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Personalizzazione politica e comunicazione governativa nella Quarta Repubblica

Nel corso della Quarta Repubblica l’intervento dello Stato nel settore dell’informazione non si limitò ad un controllo diretto ed invasivo sui mezzi di comunicazione di massa.

Il periodo che va dalla Liberazione al ritorno al potere del Generale de Gaulle fu infatti caratterizzato da due tendenze, concomitanti e indissociabili l’una dall’altra. Da un lato, ed è l’argomento sul quale abbiamo focalizzato l’attenzione nel primo capitolo, il governo consolidò un nuovo campo di esercizio delle proprie competenze e prerogative: fu messa in piedi una vera e propria politica dei mezzi di informazione, ambito riservato del potere esecutivo, fondata sul monopolio pubblico radio-televisivo e su un crescente autoritarismo favorito dall’emergenza algerina178. Dall’altro il governo fondò le premesse di uno strumento e di una funzione politica distinti e nuovi, destinati ad un prospero avvenire: si tratta della nascita dell’informazione governativa, della politica di informazione sull’azione del presidente del Consiglio e dei suoi ministri179. In questa fase l’esecutivo cominciò infatti a prendere atto di come la diffusione di informazione sugli atti e sulle decisioni governative fosse un principio democraticamente necessario, iniziando ad affermare con forza la necessità di una comunicazione diretta con i cittadini. Se già negli anni Trenta Gaston Doumergue aveva giustificato il suo pioneristico ricorso alle allocuzioni radiofoniche come risposta al fatto che «mi capitava di ascoltare, tutte le mattine, la radio di Stato trasmettere violenti attacchi di uomini politici che mi contestavano accanitamente»180, nel corso degli anni Cinquanta le difficoltà incontrate dai vari governi all’interno e all’esterno delle frontiere nazionali, associate alla necessità di difendersi dalle critiche provenienti da una nutrita opposizione anti-sistema (gollisti, poujadisti e comunisti)

177 «“Vous parlerez de 250.000 manifestants” […] “Non, monsieur le directeur, je donne la chiffre de la préfecture

de police: 70.000” […] “250.000” […] “70.000” […] “Allons, dites au moins 200.000...” […] “Je veux bien aller jusqu’à 85.000...” […] “175.000, pas un de moins...” […] “97.000, pas un de plus...” […] “Allez, on transige à 150.000...” […] “125.000…”». Cfr. J. Montaldo, Dossier O.R.T.F. 1944-1974, op. cit., p. 117.

178 Cfr. J. Bourdon, Haute fidélité. Pouvoir et télévision, 1935-1994, Paris, Éditions du Seuil, 1994.

179 C. Ollivier-Yaniv, L’Etat communiquant, Paris, Puf, 2000, pp. 94-95.

180 «Je pouvais entendre, tous les matins, les Postes d’Etat radiodiffuser les diatribes violentes des hommes publics

les plus acharnés à me combattre». Cfr. G. Doumergue, Mes causeries avec le peuple de France, Paris, Reboul&fils Editeurs, 1934, p. 7.

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parvero far emergere un nuovo diritto di risposta da parte dei governi. Nel corso di un dibattito in Parlamento, replicando alle critiche dell’opposizione che denunciava il frequente ricorso da parte del presidente del Consiglio Mollet alla televisione per fini ritenuti propagandistici, il deputato della maggioranza Pezat osservò: «Il governo, per limitarsi in modo scrupoloso all’informazione, a un’informazione strettamente concreta, documentata, statica, per paura di una parola -

propaganda - è forse costretto a non replicare, a non precisare, a non commentare, insomma, a non difendersi? Signore e Signori, il governo deve farlo se ha a cuore il proprio dovere!»181. Era lo stesso spettro della propaganda che veniva superato con l’affermazione di questa nuova esigenza democratica. Come ebbe a precisare Albert Gazier, ministro dell’Informazione dei governi Pleven e Queuille tra il 1950 ed il 1951:

«La propaganda è una sorta di arringa, ed esistono diverse tipologie di propaganda. Esiste una propaganda che si rivolge soltanto agli istinti e alle passioni e che contrasta con la democrazia […]. Esiste poi un altro tipo di propaganda che si rivolge prioritariamente alla ragione. Questo secondo tipo di propaganda, che si confronta con le propagande rivali, è perfettamente

compatibile con le più severe regole della democrazia. Essa tende ad educare e a fornire informazioni più che ad incantare i propri destinatari»182.

