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Il piano argomentativo

PARTE SECONDA L’IDEA DI INFINITO

II. 2. Il piano argomentativo

Le modalità di trattazione non riguardano solo il piano formale. Il peso della scelta metodica è innegabile, per quanto concerne sia le impostazioni iniziali, sia le conseguenze del pensiero. Lavorare sui concetti e sulle idee significa anche lavorare sul metodo. È impossibile separare l’infinito di Cartesio e di Levinas dall’argomentazione con cui lo presentano. Le scelte metodiche di entrambi costituiscono, oltre a ciò, esempi illuminanti nella storia della filosofia occidentale. L’innovazione dei contenuti va di pari passo con l’innovazione della forma.

Inizierò, prima di tutto, con alcuni aspetti della scrittura cartesiana. Il termine «idea» può assumere diverse sfumature e generare eventuali ambiguità. Beck e Scribano ne individuano alcune, in chiave sia qualitativa che quantitativa. Scribano individua un’accezione ristretta e una ampia di idea (connotazione quantitativa). Con la prima si indica qualsiasi atto del pensiero, con la seconda solo l’evento mentale che rappresenta qualcosa. Mentre in altre opere cartesiane si riscontra l’impiego di entrambe, nella Terza Meditazione l’autore fuga ogni dubbio.180 L’idea è solo ed esclusivamente la

rappresentazione di qualcosa, l’immagine mentale della cosa stessa.

Tra i miei pensieri, alcuni sono come le immagini delle cose, ed è a quelle sole che conviene propriamente il nome di idea: come quando mi rappresento un uomo, o una Chimera, o il Cielo, o un Angelo, o Dio stesso.181

180 Cfr. E. Scribano, Guida alla lettura delle Meditazioni Metafisiche di

Descartes, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 62-3.

181 “Entre mes pensées, quelques-unes sont comme les images des choses, et c'est à celles-là seules que convient proprement le nom d'idée : comme lorsque je me représente un homme, ou une Chimère, ou le Ciel, ou un Ange, ou Dieu même.” Terza Meditazione, in AT IX, 29. Con la presente sigla, mi riferisco a R. Descartes, Œuvres, a cura di C. Adam e P. Tannery, 12 voll., Cerf, Paris 1897-1913. La traduzione italiana dei passi è mia. Per eventuali confronti, segnalo le raccolte di opere cartesiane edite da Laterza (Cartesio, Opere filosofiche, a cura di E. Garin, 4 voll., Laterza, Bari 1986), UTET (Cartesio, Opere filosofiche, a cura di E. Lojacono, 2 voll., UTET, Torino 1994) e Bompiani (Cartesio, Opere 1637-1649, a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Milano 1994; Cartesio, Tutte le lettere, a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Milano 1994).

La distinzione di Beck ha invece una sfumatura qualitativa. L’idea può essere, in primo luogo, un modus cogitationis, una forma assunta dalla mente durante l’atto conoscitivo. Si tratta dell’impronta che l’oggetto lascia nell’intelletto, simile alla traccia di un sigillo sulla cera. In base a questa definizione, l’intelletto viene considerato come la totalità delle sue idee. D’altro canto, l’idea può essere ciò che la mente apprende, ovvero l’oggetto diretto del pensiero: si tratta non dell’oggetto mentale e indiretto (il contenuto dell’idea), ma dell’ente reale in quanto presente nell’idea.182

A un’attenta lettura, vi sono delle analogie tra la distinzione di Scribano e quella di Beck. In entrambi, l’idea può essere intesa come semplice atto mentale o come oggetto rappresentato. Tuttavia la posizione prospettica (quantitativa o qualitativa) fa la differenza: la distinzione di Scribano viene chiarita dallo stesso Cartesio, che predilige l’accezione ristretta e opera una reductio ad unum, quella di Beck mantiene la sua duplicità.

Nonostante ciò, nelle Meditazioni sembra prevalere la connotazione di idea in quanto oggetto del pensiero. Questo implica un riferimento all’esteriorità, la cui realtà deve essere considerata effettiva o perlomeno possibile. Solo in virtù di qualcosa «da rappresentare» l’idea è «rappresentazione», ovvero modalità della cosa in quanto intelligibile. Nella Terza Meditazione, l’idea è la cosa esterna (possibile o reale) presente nella mente come immagine, con il grado di realtà che compete all’esse in intellectu. Vedere l’idea non è vedere la cosa stessa, ma vederla nella modalità propria all’intelletto.

182 Cfr. L. J. Beck, The Metaphysics of Descartes. A Study of the Meditations, Oxford University Press, Oxford 1965, pp. 151-3.

