Trattare, seppur a grandi linee, il fenomeno ampio e sfaccettato del riformismo leopoldino implica necessariamente anche una riflessione sulla politica ecclesiastica di Pietro Leopoldo, che rappresentò un punto obbligato di azione per il governo per poter successivamente riformare altri ambiti, apparentemente autonomi, ma che avevano legami di tipo organizzativo, giuridico, piuttosto che culturale con l’influenza del clero e delle strutture religiose toscane.
Nel Settecento si registrava in Toscana una rete estesissima di istituzioni ecclesiastiche, caratterizzate da uno spiccato particolarismo, ereditato dalle varie fasi evolutive attraversate dal Granducato e da ovvi motivi storici. Un particolarismo che si traduceva in un intreccio di esenzioni e privilegi, di autonomie e di giurisdizioni, su cui il Concilio di Trento aveva solo parzialmente agito. Tante erano le spine nel fianco di Pietro Leopoldo: la giurisdizione ecclesiastica, che impediva un’amministrazione razionale della giustizia; le estese proprietà del clero, spesso improduttive, che rappresentavano un ostacolo alla rinnovata politica agraria leopoldina; la presenza di una folta schiera di ecclesiastici, non solo parroci, ma anche monaci, eremiti, frati, suore, che andavano ad ingrossare la massa di sudditi inattivi economicamente; la presenza ingombrante dei legami tra Chiesa toscana e Curia, che contribuivano ad intaccare alcuni ambiti del potere statale55.
L’intenzione di Pietro Leopoldo era quella di trasformare il clero e le sue istituzioni in una struttura “utile” allo Stato, in linea con un approccio tipicamente asburgico capace di coniugare da un lato un profondo rispetto e una piena devozione per la religione cattolica e dall’altro una
54 L. MASCILLI MIGLIORINI, Pietro Leopoldo in Storia della civiltà toscana, vol. IV L’età dei Lumi cit., pp. 65-69. 55 M. ROSA, La Chiesa e la pietà illuminata in Storia della civiltà toscana, vol. IV L’età dei Lumi cit., pp. 93-121.
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ben chiara consapevolezza dei limiti che la Chiesa doveva mantenere rispetto al potere statale. Del resto non possiamo dimenticare che la Toscana era patria ormai da tempo di profondi sentimenti anti-curali e anti-ecclesiastici, su cui trovavano terreno fertile le più recenti correnti dell’illuminismo cattolico e del giansenismo francese. Lo stesso Pietro Leopoldo si era trovato molto presto esposto alle influenze gianseniste, vivissime e assai diffuse alla corte di Vienna grazie ai vicini collaboratori di Francesco Stefano e Maria Teresa. Dai documenti di archivio consultati dal Wandruszka, infatti, sappiamo che alcuni dei libri preferiti del Granduca erano opere della letteratura afferente al grande gruppo dei giansenisti francesi, in particolare citiamo gli scritti dell’abate Fleury e del teologo Pierre Nicole, l’Imitazione di Cristo di Kempis, e soprattutto L’anno spirituale dell’arcivescovo di Parigi, il cardinale Louis-Antoine de Noailles56. L’attaccamento di Pietro Leopoldo per questi testi era tale che non solo ne consigliava la lettura ai figli, ma addirittura alla sua amante Livia Raimondi57.
Parlare di giansenismo significa fare riferimento a un movimento interno alla Chiesa cattolica, che aveva preso le mosse dalla predicazione di Giansenio, appunto, a cavallo tra XVI e XVII secolo, e che propugnava un maggiore rigorismo morale, un miglioramento dei costumi e della disciplina ecclesiastica e un’avversione generale a tutte quelle manifestazioni religiose contraddistinte da pompa eccessiva, che sfociavano nella superstizione. Sulla scia di questo tipo di sensibilità si era in qualche modo evoluta anche quella parte dell’illuminismo sensibile alle suggestioni del cattolicesimo, il cui più importante esponente fu Ludovico Antonio Muratori, che cercò di dare una piattaforma di discussione dai toni moderati sulla necessaria riforma interna della Chiesa a partire da posizioni però “ortodosse” e non reputate apertamente pericolose dalla Curia romana. In tutto ciò se il primo giansenismo si era caratterizzato per una forte carica teologica, all’indomani della bolla Unigenitus esso concentrò il proprio interesse su posizioni orientate al rinnovamento interno della Chiesa. Particolarmente diffuso nella Francia del Settecento, sussisteva tuttavia una differenza sostanziale tra il giansenismo francese e quello
56 A. WANDRUSZKA, Pietro Leopoldo… cit., pp. 423-424. 57 IVI, p. 541.
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italiano: se il primo si configurò come un movimento dottrinario, interessato alle implicazioni teologiche di tale riforma, il secondo riuscì ad allearsi con il potere politico per portare avanti i propri obiettivi. Il caso toscano non fa eccezione58.