Nascondendosi dietro l’esigenza di difendersi dalle critiche dell’opposizione e di spiegare ai cittadini il perché delle proprie scelte i governi parvero progressivamente superare il divieto che la Repubblica aveva tracciato nei confronti della propaganda183.

L’evoluzione era decisiva: il rigidissimo monopolio governativo sulla radiotelevisione volto ad escludere qualsiasi forma di espressione dei partiti e dei leader di opposizione, pur necessario, non era più sufficiente. Per acquisire legittimità di fronte all’opinione pubblica non bastava più soltanto controllare l’informazione ma occorreva anche rinnovare le strutture e le pratiche della comunicazione.

Occorre osservare come la formalizzazione di questa comunicazione governativa abbia costituito una profonda rottura istituzionale e culturale. Il sistema politico sul quale si fondava l’ideologia

181 «Le gouvernement, sous le prétexte de s’en tenir scrupuleusement à l’information, à une information strictement

matérielle, documentaire, statique, par peur d’un mot - propagande - se croirait tenu à ne pas répliquer, à ne pas redresser, à ne pas commenter, en un mot, à ne pas se défendre? Mais, Mesdames, Messieurs, c’est qu’il le doit, s’il croit à sa tâche!». Cfr. «Journal Officiel de la République Française», Débats Parlementaires, Assemblée nationale,

Séance du mardi 13 mars 1956.

182 «La propagande est une espèce de plaidoirie et il esiste plusieurs formes de propagande. Il existe une propagande

qui s’adresse uniquement aux instincts et aux passions et qui est contraire à la démocratie.[…] Une autre propagande s’adresse davantage à la raison. Une telle propagande, qui se mesure avec d’autres propagandes, est parfaitement compatible avec les règles les plus strictes de la démocratie. Elle tend à enseigner et à renseigner plutôt qu’à envoûter». Cfr. Cfr. «Journal Officiel de la République Française», Débats Parlementaires, Assemblée nationale,

Séance du vendredi 15 juin 1951.

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repubblicana non si limitava infatti a determinare una semplice organizzazione dei poteri, ma rappresentava piuttosto la traduzione istituzionale di principi teorici preordinati e di esempi storici elevati a rango normativo. La cultura repubblicana, fondata sull’ideale della nazione sovrana, che affondava le proprie radici nell’eredità della filosofia dei diritti naturali e sul precedente storico della Rivoluzione francese, poneva cioè come principio fondamentale di ogni costruzione istituzionale la necessità di preservare la libertà del cittadino dalle prevaricazioni del potere, specie di quello personale incarnato nella figura di un monarca assoluto o di un dittatore plebiscitario, sfociando su una concezione che affidava la quasi totalità del potere ad un’assemblea di deputati eletti a suffragio universale dalla nazione sovrana184. Inevitabile che l’affermarsi della centralità politica del Parlamento, unica istituzione atta a custodire la sovranità popolare e repubblicana185, avesse dirette ripercussioni anche sulle modalità comunicative adottate dalla classe politica. Come ogni cultura politica, infatti, anche quella repubblicana possedeva le proprie forme ed i propri canali di espressione e si era fondata attribuendo ai deputati il monopolio della parola e del dialogo con i cittadini. La discussione politica legittima era cioè tradizionalmente rimasta una prerogativa riservata ai soli rappresentanti della nazione che la esercitavano in varie forme, da quelle ordinarie (i comizi di piazza, le assise di partito) a quelle più nobili, ossia la tribuna del Palais-Bourbon.

Da questo punto di vista la Quarta Repubblica costituisce un momento di svolta da un duplice punto di vista.

Per quello che concerne le modalità di espressione politica si determinò cioè una vera e propria rottura dinastica: al regno dell’eloquenza parlamentare iniziò ad affiancarsi, in maniera sempre più invadente, quello dei mezzi di comunicazione di massa, prima la radio e poi la televisione. Ma una profonda cesura riguardò anche i protagonisti stessi della retorica politica: a farsi portavoce dell’esigenza di una comunicazione governativa cominciò ad essere infatti, sempre più spesso, la figura del presidente del Consiglio che, da questo momento in avanti, avrebbe cominciato ad affermare la necessità di un contatto diretto con i cittadini, sino ad allora privilegio riservato quasi esclusivamente ai parlamentari.

Vero pioniere di quest’arte della comunicazione sarebbe stato, alla metà degli anni Cinquanta, il leader radicale Mendès France che, maestro nell’uso della radio, nel suo ultimo discorso alla nazione il 29 gennaio 1955 (il suo governo sarebbe stato sfiduciato nel corso del dibattito del 4 e

184 S. Berstein, L’historien et la culture politique, in «Vingtième siècle. Revue d’histoire», n°35, juillet-septembre

1992, pp. 69-70. Ma vedi anche, più in generale, S. Berstein, O. Rudelle (a cura di), Le modèle républicain, Paris, Puf, 1992.