Ecco perché, una volta postulata l’esistenza della cosa, l’idea non è mai falsa. La semplice presenza mentale rende qualunque idea vera. L’unica forma di falsità è materiale183 ed

è dovuta non alla coerenza interna dell’idea, bensì al rimando esterno. Le idee sono forme e non presentano alcuna composizione sensibile. Sono materialmente false in quanto oscure e confuse: l’idea del freddo, ad esempio, non si sa se rappresenti una privazione o qualcosa di positivo. Questa falsità, che non dipende dal giudizio ma dall’idea stessa, è dovuta al raffronto con le qualità sensibili.

Tale problema non si pone nel caso di Dio: la sua idea non si riferisce alla corporeità, quindi non può essere materialmente falsa. Bisogna tuttavia assicurarsi che la verità ideale corrisponda alla verità esistenziale. Per ottenere tale certezza, si può operare solo tramite dimostrazione. Nulla a che vedere dunque con l’esperienza: non solo essa è inapplicabile a Dio, ma non fornisce nemmeno l’evidenza del mondo esterno. Nella Terza Meditazione, le idee derivate dai sensi vengono quindi messe in dubbio. Affinché sia garantita la loro validità, bisogna prima dimostrare la presenza di un Dio non ingannatore.184

L’unica idea che non richiede argomentazioni è quella di io. L’esistenza del soggetto come sostanza pensante è oggetto di apprensione diretta: forse mi inganno, se mi inganno penso, se penso sono.185 Che poi l’individuo sia o non sia solo

sostanza pensante, è un’altra questione. L’idea di io come res

183 Cfr. Terza Meditazione, in AT IX, 34-5 e Risposte alle quarte obbiezioni, in AT IX, 180-2.

184 Cfr. Terza Meditazione, in AT IX, 27-9. 185 Cfr. Seconda Meditazione, in AT IX, 19.

cogitans è, per Cartesio, intuizione di un fatto immediato, fenomenologia della coscienza.

L’apprensione di me stesso mi permette di sapere che conosco. Eppure è necessaria un’altra entità, un criterio superiore al mio, per sapere come conosco. Non si tratta di un «come» modale, ma qualitativo. Se fossi io stesso il principio della verità, tutte le mie idee potrebbero egualmente essere valide. E non lo sono, altrimenti non ne avrei di confuse, né dubiterei. So solo di esistere, di pensare qualcosa e di essere imperfetto. L’esigenza che vi sia qualcosa fuori di me, qualcosa che metta fine al dubbio, mi conduce a dimostrare l’esistenza di Dio.

Non importa che corrisponda o meno al principio delle religioni positive: l’essenziale è che non sia una creazione della mente umana. Ecco perché a Cartesio non interessa l’opinione di Dio. Questa viene appresa da altri, appartiene all’educazione ricevuta, all’interiorizzazione di un determinato credo. Il Dio opinato postula già un’esistenza, l’idea la pone in questione (Gouhier).186 E la realtà dell’infinito sta

particolarmente a cuore a Cartesio: l’esistenza di Dio è fondamento dell’intera conoscenza umana.

La presenza del divino nel soggetto è un fatto della ragione, su cui non bisogna nutrire incertezze. Rappresenta, a differenza delle idee materialmente false, qualcosa di reale. Si può dunque mettere in dubbio l’esistenza del divino, ma non la chiarezza e la distinzione (dunque veridicità) dell’idea.187 La

186 Cfr. H. Gouhier, La pensée métaphysique de Descartes, Vrin, Paris 1987, p. 189.

187 Cfr. Terza Meditazione, in AT, 36 e Risposte alle quinte obbiezioni, in AT VII, 368. Cfr. anche E. Scribano, op. cit., pp. 63-4; O. Dekens, L’a priori

sua apriorità precede ogni dimostrazione: si potrebbe definire un «trascendentale pre-kantiano», indice della ricettività del pensiero per ciò che va oltre. Il finito presenta in sé il criterio dell’infinità.

Prima ancora di dedurne l’esistenza, l’infinito è oggetto di un’intuizione positiva, inferenza semplice ed evidente,188

nucleo autentico di ogni dimostrazione. Da questo nucleo procede poi l’argomentazione vera e propria. La sola intuizione, infatti, non basta ad assicurare la realtà dell’infinito. La chiarezza e la distinzione dell’idea ne affermano la coerenza interna. È comunque necessaria la presenza fuori dall’intelletto, perché l’infinito sia fondamento del finito.