Tra i collaboratori di Pietro Leopoldo non mancavano, infatti, convinti assertori dei principi giansenisti, tra cui i nomi illustri di Giulio Rucellai, segretario del Regio Diritto, Antonio Martini, futuro sostituto dell’arcivescovo di Firenze Francesco Gaetano Incontri, e come non citare il celeberrimo Scipione de’ Ricci, braccio destro del Granduca nell’elaborazione della politica ecclesiastica degli anni ’8059. Per avere un approccio consapevole alla materia, in linea con la prassi di riforma che lo contraddistingueva, Pietro Leopoldo studiò i testi che erano stati prodotti da Pompeo Neri sulla questione della soppressione dei conventi e dal Rucellai sui diritti della Nunziatura apostolica, sull’Inquisizione, sul diritto d’asilo ecclesiastico e sulla possibilità di diminuire il numero dei monaci e dei chierici. Proprio il Rucellai venne incaricato dal Rosenberg, nei primi anni di regno leopoldino, di elaborare un piano di riforma organico in materia ecclesiastica, che venne esposto in una memoria articolata in 23 punti. Il documento copriva un’ampia gamma di questioni e di criticità, basti ricordarne alcune che possono dare un’idea della tendenza sottesa alle richieste: si chiedeva che i vescovi toscani, una volta ricevuta l’investitura, prestassero giuramento di fedeltà al Granduca; che le istruzioni inviate da Roma ai vescovi, ai tribunali ecclesiastici e in generale alle istituzioni ecclesiastiche venissero dapprima comunicate al governo per ottenerne l’exequatur; si proponeva inoltre la soppressione di alcuni vescovati, una diversa ripartizione delle circoscrizioni territoriali delle diocesi, la soppressione della giurisdizione ecclesiastica, la subordinazione dei conventi e degli ordini religiosi ai vescovi, il divieto di chiedere l’elemosina per gli ordini che possedessero beni, la fissazione di un’età minima per l’ammissione nei conventi e la limitazione del numero dei monaci per ogni istituto60.
58 M. ROSA, Il Giansenismo in Storia dell’Italia religiosa. L’età moderna. Vol. II, a cura di G. DE ROSA, T. GREGORY, A. VAUCHEZ, Laterza, 1994, pp. 231-476 e IDEM, Il Giansenismo nell’Italia del Settecento. Dalla riforma della Chiesa alla democrazia rivoluzionaria, Carocci, 2014.
59 C. FANTAPPIÈ, Riforme ecclesiastiche e resistenze sociali. La sperimentazione istituzionale nella diocesi di Prato
alla fine dell’antico regime, Bologna, Il Mulino, 1987.
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Tutti questi punti proposti dal Rucellai vennero nel corso del regno di Pietro Leopoldo presi in considerazione e risolti, o quantomeno sottoposti ad ulteriore riflessione e ad eventuali provvedimenti, più o meno incisivi. In particolare, dopo i primi passi mossi nel 176961, nel 1778 vennero diramate ai vescovi toscani quattro circolari, che inaugurarono la vera e propria politica ecclesiastica leopoldina. I vescovi, infatti, vennero invitati a fornire precise informazioni sulle istituzioni pie e le fondazioni esistenti nelle rispettive diocesi, così da poter fare una valutazione di questi enti e procedere ad una loro generale razionalizzazione. Non solo. Veniva disposto che i tribunali ecclesiastici, prima di pronunciare delle sentenze, si rivolgessero alle autorità civili per averne un parere e ottenessero l’approvazione sovrana. Dovevano poi essere create le premesse per controllare e possibilmente diminuire il numero dei componenti del clero secolare e regolare. Tale obiettivo doveva essere perseguito con due azioni: da un lato applicando criteri di selezione più rigorosi per la scelta dei candidati agli ordini sacri, dall’altro sopprimendo i piccoli conventi e riformando gli altri, cosicché si occupassero di attività utili alla società, quali la cura delle anime o l’assistenza ai malati e ai poveri.