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5 febbraio) lasciò una sorta di testamento spirituale, osservando che ogni presidente del Consiglio ha nei confronti dei cittadini:

«il dovere di far sì che la loro informazione sia completa, di far loro comprendere le ragioni per le quali una misura è necessaria ed un’altra, invece, non è opportuna. Insomma, al presidente del Consiglio spetta il compito di gestire e frenare gli interessi particolari, mostrando le esigenze dell’interesse generale. L’importanza di un dialogo sincero e diretto tra l’eletto e i suoi mandanti è centrale: è necessario che sia frequente ed intimo […]. È nocivo tutto ciò che rende il dialogo più difficile e raro, è positivo tutto ciò che lo facilita»186.

Non si trattava di un compito scontato:

«Non è facile per un capo del governo mantenere quotidianamente questo dialogo con il Parlamento e con il paese, ma si tratta di un’assoluta necessità»187.

Inevitabile che la fine del monopolio del discorso pubblico da parte del Parlamento e l’ambizione del presidente del Consiglio di instaurare un contatto con la nazione attraverso mezzi di comunicazione di massa fosse la traduzione di una progressiva perdita di autorità delle due Camere a scapito di un potere esecutivo sempre più vitale e personalizzato. La rottura rispetto alla tradizione era evidente: la Repubblica si era costruita attorno alla depersonalizzazione del potere e al divieto per i dirigenti politici di rivolgersi direttamente all’insieme del paese. Farlo era considerato pericoloso, interpretato come il riemergere del vecchio demone delle tentazioni cesariste. Il talento oratorio si rivolgeva così verso i corpi intermedi, che facevano da schermo e servivano da collegamento tra l’uomo pubblico e l’opinione. Esso aveva per teatro la Camera dei deputati, il Congresso del partito, le riunioni elettorali, sola circostanza in cui il politico si rivolgeva direttamente agli elettori, ma per un contatto localmente piuttosto circoscritto. Mendès France pagò a caro prezzo il suo porsi al di fuori degli schemi. Fedeli all’affermazione del politologo André Siegfried secondo il quale «un istinto sicuro spinge il deputato a diffidare di chiunque, al di fuori di lui, pretenda di entrare

186 «Devoir de completer leur information, de leur faire comprendre les raisons pour lesquelles telle mesure est

nécessaire et telle autre serait mauvaise; bref, de redresser les entraînements de l’intérêt particulier, en montrant les exigences de l’intérêt général. L’importance d’un dialogue franc et direct entre l’élu et ses mandants est capitale; il faut qu’il soit fréquent et intime [...] Tout ce qui rend le dialogue plus rare et plus difficile est nuisible, tout ce qui le facilite est bon». Cfr. Discorso radiofonico del 29-1-1955, citato in: P. Mendès France, Oeuvres complètes, III,

Gouverner c’est choisir, 1954-1955 Paris, Gallimard, 1986, p. 696.

187 «Il n’est pas facile à un chef de gouvernement de maintenir quotidiannement ce dialogue avec le Parlement et

avec le pays. Pourtant c’est une nécessité absolue». Cfr. Discorso pronunciato a Evreux, 30-1-1955, citato in P. Mendès France, Oeuvres complètes, III, Gouverner c’est choisir, 1954-1955 Paris, Gallimard, 1986, p. 698.

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direttamente in contatto con la massa»188, i parlamentari non tardarono a scatenare critiche feroci (il deputato centrista François de Menthon sollevò pubblicamente la questione della costituzionalità degli interventi radiofonici di Mendès France), cogliendo la prima occasione propizia per sbarazzarsi di uno scomodo leader che aveva osato rompere con pratiche consolidate.

Nonidimeno l’esperienza di Mendès France sarebbe stata quasi profetica. Essa costituì una sorta di anticipazione della personalizzazione assoluta del potere che avrebbe trovato pieno compimento con il legame diretto che la Quinta Repubblica instaurò tra il leader dell’esecutivo e la nazione sia sul versante comunicativo attraverso la televisione, sia su quello istituzionale attraverso l’introduzione del referendum e dell’elezione a suffragio universale diretto del presidente della Repubblica. Se soltanto il crollo politico-istituzionale del parlamentarismo e il discredito morale che ne accompagnò l’ultima fase avrebbero consentito a de Gaulle di abbassare lo schermo che aveva tradizionalmente separato i governanti dalle masse, trovando nella televisione una nuova forma di spazio pubblico, occorre rilevare come in realtà, superando chiavi di lettura palingenetiche, alcune importanti premesse fossero già state poste da tempo. Meno spettacolare della rottura gollista, questo progressivo e sotterraneo rovesciamento del rapporto di forza tra il potere legislativo e quello esecutivo, caratterizzato da una progressiva affermazione della figura del presidente del Consiglio e dalla sua pretesa di scavalcare l’istituzione sino ad allora deputata ad accogliere il fulcro della discussione politica, non è stato comunque meno profondo.

