e, assieme ai dirigenti, aveva cercato di soffocare, per quanto possibile, delitti e illegalismo353. I liberali non potevano permettersi tuttavia che le simpatie dei ceti medi si indirizzassero principalmente verso il qualunquismo. Fu anche per questa ragione che con l’appoggio dei democristiani, e desiderosi di intercettare il “Vento del Sud”, nel novembre del 1945 ritirarono la fiducia al governo Parri e in tal modo spinsero l’ex partigiano a rassegnare le dimissioni. Il nuovo governo di Alcide De Gasperi, pertanto, si presentava con un programma volto a ristabilire l’ordine e l’autorità dello Stato che prevedeva: la sostituzione degli organi esecutivi ed amministrativi provvisori con i normali organi statali, la riassunzione da parte dei vari organi ed enti dello Stato delle funzioni fino a quel momento esercitate dai CLN, l’abolizione dell’Alto Commissariato per l’epurazione e la sua definitiva conclusione prima delle elezioni per la Costituente354.
La battaglia politica per le elezioni della Costituente nonché sul referendum che avrebbe concluso definitivamente la questione istituzionale, vide, d’altronde, l’inasprirsi della divisione tra forze riformiste e conservatrici nonché tra il Nord e il Sud del Paese. Il risultato delle elezioni per l’Assemblea, infatti, fu di sostanziale parità tra i socialcomunisti e i democristiani (entrambi raccolsero poco meno del 40%), con la destra, presentatasi divisa tra liberali, qualunquisti e monarchici, che raccolse complessivamente circa il 15% dei consensi. Significativo fu il risultato dell’Uomo qualunque che, se a livello nazionale conquistò il 5% dei suffragi, nel Sud e nelle isole raggiunse il 10% dei consensi. Il partito di De Gasperi, in particolare al Sud, aveva fatto abilmente leva nel corso della campagna elettorale sui temi dell’ordine e dell’anticomunismo, togliendo spazio alle destre. Questo esodo di voti risulta chiaro se confrontato con i risultati del referendum istituzionale355. Sebbene infatti tutte le forze politiche del CLN, esclusi i liberali, avessero dichiarato esplicitamente la loro scelta repubblicana, lo scarto esiguo di due milioni di voti con la monarchia non corrispondeva con la scelta netta a favore dei partiti repubblicani per le elezioni della Costituente.
353 P. Di Loreto, Togliatti e la «doppiezza». Il Pci tra democrazia e insurrezione 1944-1949, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 79-83; A. Agosti, Togliatti, un uomo di frontiera, Torino, Utet, 2003, pp. 313-314. Non sempre la base ma anche alcuni dirigenti del partito erano d’accordo con la visione del Segretario. R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. VI: Il «partito nuovo» dalla Liberazione al 18 aprile, Torino, Einaudi, 1995, pp. 20-24.
354 S. Setta, L’Uomo Qualunque, pp. 106-107.
355 Sul referendum P. L. Ballini, Il referendum del 2 giugno 1946, in M. Ridolfi (a cura di), Almanacco della Repubblica. Storia d’Italia attraverso le tradizioni, le istituzioni e le simbologie repubblicane, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 222-229. Sul sentimento anticomunista vedi in particolare R. Pertici, Il vario anticomunismo italiano (1936-1960): lineamenti di una storia, Di Nucci, L., Galli della Loggia, E., Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 284-295.
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La base democristiana infatti, alla quale era stata lasciata libertà di scelta, non era, al contrario dei dirigenti, in maggioranza repubblicana. Senza contare tra l’altro che lo stesso partito dell’Uomo qualunque che inizialmente, come vedremo, raccoglieva anche i consensi dei fascisti reduci dall’esperienza di Salò e in prevalenza repubblicani, non si era espresso né a favore della repubblica né della monarchia. Più che il voto per l’Assemblea Costituente, fu il Referendum a rendere esplicita, anche per i partiti provenienti dall’esperienza del CLN, la presenza di una forte base conservatrice radicata soprattutto nel Sud Italia, la quale però non si traduceva in una univoca e diretta rappresentanza politica. I dieci milioni di voti per la monarchia, infatti, non vennero incanalati direttamente né nel partito esplicitamente monarchico, ovvero il Blocco Nazionale delle Libertà, che raccolse poco più di 600000 voti, né d’altronde esclusivamente verso la Democrazia Cristiana. Se da un lato, infatti, la propaganda di destra aveva funzionato dipingendo la scelta repubblicana come “un salto nel buio” che avrebbe inevitabilmente spinto l’Italia verso la dittatura comunista, la DC non era riuscita, del tutto, a proporsi come unico baluardo nei confronti del comunismo, sia che l’esito del referendum fosse stato favorevole alla repubblica sia alla monarchia. D’altronde, con il PCI che sosteneva e partecipava al governo De Gasperi, e con il segretario comunista Togliatti alla guida di un dicastero fondamentale come quello della Giustizia, non era possibile per la DC spingere del tutto su questo tasto né tuttavia i diversi partiti della destra riuscirono a porsi come alternativa anticomunista ai democristiani356.