La politica ecclesiastica leopoldina, infatti, ruotava attorno a una nuova figura di parroco, a cui venivano affidati compiti educativi, quali l’istruzione primaria e la prevenzione delle discordie familiari e di ogni genere di disordini, che erano in tutto e per tutto funzionali all’esigenza di disciplinamento sociale e al processo di costruzione dello Stato voluti da Pietro Leopoldo, dimostrando ancora una volta che nella mente del Granduca andavano sempre di pari passo il benessere del popolo e il suo controllo. Il parroco doveva, inoltre, contribuire alla formazione del consenso, dando un sostegno ideologico alle trasformazioni in atto e facendosi promotore di esse a livello locale. Non è un caso se Pietro Leopoldo incaricò proprio Scipione de’
61 È nel 1769 che vengono approvati definitivamente la limitazione del diritto di asilo ecclesiastico, con il conseguente arresto di tutti i criminali che avevano trovato rifugio e protezione in chiese e conventi, e l’obbligo dell’exequatur granducale per ogni atto o documento emesso da autorità straniere, Curia compresa. Sempre nello stesso anno venne elaborata la nuova legge di ammortamento relativa alla proprietà fondiaria di manomorta, su cui già negli anni della Reggenza si era intervenuti. Il provvedimento aveva molteplici obiettivi: in primo luogo un miglioramento e un perfezionamento dei mezzi legali per impedire una ulteriore estensione della proprietà fondiaria gestita da fondazioni religiose o di beneficenza; in secondo luogo una redistribuzione più equa delle proprietà ecclesiastiche a favore del clero secolare e a spese degli ordini religiosi; ed infine anche l’introduzione di un sistema di patti agrari ereditari che servisse a creare un nuovo ceto contadino possessore della terra che coltivava, in linea con le convinzioni fisiocratiche leopoldine.
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Ricci di elaborare un piano per la creazione di alcune accademie ecclesiastiche che si occupassero della formazione del clero secondo criteri più rispondenti agli obiettivi del Granduca62.
Furono gli anni ’80 a vedere la politica ecclesiastica di Pietro Leopoldo entrare nel vivo, con una fitta serie di provvedimenti e la convocazione del famoso Sinodo di Pistoia63. Fu proprio intorno al 1780 che il Ricci cominciò ad essere il consigliere preferito del Granduca per tutte le questioni di riforma della Chiesa, forse perché, venuto a mancare Giulio Rucellai, Pietro Leopoldo non riuscì a trovare nei successivi ministri per gli affari ecclesiastici – Stefano Bertolini, Antonio Mormorai, Vincenzo Martini – delle figure degne della sua fiducia64. Del resto Scipione de’ Ricci era una personalità di spicco nel movimento giansenista toscano, essendo entrato in contatto con monsignore Giovanni Gaetano Bottari e Monsignore Pier Francesco Foggini, i due capi del giansenismo a Roma, e con esponenti del movimento giansenista napoletano, francese e dei Paesi Bassi.
Incoraggiato dalle riforme ecclesiastiche che nel frattempo il fratello Giuseppe stava portando avanti in Austria, Pietro Leopoldo proseguì nella propria opera di riorganizzazione della Chiesa toscana, perseguendo un duplice obiettivo: rafforzare l’autorità dello Stato e dei vescovi toscani rispetto a Roma e attuare all’interno delle strutture ecclesiastiche delle riforme nel senso degli ideali del Cristianesimo delle origini, cercando così di coniugare principi giansenisti e correnti dell’illuminismo influenzate dalla religione cattolica.
Il 5 luglio 1782 venne abolito il Tribunale dell’Inquisizione, che esisteva in Toscana da oltre cinque secoli, ma che per la verità già sotto la Reggenza aveva perso alcuni dei suoi poteri ed aveva ridotto la sua importanza. Si trattava del tentativo di colpire uno dei simboli dell’autorità giudiziaria e morale della Chiesa in Italia, cercando di guadagnare allo Stato
62 C. FANTAPPIÈ, Promozione e controllo del clero nell’età leopoldina in La Toscana dei Lorena: riforme,
territorio, società, Atti del convegno di studi (Grosseto, 27-29 novembre 1987), Firenze, Olschki, 1989, pp. 233-250.
63 Per una ricostruzione delle vicende del Sinodo fatta in prima persona dal vescovo Ricci rimandiamo alle Lettere
di Scipione de’ Ricci a Pietro Leopoldo, 1780-1791, a cura di A. BOCHICCHI CAMAIANI e M. VERGA, Firenze, Olschki, 1992.