Cartesio non attua alcuna fenomenologia dell’infinito. Presenta solo una fenomenologia della coscienza, rivelazione del cogito. Conoscere Dio richiede un passo ulteriore, un’operazione metodica che conduca dall’idea all’esistenza. E, se l’intuizione si rivela teoreticamente insufficiente, lo stesso vale per la rivelazione. Al Dio filosofico non ci si approccia come al Dio cristiano: per il secondo basta la fede, per il primo è necessaria la dimostrazione. Il secondo è oggetto di opinione, il primo di teoresi razionale.

«L’enseignement philosophique», vol. 51, n. 3, 2001, pp. 6-11.

188 Cfr. L. Devillairs, Descartes et la connaissance de Dieu, Vrin, Paris 2004, pp. 113-7; P. Fontan, Le fini et l’absolu. Itinéraires métaphysiques, Tequi, Paris 1990, pp. 71, 80-3. Guenancia utilizza in senso traslato l’espressione “dato immediato della coscienza”, dall’eco bergsoniano. Cfr. P. Guenancia,

Lire Descartes, Gallimard, Paris 2000, p. 170. Prediligo qui la lettura

kantiana di Dekens, dell’idea di Dio come trascendentale. Non sembra che l’infinito cartesiano si adegui alle intenzioni di Bergson, che parla di immediatezza solo nel caso di dati concreti, provenienti dall’esperienza. Cfr. H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, cit., p. 58.

Secondo Levinas, il metodo cartesiano riconduce tutto alla chiarezza e alla distinzione matematica dell’idea189:

l’intuizione è la fonte stessa della dimostrazione. Cartesio non sarebbe d’accordo, poiché la riterrebbe una forma di idealismo, una corrispondenza diretta tra esistenza mentale e reale. Non è possibile, secondo il filosofo francese, fare a meno di un’argomentazione razionale. Una volta escluso il ricorso all’esperienza, le uniche alternative sono l’intuizione intellettuale e la dimostrazione. La prima si può esercitare nel caso del cogito: l’idea di io ha come immediata condicio sine qua non l’esistenza dell’io concreto. Per l’esistenza di Dio manca un analogo riscontro e si rivela necessaria la seconda operazione. In Levinas, l’alternativa intuizione/dimostrazione viene invece superata a favore della rivelazione.

Nella sua meditazione sull’idea di Dio, Descartes ha disegnato […] il percorso straordinario di un pensiero che procede fino alla rottura dell’«io penso» […]: non sono le prove dell’esistenza di Dio che qui ci interessano, ma la rottura della coscienza, che non è un ripiego dell’inconscio, ma una disubriacatura o un risveglio che scuote il «sonno dogmatico» che dorme al fondo di ogni coscienza che riposa sull’oggetto.190

Il filosofo ebreo annuncia così il suo distacco dal metodo cartesiano: non gli interessa provare l’esistenza di Dio. Uno dei motivi attiene al procedimento: la dimostrazione è inadatta a rendere conto dell’infinito in me. Il divino nell’umano, l’infinito nel finito, si può cogliere solo tramite

189 Cfr. E. Lévinas, Prefazione a Di Dio che viene all’idea, cit., p. 12. 190 Id., Dio e la filosofia, in op. cit., p. 85.

una rivelazione, che mi destabilizza, rompe il mio equilibrio e mi costringe a uscire fuori di me, in direzione dell’alterità. Una seconda ragione per rigettare il metodo cartesiano è la seguente: non c’è alcuna esistenza da dimostrare. Se così fosse, si ricadrebbe in quell’ontologia della presenza che Levinas rifiuta decisamente. Dio non è da considerare esistente o non esistente, bensì assente.

Nella Prima Parte, ho evidenziato che l’assolutamente Altro non è nel presente. E non essere nel presente significa non essere presente. Il presente cronologico e il presente come presenza coincidono. L’assolutamente Altro si colloca in una dimensione pre-originaria. Il presente e la presenza sono categorie del soggetto, che è finito. In virtù della sua irriducibilità a tali categorie, l’alterità trascendente è infinita. Eppure l’infinito, pur essendo esteriore, non è estraneo al finito. Senza ricadere nella teologia negativa, Levinas precisa che, nonostante la sua assenza, l’Altro è comunque nel Medesimo.