Dal canto loro, i vertici del Partito Comunista, su tutti Togliatti, premevano per accreditarsi presso la popolazione italiana come un partito legalitario che aveva l’obiettivo di raggiungere la guida del Paese tramite il gioco democratico e tentando, pertanto, da una parte di emarginare e soffocare le spinte rivoluzionarie che giungevano dal basso e dall’altra di smentire le voci che davano come imminente l’avvio di un colpo di Stato comunista. In questa strategia si inseriva l’amnistia emanata il 22 giugno 1946, poco dopo la proclamazione della Repubblica. Togliatti era sinceramente convinto che l’adesione delle masse al fascismo fosse un problema reale e che attraverso una politica conciliante si potessero recuperare soprattutto i giovani che erano nati e cresciuti sotto la dittatura. Pertanto, date diverse concause quali il sovraffollamento delle carceri e il pericolo di sommosse, la promessa dello stesso re Umberto II di proclamare un’amnistia per celebrare la sua incoronazione, la constatazione dell’effettiva inefficacia dell’epurazione, nonché la sincera volontà di mettere una
356 Sulla transizione tra monarchia e repubblica vedi M. Ridolfi, N. Tranfaglia, 1946. La nascita della Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1996; G. Monina (a cura di), 1945-1946. Le origini della Repubblica, in particolare i saggi di A. G. Ricci, Il nodo referendario, pp. 3-18, L. Elia, De Gasperi e la questione istituzionale, pp. 19-50, S. Guerrieri, Il PCI e il processo costituente, pp. 51-80, R. Gualtieri, La nascita della Repubblica. Dibattito politico e transizione istituzionale (1943-1946), G. Orsina, Translatio imperii. La crisi del governo Parri e i liberali, pp. 201-256, D. Breschi, Le forme dell’anticomunismo alle origini della repubblica, pp. 303-340, M. Truffelli, L’antipolitica, pp. 341-372.
87 pietra sopra al biennio della guerra civile, il guardasigilli decise di proporre un’amnistia come misura di pacificazione357. Il provvedimento avrebbe dovuto riguardare quei reati militari e politici per i quali la legge prevedeva «una pena detentiva, sola o congiunta a pena pecuniaria, non superiore nel massimo a cinque anni». La legge era dunque finalizzata ad escludere sia i gerarchi sia coloro i quali «hanno nella esecuzione o in occasione dei delitti commesso o partecipato a commettere uccisioni, stragi, saccheggi, o sevizie particolarmente efferate, oppure sono stati indotti al delitto da uno scopo di lucro». Avrebbe invece garantito la salvezza per i partigiani macchiatisi dopo la liberazione di reati anche gravi commessi «anche dopo che i singoli territori erano passati all'Amministrazione alleata». «Tale è l'atto di clemenza - scriveva Togliatti nella relazione al provvedimento pubblicata nella Gazzetta Ufficiale - che, approvato in un grave momento della nostra vita nazionale, certamente contribuirà a creare nel Paese quel nuovo clima di unità e di concordia che è il più favorevole alla ricostruzione politica ed economica, e nel quale dovrà continuare, entro i limiti stabiliti, la necessaria opera di giustizia per il definitivo nostro risanamento politico e morale»358. Come già successo con i provvedimenti di epurazione e le sentenze delle Cas tuttavia, le volontà del legislatore furono totalmente sovvertite dall’autorità giudiziaria. L’operato della Corte di Cassazione si distinse per il particolare zelo con il quale riuscì ad applicare l’amnistia provocando non solo la scarcerazione di coloro i quali erano stati accusati di piccoli reati, ma anche di un gran numero di collaborazionisti,