• Non ci sono risultati.

Sì, ancora una volta, come sempre, il meglio deve ancora venire.

– A cosa stai pensando? Svegliati su! Ogre olie, ogre olie! Cazzo dai, dillo bene! O sei ubriaco?! – gridò arrabbiata Maiane, seduta sulle mie ginocchia, mentre svuotava il bicchierino pieno di un liquore danese scuro e amaro chiamato ogre olie, o qualcosa di simile.

–Ogreee olie, è giusto, no? – risposi già un po’ sbronzo. I tre clienti che si trovavano nel bar deserto risero di nuovo e, insieme a Maiane che scosse la testa e si risedette sulle mie ginocchia spappolate per dare enfasi a ciò che stava per dire, commentarono:

– Dai cavoli, è pazzesco che tu non riesca a pronunciarlo! Alla fin fine abbiamo capito che non ci sei proprio!

Maiane è una morettona che, tra gli studi di filologia spagnola e il desiderio di amare, è riuscita a farmi arrivare per la terza volta in questa parte d’ Europa.

Il caldo che c’è dentro il bar del quartiere di Norrebro, a Copenhagen, non ha nulla a che vedere con l’inverno che sta giungendo a nord del vecchio continente.

Fuori, le biciclette congelate ci aspettano per tornare all’appartamento di Maiane che, da quando mi ha al suo fianco, è contenta perché può esercitarsi con lo spagnolo imparato qualche anno prima in Spagna.

Ma come sono arrivato fin qui? Nove mesi prima ero sbarcato in Europa sedotto dalla dolcezza di una parigina. Ma questa è tutta un’altra storia. Di tutto il resto se n’è occupato il vento, l’arte di lasciarsi portare e i drink che si bevevano in una balera di Copenhagen, dove una cortissima minigonna esibita da un corpo poderoso mi prese la mano e mi fece volteggiare in mezzo alla pista. Dopo un bel po’ di tempo passato a ballare, senza che riuscissi ad mantenere il pieno controllo della situazione, lei, che si chiamava Maiane, mi disse addio. Quando riuscii a raggiungerla, la guardai negli occhi con lo sguardo da cucciolotto perduto e dissi:

– Per favore, portami con te.

– Va bene dai, accompagnami – ordinò.

Uscimmo in strada e mentre toglieva la catena dalla bicicletta mi chiese: – E io come faccio a portarti con me?

dell’altra…, proposi perfino di mettermi a correre a fianco a lei. Ed ecco quindi che mi interruppe.

– Ma dai guardati, non riesci nemmeno a reggerti in piedi. Senti, ascoltami. Domani pomeriggio alle sei ti aspetto a questo indirizzo. Cucinerò per te. Ok? – E mi mise tra le mani un foglietto di carta. Ecco come ci conoscemmo.

Maiane mi mostrò gli angoli nascosti di Copenhagen, come la cinematografia del Dogma o la Città Libera di Christiania con i suoi cani enormi e gli stand di marijuana e hashish; delle rotte turistiche nulla. Più volte la sentii dire “a te quelle cose non interessano”. E ora eravamo in un piccolo bar di Norrebro, desiderosi di approfittare dei nostri ultimi giorni insieme.

Maiane, brilla e felice, mi dice:

– Bene, visto che non riesci a pronunciarlo, spero almeno che l’ogre olie ti sia piaciuto. Vorrei che ti ricordassi di questo momento. Qualcosa mi dice che questa sarà l’ultima volta che mi vieni a trovare. E io di sicuro non ti vengo appresso. Sai una cosa? Tu possiedi ciò che in India un viaggiatore australiano credette di aver visto in me. Hai un’anima che vaga.

– Tesoro mio, si dice anima vagabonda – la corressi dolcemente.

– Sì, può anche essere, ma a me piace di più anima che vaga e non mi sembra sia proprio la stessa cosa, sai? Beh, non importa. Con me l’australiano si sbagliava, ma tu ce l’hai. Quel viaggiatore mi regalò una poesia il cui…si dice cui?, il cui autore scoprii essere danese. Bene, queste cose non sono mai casuali, vero? Tieni! – mi ordinò, dandomi una salviettina, l’anima e tutto ciò che aveva da dare. –Ho scritto la poesia per te.