Per ricostruire questo percorso occorre però partire da più lontano. La Terza Repubblica, ovvero il regno della depersonalizzazione

«Il potere personale è per noi oggetto di una vera e propria specie di terrore. Abbiamo paura che se ne abusi, che ce ne si impadronisca, che lo si perpetui, che ne si approfitti per ridurre le libertà. Insomma, noi lo consideriamo come reazionario […]. In Francia è il Parlamento che ci sembra in modo indiscutibile l’espressione più autentica, l’unica davvero autentica, del suffragio universale […]»189.

188 A. Siegfried, Tableau des partis en France, Grasset, Paris, 1930, p. 210.

189 «Le pouvoir personnel est chez nous l’objet d’une sorte de terreur sacrée. Nous avons peur qu’on en abuse, qu’on

s’y accroche, s’y perpetue, qu’on en profite pour subtiliser les libertés. Bref nous le considérons comme réactionnaire […]. En France, c’est l’Assemblée qui nous apparaît indiscutablement comme l’expression la plus authentique, disons la seule authentique du suffrage universel […]». Cfr. A. Siegfried, Le pouvoir personnel, «Le Figaro», 4-5-1947, p. 1.

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Questo estratto di un articolo pubblicato su «Le Figaro» dall’accademico André Siegfried nel 1947, condensa in poche frasi i tratti principali che caratterizzarono la cultura politica francese nel corso della Terza e della Quarta Repubblica. In realtà, però, per trovare l’origine di questo «terrore» nei confronti della personalizzazione del potere occorre risalire un poco più addietro. Con la Rivoluzione, l’avvio della modernità politica francese si era infatti strutturato fondandosi sul principio che il potere fosse un’entità anonima, astratta.

Come ha abilmente mostrato Claude Lefort la democrazia francese, nata dopo la lotta contro la monarchia, ovvero contro l’autorità personale, si è affermata come una sorta di «luogo vuoto», di terra di nessuno: «la legittimità del potere si fonda sul popolo; ma all’immagine della sovranità popolare si sommò quella di un luogo vuoto, impossibile da occupare, tale che coloro che esercitano l’autorità politica non devono ambire ad occuparlo»190. La democrazia francese delle origini riuniva cioè due principi apparentemente contraddittori: «il primo che il potere emana dal popolo; l’altro che non è il potere di nessuno»191. I rappresentanti del popolo, cui era delegata la sovranità nazionale, si dovevano così limitare ad amministrarla nel modo più trasparente possibile.

Dal potere personale della monarchia si era così passati, improvvisamente, all’impersonale trasparenza del potere democratico. La visione organicistica dell’assolutismo aveva elevato il monarca a caput rei publicae192: nella sua celebre controversia con Paine, Sieyès aveva d’altronde spiegato che ci si poteva immaginare «il governo monarchico come un oggetto dotato di una punta, e il governo repubblicano, invece, di forma piatta»193.

In quest’ottica la decapitazione di Luigi XVI - ossia di colui che fuggendo a Varennes aveva tradito l’unità del re e della nazione, rompendo il matrimonio tra il «corpo politico» e la sua «testa» che aveva rappresentato l’iniziale continuità tra l’Ancien Régime e il nuovo ordine istituzionale - ha rappresentato un atto davvero simbolico: quello della separazione di un corpo e di una testa.

Come il Dio degli ebrei, così anche la democrazia francese, affermatasi con la tormenta rivoluzionaria, mostrò ben presto di non tollerare alcun volto194.

190 C. Lefort, L’invention démocratique, Paris, Fayard, 1971, p. 92. Simili analisi si ritrovano anche negli studi di

altri storici del milieu dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales come F. Furet, M. Gauchet, J. Julliard o P. Rosanvallon.

191 ibidem.

192 R. Descimon - A. Guéry, Un Etat des temps modernes?, in J. Le Goff (a cura di), L’Etat et les pouvoirs, Paris,

Editions du Seuil, 1989, p. 238,

193 «Le gouvernement monarchique comme finissant en pointe, et le gouvernement républicain en plate-forme». L.