64 Per avere un’idea del rapporto tra Pietro Leopoldo e Scipione de’ Ricci rimandiamo di nuovo alle Lettere di
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importanti ambiti di giurisdizione65. Di fronte a questa decisione, il Granduca ottenne l’approvazione di Scipione de’ Ricci e dell’arcivescovo di Firenze Martini, mentre il papa Pio VI levò solo una debole protesta, che non ebbe particolari effetti sulla decisione granducale. Al tempo stesso Pietro Leopoldo e i suoi consiglieri cercarono con una serie di provvedimenti ad
hoc di indebolire i legami della Chiesa toscana con Roma, e di porre un freno all’invio di fondi
toscani alla Curia, assegnandoli piuttosto al miglioramento del clero secolare locale. Roma, dal canto suo, cercò di difendersi con contromisure di carattere economico, quali il divieto di esportazione dagli Stati della Chiesa dei cereali e di altre merci, con forte danno all’economia toscana ormai priva di barriere doganali di protezione.
Una volta compiuti questi primi passi per ridimensionare il legame con la Curia di Roma, Pietro Leopoldo procedette con una ferrea politica di soppressioni, disegnata su quella portata avanti da Giuseppe II in Lombardia, soppressioni che si abbatterono sulle organizzazioni regolari sia maschili che femminili e successivamente sulle confraternite66. L’insieme dei beni ottenuti da questa vasta azione di soppressioni andarono a confluire tra 1784 e 1785 nei cosiddetti Patrimoni ecclesiastici – corrispettivo dei “fondi di religione” della riforma giuseppina – che costituirono un fondo da cui redistribuire risorse nelle parrocchie in difficoltà. Come già era saltato agli occhi di Francesco Stefano, anche Pietro Leopoldo aveva riconosciuto l’assoluta necessità di una più equa ed opportuna ripartizione dei beni ecclesiastici, soprattutto in vista di un più eguale trattamento nei confronti delle parrocchie più povere. Non solo. Procedere ad una riorganizzazione delle proprietà della Chiesa sarebbe stato funzionale all’incentivo della piccola proprietà coltivatrice, che avrebbe potuto godere della legge di ammortamento del 1769. Tuttavia la scelta di agire su conventi, monasteri e confraternite generò non pochi malumori nelle fasce sociali più basse del Granducato. Se infatti già le soppressioni dei conventi maschili e femminili avevano sconvolto la natura dei rapporti secolari che animavano la società toscana,
65 Sul più generale impatto della politica leopoldina in merito alla giurisdizione ecclesiastica segnaliamo D. EDIGATI,
L’abolizione della giurisdizione temporale della Chiesa in Toscana. Linee ricostruttive di una lunga e complessa riforma leopoldina (1776-1784), in Studi senesi, CCXI, fasc. n. 2, 2009, pp. 281-336; fasc. n. 3, 2009, pp. 455-517.
66 D. TOCCAFONDI, La soppressione leopoldina delle confraternite tra riformismo ecclesiastico e politica sociale in Archivio storico pratese, LXI, 1985, pp. 143-172.
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fu la scelta di agire sulle confraternite che creò ulteriore disagio popolare, dato che l’associazionismo confraternale rappresentava uno dei riferimenti più saldi delle pratiche religiose collettive. Non è un caso, dunque, che la reazione alle riforme leopoldine tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, pur legata a motivi economici e sociali più profondi, si mosse inizialmente sotto il profilo religioso con la ricostituzione in vari luoghi delle confraternite soppresse, quasi a simboleggiare una riconquista rispetto a ciò che il riformismo leopoldino aveva cercato di alterare67.
Ad ogni modo Pietro Leopoldo non si lasciò intimorire e proseguì nella propria opera di riforma. Su proposta del Ricci, procedette gradualmente ad una riduzione del numero del clero secolare e dei parroci, almeno nelle città, per avere così ecclesiastici più attivi sul territorio, secondo la concezione giansenista del parroco che abbiamo riportato più sopra. Si agì radicalmente sulla gestione dei patrimoni ecclesiastici, che vennero sottoposti all’autorità del segretario del Regio Diritto e non più dei vescovi. Vennero modificate anche le caratteristiche della giurisdizione ecclesiastica: la competenza dei tribunali episcopali venne limitata alle materie religiose e alla irrogazione di pene minori e le persone di condizione ecclesiastica colpevoli di diritti comuni vennero sottoposte alla giurisdizione civile. Tali scelte andavano nella direzione di liberare il clero dalle preoccupazioni di ordine materiale, affinché potesse concentrarsi veramente sulla cura delle anime, permettendo allo stesso tempo che lo Stato si appropriasse di ulteriori spazi di potere che in precedenza appartenevano alla Chiesa e alle sue strutture.