Dopo averla letta, cercai di sorridere. La conservai nella tasca posteriore dei pantaloni, riconoscendo che mi apparteneva e perché volevo che mi accompagnasse per sempre. Allora Maiane, coinvolgendo tutti i presenti nel piccolo bar, alzò il suo drink e lanciò un travolgente “dai forza, facciamo un brindisi!”.

Toccava a me. Guardandola negli occhi, cercando di catturare il momento, alzai anche il mio bicchiere a mo’ di brindisi e, prima di svuotarlo, dissi:

2

Mancava un giorno all’arrivo dei Re Magi, anno 2002, e mi trovavo nell’aereo che mi avrebbe portato da Montevideo a Buenos Aires, dove ne avrei preso un altro per Miami. La mia destinazione finale era…la mia Montevideo! L’idea era di arrivare in Guatemala in aereo e da lì, via terra, iniziare a scendere lungo l’America Centrale e l’America del Sud fino a casa.

Questa cosa del viaggiare non mi era nuova. Cinque anni prima, già compiuti i trentasei, mi ero ritirato dal basket professionistico. Poco dopo, senza sapere con certezza cosa cercassi, vagai per circa un anno per India e Nepal, dove conobbi il mondo dei viaggiatori “zaino in spalla”. Sarebbero poi arrivati l’Europa, il Sudest asiatico… Con lo zaino in spalla sentivo che mi avanzava il tempo, mi mancavano i soldi e che anziché uno, i viaggi che facevo erano tre: il primo consisteva nello scoprire la cultura, la storia e la geografia del paese per il quale transitavo, il secondo nel condividere tutto con altri viandanti, e il terzo era quello che va in direzione opposta: il viaggio interiore.

Le diverse religioni e posizioni filosofiche sono sempre state accumunate dal principio del “conosci te stesso”. Ed è grazie a queste avventure lontano da casa che sperimentai che, quando ci si allontana dal personaggio che si è dovuto interpretare nel

proprio mondo, si conosce una nuova realtà su chi si è veramente.

Per questa nuova avventura che stava per iniziare, a chi lasciavo a casa avevo detto che sarei stato via al massimo cinque mesi. Ma una volta seduto in aereo, dopo averci pensato un po’, mi resi conto che, se veramente ciò che volevo fare era viaggiare questo viaggio, sarei tornato, come minimo, a fine anno. Ora che ero finalmente riuscito a sistemare tutto per partire, sapere quando sarei tornato era il meno.

Mi ero lasciato alle spalle lo stressante impegno familiare del 24 dicembre, che trovavo ogni volta sempre più inutile. Il 31 invece è la festa dell’anno, è come il giorno della liberazione, che ognuno decide di trascorrere con chi preferisce. E il principale argomento di conversazione quest’anno era stata la crisi istituzionale argentina, per la quale il presidente De la Rúa aveva lasciato in elicottero la Casa Rosada. Così come il gruppo rock argentino Las Manos de Filippi aveva predetto: “Hanno il potere ma lo perderanno, hanno il potere ma lo perderanno!”.

succedettero cinque presidenti, in una crisi che in una democrazia occidentale si era vista poche volte; andavamo verso un paese completamente disorganizzato. Fortunatamente sarebbe stato solo per poco, il tempo necessario per essere trasferiti all'aereo successivo, visto che le notizie che ci giungevano riferivano di soprusi di ogni tipo da parte delle forze di Polizia.

Leggevo la mia guida del viaggiatore, nel breve tragitto di venticinque minuti che ci avrebbe portati da Montevideo a Buenos Aires, quando un uomo sulla quarantina, che dall’accento sembrava spagnolo, fermo nel corridoio, cercava di sistemare le sue cose nello scomparto sopra la mia testa, mentre a voce alta discuteva e si beccava con la moglie, che dal modo di parlare doveva essere uruguayana. La sua più grande preoccupazione sembrava essere quella di sistemare dei quadri e non la smetteva di dar fastidio venendomi addosso.

– Attenzione, signore! Stia attento! – gli chiesi.

Esortato dall’hostess, senza chiedere scusa e di malumore, risistemò le sue cose in un modo che ancora non gli andava a genio e tornò al suo posto, dove continuò a discutere con la moglie.