Idea eccezionale, idea unica e, per Descartes, il pensare a Dio. Pensare che, nella sua fenomenologia, non si lascia ridurre, senza residuo, all’atto della coscienza di un soggetto, alla pura intenzionalità tematizzante. […] L’idea dell’Infinito conterrebbe più di ciò che essa non fosse in grado di contenere, più della propria capacità di cogito. Essa verrebbe a pensare, in qualche modo, al di là di ciò che pensa […]: pensiero dell’assoluto, senza che questo assoluto sia raggiunto come un termine, il che avrebbe significato ancora la finalità e la finitezza.191

La concezione di infinito nel finito è la più importante analogia tra il pensiero di Levinas e quello di Cartesio. Eppure le differenze non mancano. In Cartesio, si tratta di una presenza del divino nell’idea, corrispondente a una realtà esterna. In Levinas, si configura come traccia di un’assenza, di un’esteriorità oltre la presenza stessa.

A questo punto, è bene entrare nel vivo della Terza Meditazione. La prima prova dell’esistenza di Dio si basa su tre elementi cardine: il rapporto tra realitas obiectiva e realitas subiectiva, il principio di causalità e la concezione di perfezione. Beck considera essenziali solo i primi due,192 qui

ritengo importante anche il terzo.

Riguardo al primo elemento, bisogna definire innanzitutto i due termini. La realitas subiectiva riguarda il sub-iectum inteso come sub-stratum, ovvero come sub-stantia; la realitas obiectiva concerne invece l’obiectum dell’intelletto, ottenuto attraverso l’operazione dell’obijci. In breve, la realtà soggettiva si riferisce alla sostanza, dunque all’esistenza fuori dall’intelletto (esse extra intellectum), la realtà oggettiva alla presenza nell’intelletto (esse in intellectu).193 La riflessione su

tali termini è presente già nelle dispute scolastiche e Cartesio vi si colloca appieno.

Il filosofo riprende la nozione di realitas obiectiva e il rapporto con la realitas subiectiva dagli scotisti,194 sostenitori

192 Cfr. L. J. Beck, op. cit., pp. 164-9.

193 Cfr. Risposte alle prime obbiezioni, in AT IX, 81-2.

194 Di particolare interesse è lo studio di Francesco Marrone sull’influsso scotista nelle argomentazioni cartesiane. Cfr. F. Marrone, Res e realitas in

Descartes. Gli antecedenti scolastici della nozione cartesiana di «realitas obiectiva», Conte Editore, Lecce 2006, pp. 20, 46-7, 75, 100-200, 237-8,

di una certa corrispondenza tra presenza intramentale e presenza extramentale. Malgrado la realtà intellettuale non equivalga a quella della sostanza, non è neppure assimilabile a un puro nulla. Le idee, in quanto oggetti di pensiero, hanno dunque un certo grado di realtà. I tomisti ritengono, di contro, che la realitas obiectiva sia una pura denominazione estrinseca (obiezioni di Caterus195). Il primo punto cardine

della prova cartesiana è dunque il seguente: la realtà oggettiva dell’idea di Dio prevede la possibilità di un corrispettivo fuori dall’intelletto.

Per vedere se tale possibilità rimanda a un’esistenza reale, bisogna considerare il terzo elemento cardine, ovvero la nozione di perfezione. Non tutte le cose hanno lo stesso grado di realtà, obiectiva o subiectiva che sia. Nella Terza Meditazione, Cartesio divide gli enti in tre gruppi: i modi intrinseci, le sostanze finite e la sostanza infinita.196 I modi

devono sempre inerire a una sostanza, di conseguenza sono un puro nulla. Di per sé non hanno alcuna realtà, che viene attribuita unicamente al substratum. Si può dunque parlare di realtà solo nel caso delle sostanze.

Se i modi sono ontologicamente nulli, rimangono da considerare i due generi di sostanza, finita e infinita. Nella Terza Meditazione, non vengono illustrati tutti i possibili gradi della sostanza finita, ma solo le differenze con la sostanza infinita. L’unica sostanza finita di cui vi è certezza è, momentaneamente, il cogito. L’esistenza del soggetto pensante è già stata dimostrata e non risulta in possesso di una quantità di realtà infinita. Se il cogito l’avesse, si sarebbe

195 Cfr. Prime obbiezioni, in AT IX, 74-5. 196 Cfr. Terza meditazione, in AT IX 31-2.

già dato tutte le perfezioni, invece mette in dubbio ogni cosa, da se stesso, al mondo esterno, a Dio. Il soggetto non è perfetto, dunque non è massimamente reale: «realtà», per Cartesio, corrisponde a «perfezione».197

La realtà oggettiva dell’idea di io indica una quantità d’essere non assoluta. L’esistenza del cogito è evidente tanto quanto la sua limitatezza. Tutto ciò si ripercuote sulle capacità conoscitive. L’io esiste (come conferma l’intuizione) e presenta un grado di realtà intramentale corrispondente a un grado di realtà extramentale. La corrispondenza implica tuttavia, nel caso della realitas obiectiva, un minus quam rispetto a quella subiectiva: l’esistenza è sempre più vera dell’intellezione.