La vera svolta si ebbe, infine, con la circolare del 2 agosto 1785, con cui l’episcopato toscano veniva invitato a convocare almeno ogni due anni un sinodo diocesano, allo scopo di riflettere sulla disciplina ecclesiastica, identificando ed eliminando tutti gli abusi che si fossero verificati. La richiesta venne accompagnata nel gennaio 1786 dai Cinquantasette punti
ecclesiastici compilati da S.A.R. e mandati circolarmente a tutti i Vescovi di Toscana, un
documento su cui Pietro Leopoldo aveva lavorato fin dal 1784, in cui erano contenuti
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sostanzialmente i principi cardine di tutto il programma di riforma religiosa leopoldina, affrontando sì la questione dei sinodi e delle loro caratteristiche, ma anche altri temi importanti, quali le misure per l’educazione dei parroci, la semplificazione e razionalizzazione del servizio religioso e dell’istruzione religiosa dei fedeli, la lotta contro il lusso e il culto eccessivo delle reliquie e dei santi, invitando generalmente a limitare e annullare tutte le esteriorità del cattolicesimo barocco e della religione popolare, così profondamente detestate dai giansenisti e riformatori.
I “Cinquantasette punti” vennero accompagnati dalla richiesta ai vescovi di inoltrare le loro opinioni in merito al contenuto del documento, dato che si trattava di “proposte a base di discussione”. Già le prime risposte date dai vescovi rivelavano dei contrasti profondi ed insanabili nel seno della Chiesa stessa, contrasti che il Granduca non aveva previsto. La grande maggioranza dell’episcopato toscano, infatti, con a capo gli arcivescovi di Firenze, Pisa e Siena si schierò in modo più o meno deciso contro il piano di riforma e le differenze di opinioni tra i diversi vescovi toscani dettero origine a dispute di varia entità. Proprio il Ricci, di fronte a questi animati conflitti interni, decise di dare una dimostrazione forte della propria adesione alle linee guida della riforma ecclesiastica leopoldina e il 31 luglio 1786 convocò per il 18 settembre il Sinodo diocesano a Pistoia. Fin dal principio, egli aveva cercato di dare a questa riunione un carattere ecumenico, che andasse oltre la Toscana e oltre la stessa Italia, coinvolgendo tutti coloro che aderivano al movimento giansenista. Alla luce di ciò si capisce perché la Chiesa scismatica di Utrecht e i giansenisti francesi inviarono osservazioni e memorie sul progetto toscano di riforme. Il sinodo pistoiese si aprì regolarmente il 18 settembre e proseguì per dieci giorni, promuovendo discussioni sugli argomenti proposti dal Granduca. Esisteva, tuttavia, una forte incongruenza all’interno dell’assemblea, in quanto si cercava di mettere insieme da un lato teologi e dotti canonisti e dall’altro una massa di circa 260 parroci, cappellani e canonici, invitati a intervenire nelle sedute. Si chiedeva, in sostanza, a un folto gruppo di uomini di chiesa, animati da uno spirito semplice e interessati soprattutto a questioni di ordine strettamente pratico, di pronunciarsi su faccende dottrinali estremamente complesse, che riguardavano la fede, gli
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ordinamenti religiosi, la grazia e la predestinazione. Sembrava quasi che si volesse elevare il sinodo pistoiese a un nuovo Concilio di Trento – come se ciò fosse stato possibile – tentando di elevare a dottrina universale della Chiesa una serie di principi ormai da oltre cento anni ripetutamente e solennemente condannati dai papi. È vero che le disposizioni pistoiesi vennero condannate dal pontefice solo nel 1794 con la bolla Auctorem Fidei, ma è evidente come l’obiettivo del sinodo invocato dal Ricci non era oggettivamente praticabile se non a costo di fortissime rotture con Roma68.
Il sinodo di Pistoia incoraggiava in un certo senso a proseguire il piano di riforma fino a realizzare quello che ne avrebbe dovuto essere il coronamento: la costituzione di un concilio nazionale toscano. In realtà su questo punto c’erano pareri discordanti, che per la maggioranza erano negativi o quantomeno evasivi, e che avrebbero dovuto suggerire cautela e prudenza. Lo stesso Ricci riteneva tatticamente più opportuno procedere alla convocazione di tutta una serie di sinodi diocesani, cominciando dalle diocesi rette da vescovi sicuramente favorevoli al piano di riforma. Convinto dai consigli dei propri collaboratori, Pietro Leopoldo finì per rinunciare alla convocazione immediata del concilio nazionale, ripiegando sull’idea di una riunione preparatoria dei vescovi toscani da tenere a Firenze, con lo scopo di realizzare intanto un fronte unito nell’episcopato toscano. Di fronte a questa prospettiva, vennero fatti cadere tutti i