L’aereo era atterrato sulla pista di Ezeiza e, come sempre succede, i passeggeri cercavano di alzarsi il più velocemente possibile per recuperare le proprie cose e uscire. In tutto questo scompiglio, quello che aveva più fretta di tutti era il solito spagnolo, ancora furibondo, che continuava a litigare con la moglie. Nuovamente agitato, iniziò a tirar fuori il suo borsone insieme ai quadri, avvolti in cartoni costruiti appositamente. Quel tizio infastidiva tutti quanti con l'ansia e l'egoismo che si portava appresso. Cercavo di non farci troppo caso e feci un cenno alla persona che avevo di fianco, dal lato finestrino, come per dire "mi sa che dobbiamo aspettare". Improvvisamente, uno dei quadri cadde e mi colpì il naso. Dopodiché ci pensò il borsone ad arrivarmi in testa. Tutto in una frazione di secondo. A quel punto gli urlai:

– Ma cosa diavolo sta facendo?! Stia attento, per favore! – mentre mi toglievo il borsone dal petto, dove era finito dopo che mi era rimbalzato in testa, buttandolo nel corridoio e cercando il quadro per darglielo.

– Prenda il suo quadro e la smetta di dar fastidio, per favore! – gli dissi dandogli il quadro.

Il tizio, in preda all’ansia, mi ordinò: – Faccia attenzione con quel quadro!

quadro nel corridoio e l’uomo mi tirò un pugno. Mi difesi come potevo, mentre contemporaneamente cercavo di slacciarmi la cintura di sicurezza per alzarmi. Quando ci riuscii, l'uomo tornò indietro in segno di rivolta e incazzato nero gli gridai:

– Brutto Figlio di Puttana! Non si rende conto che non è da solo su questo aereo? Deficiente!

Sua moglie, che si era alzata, si avvicinò e con disprezzo mi disse:

– Che cavolo fa, svergognato che non è altro! Che va in giro in espadrillas!

– Sì sì, può essere, e allora? Ma da come la tratta suo marito, pure lei è una svergognata – risposi senza indugi.

L’incidente richiamò l’attenzione del resto dei passeggeri. Lasciai passare quelli che stavano uscendo, ma l’uomo che andava dalla mia stessa parte, un altro spagnolo, era indignato quanto me:

−Che stupido questo qui! Bisogna essere proprio sfortunati per incontrare una persona del genere – si lamentò.

Amareggiato per l'incidente e con l'aereo ormai vuoto, stavo per uscire quando l'hostess mi chiamò per comunicarmi, più come un’eroina che con autorevolezza:

– Signore, deve accompagnarmi alla Polizia. L'hanno denunciata. Non possiamo incorrere a problemi di questo tipo. Siamo in guerra e cose del genere non possiamo permettercele!

Il siamo in guerra era riferito alle Torri Gemelle, abbattute alcuni mesi prima dagli aerei che vi erano andati addosso.

−Ah e così dovrei accompagnarla? Allora la sa una cosa? Io denuncio queste due persone per aggressione e qui ne ho le prove: guardi com'è ridotto il mio naso! E inoltre un passeggero, il mio vicino di posto, potrà testimoniare a mio favore, per cui andiamo pure alla Polizia.

Avendo vissuto tre anni in Argentina, sapevo molto bene cos’era la Polizia argentina. Se avessero saputo che avevo appena cominciato un viaggio di mesi, avrebbero intuito che avevo con me un po' di denaro e chissà dove sarebbe potuta arrivare questa storia iniziata sull’aereo, soprattutto con le paranoie che stavano crescendo a livello mondiale per la caduta delle torri, e ancora peggio, trattandosi di un cittadino europeo contro un uruguayano.

− Aspetti che chiamo il mio testimone e andiamo subito – ripetei all'hostess.

− Sì ok, ma sa che qui c'è un testimone! Per cui quando entreremo dalla Polizia, dimostrerò che quello che è stato aggredito sono io.

L'hostess, che ovviamente già parteggiava per uno dei due, iniziò a calmarsi. Lei stessa avrebbe dovuto dare la sua versione. Il mondo stava impazzendo e quello che successe su quell'aereo era solo una dimostrazione di ciò che accadeva in tutto il pianeta.

Documenti correlati