La realtà del cogito, sia obiectiva che subiectiva, è dunque certa ma limitata. Riguardo alla sostanza infinita, è necessario approfondire la questione, distinguendo tra realtà formale e realtà eminente. Quando un ente finito presenta in sé l’idea di una sostanza di grado uguale o inferiore, la contiene formaliter. Dire che qualcosa è contenuto formalmente nell’intelletto significa questo: l’intelletto ha in sé un’idea il cui corrispettivo esterno ha una realtà pari o inferiore al pensiero. Se il cogito ha in sé l’idea di un quadrupede, la contiene formaliter, così come l’idea di una pietra o di un altro uomo. Ma nel momento in cui il soggetto

197 Cfr. I. Agostini, Ne quidem ratione. Infinità ed unità di Dio in Descartes, Conte Editore, Lecce 2003, pp. 55-9; V. Carraud, Causa sive ratio. La

raison de la cause de Suarez à Leibniz, Paris, PUF, 2002, p. 187; E. Curley, Descartes against the skeptics, Basil Blackwell, Oxford 1978, p. 129; A.

Kenny, Descartes: a study of his philosophy, Random House, New York 1968, p. 134; N. K. Smith, New Studies in the Philosophy of Descartes, Macmillan, London 1952, p. 298.

pensante, che è finito, presenta in sé l’idea di una sostanza infinita, la contiene eminenter. È possibile avere una rappresentazione finita dell’infinito, cioè rimandare a un’esteriorità eminente: l’imperfetto ha in sé il perfetto.

Poiché, in effetti, quelle [idee] che mi rappresentano delle sostanze sono senza dubbio qualcosa in più, e contengono in sé (per così dire) più realtà oggettiva, cioè partecipano per rappresentazione a più gradi d’essere o di perfezione, rispetto a quelle che mi rappresentano solo dei modi o accidenti. Inoltre, quella tramite cui concepisco un Dio sovrano, eterno, infinito, immutabile, onnisciente, onnipotente, e creatore universale di tutte le cose che sono fuori di lui; quell’idea, dico, ha certamente in sé più realtà oggettiva di quelle attraverso cui mi vengono rappresentate le sostanze finite.198

In base ai gradi di perfezione, la sostanza infinita è superiore alle sostanze finite e ai modi. A questo punto, rimane da spiegare come un soggetto finito abbia in sé l’idea dell’infinito. Secondo l’argomentazione cartesiana, le altre idee potrebbe averle create lo stesso intelletto. Non avendo

198 “Car, en effet, celles [idées] qui me représentent des substances sont sans doute quelque chose de plus, et contiennent en soi (pour ainsi parler) plus de réalité objective, c’est-à-dire participent par représentation à plus de degrés d’être ou de perfection, que celles qui me représentent seulement des modes ou accidents. De plus, celle par laquelle je conçois un Dieu souverain, éternel, infini, immuable, tout connaissant, tout- puissant, et créateur universel de toutes les choses qui sont hors de lui ; celle-là, dis-je, a certainement en soi plus de réalité objective, que celles par qui les substances finies me sont représentées.” Terza Meditazione, in AT IX 31-2.

ancora dimostrato l’esistenza del mondo, il cogito potrebbe essere la causa delle idee delle sostanze finite. L’unica eccezione è l’idea di angelo, sostanza finita ma superiore all’io. Tuttavia non costituisce un problema, poiché potrebbe esser stata composta dall’idea di io e dall’idea di Dio.199 Se dal

simile proviene il simile e dal superiore l’inferiore, tutte le idee di sostanza finita possono avere origine dalla potenza creatrice dell’io. La loro realtà oggettiva è ivi presente formaliter. Come spiegare invece la presenza di una realtà eminente?

A questo punto, entra in gioco il principio di causalità. Nel caso dell’infinito, l’ideatum oltrepassa l’idea stessa. Tutte le idee presentano una realtà minore della res existens, tuttavia ciò non ne inficia la validità. L’ente è presente nell’idea obiective e in modo adeguato. L’idea di infinito oltrepassa ulteriormente lo scarto tra oggetto e idea, poiché i mezzi dell’intelletto non sono adeguati al contenimento del divino. A chi sostiene che l’infinito è un’estensione delle qualità umane, Cartesio obietta l’impossibilità di tale estensione.200

Un essere limitato non riesce a concepire l’illimitato: se si fermasse alla propria finitezza, non si sentirebbe a disagio,