Jaume, L’Etat républicain selon de Gaulle, in «Commentaire», 51, automne 1990, p. 527.

194 J. Julliard, Que sont les grands hommes devenus? Essai sur la démocratie charismatique, Paris, Saint-Simon,

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La sudditanza dell’esecutivo nella cultura repubblicana classica non era che la diretta traduzione istituzionale del precetto che vietava qualsiasi forma di personificazione della Repubblica. Il potere repubblicano, nato per difendere i diritti dell’inividuo (Dichiarazione dei diritti dell’uomo, affaire Dreyfus195) non doveva appartenere ad alcun individuo, ma limitarsi ad essere lo «strumento dell’equità impersonale delle leggi»196.

Il principio secondo il quale la Repubblica non doveva avere nessuna «testa» rappresentava una conseguenza dell’astrazione e del radicalismo prodotti dalla cultura politica dei Lumi e imposti dalle particolari modalità dell’evento rivoluzionario. Di qui la grande difficoltà di articolare democrazia formale e democrazia reale, il pericoloso inseguire nella complessità della vita politica le astrazioni ideali della teoria: Patrice Gueniffey197 e Pierre Rosanvallon198 hanno abilmente mostrato i cortocircuiti che ciò ha prodotto nella concezione della rappresentanza, dall’impossibilità di far coincidere Numero e Ragione all’inconciliabilità tra l’idea dell’eguaglianza politica e la necessaria costruzione di uno Stato razionale.

Questo, inevitabilmente, ha prodotto dirette conseguenze sia a livello istituzionale che di immaginario collettivo. La lotta frontale tra legittimità monarchica e legittimità dell’Assemblea nazionale spinse infatti il «terzo stato», preoccupato di conferire all’Assemblea una sovranità almeno equivalente a quella di cui godeva il re nell’Ancien Régime, a sancire una decisa rottura con la tradizione: la secolare rappresentanza degli ordini fu così sostituita da un’assemblea che avrebbe rappresentato la nazione nella sua unità. Si trattava di un capovolgimento speculare della dottrina monarchica, poiché i rappresentanti eletti dal popolo acquistarono il «potere d’incorporazione» – secondo il quale il corpo del re conteneva il corpo politico della nazione – che era fino ad allora attributo riservato al monarca. Attraverso l’istituzione di questo originale sistema di «rappresentanza assoluta» (l’efficace formula coniata da Robespierre permette di cogliere l’idea del trasferimento di assolutismo dall’autorità reale a quella rappresentativa) l’Assemblea recuperava a proprio profitto quella che Gauchet ha definito «una sorta di unione mistica del sovrano e dei suoi sudditi» trasformandola in «unità mistica dei rappresentanti e dei rappresentati», grazie alla quale la nazione indivisa poteva parlare al posto o, per meglio dire, attraverso la bocca dei suoi delegati199. La nazione, come indicato da Sieyès - primo teorico di

195 O. Rudelle ha insistito sull’importanza della lotta dei dreyfusardi nella formazione di una tradizione repubblicana

sia nel volume che ha curato assieme a S. Berstein, Le Modèle républicain, Paris, Presses universaitaires de France, 1992 che nel suo saggio La tradition républicaine, in «Pouvoirs», n° 42, 1987, p. 31.

196 L. Jaume, L’Etat républicain selon de Gaulle, in «Commentaire», 51, automne 1990, pp. 526-527.

197 P. Gueniffey, Le nombre et la raison: la Révolution française et les élections, Paris, École des hautes études en

sciences sociales, 1993.

198 P. Rosanvallon, Le Peuple introuvable. Histoire de la représentation démocratique en France, Paris, Gallimard,

1998.

199 M. Gauchet, L’héritage jacobin et le problème de la réprésentation, «Cahiers de Politique Autrement», 2000, 2,

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questa identificazione rappresentativa in base alla quale la Francia rivoluzionaria si ritrovava nei suoi rappresentanti come prima si era trovata nella persona del re - parlava e voleva attraverso i suoi rappresentanti come prima aveva parlato e voluto soltanto attraverso la persona del re. Come hanno mostrato autorevoli studiosi, specie del milieu dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, nel 1789 la rottura drastica con l’Ancien Régime si è operata nelle forme stesse proprie dell’ordine che si voleva distruggere200. Il «peccato» dei rivoluzionari francesi è decisamente l’astrazione: nel tentativo di sconvolgere l’esistente produssero un consolidamento, sotto altre forme, di ciò che invece già c’era.

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