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Ormai mi ero deciso. La cosa migliore da fare era volare alla città colombiana di Cartagena de Indias e da lì scendere fino a casa via terra, come avevo pianificato fin dall’inizio. Oltretutto, se non fossi andato in Colombia adesso che nessuno voleva andarci, quando ci sarei andato? Con l’arrivo del turismo di massa? La domanda da farsi ora è: ma scendere per dove? La testa andò e tornò mille volte finché mi resi conto che visto che nell’ostello regnava il silenzio più totale, era di sicuro il momento migliore per sedermi e cercare di meditarci un po’ su. Posai due coperte, una sopra l’altra, mi ci sedetti sopra a gambe incrociate e, cercando almeno all’inizio di tenere la schiena dritta, mi concentrai sulla respirazione. Il silenzio e la calma della stanza erano mie grandi alleate, ma la mia mente sperduta, sempre agitata, saltava qua e là, sognando quale sarebbe stato il mio prossimo itinerario. Ma la mia mente era così gremita che non riuscivo a procedere con la meditazione e così, convinto del fatto che non ci fosse un modo per impedire alla mia testa di vagare, la lasciai fluire affinché facesse ciò che voleva. E come succede ogni volta che ci si lascia andare, accadde: volare fino a Cartagena per poi proseguire fino alla Città Perduta degli indios Kogui… Vedere com’è il Venezuela di Chávez… L’altopiano della Gran Sábana, salire il monte Roraima… Il salto del Ángel… Scendere fino a Manaus… Da lì in barca attraverso il Rio delle Amazzoni fino a Iquitos…

Abituato al fatto di non riuscire a concentrarmi, scesi dalle coperte, cercai nello zaino la guida del viaggiatore dell’America del Sud e mi misi a leggere. Passarono delle ore. Il grande schema era lì, pronto. Uscii, andai in diverse agenzie di viaggio e riuscii a trovare un biglietto aereo fino a Cartagena de Indias per il mattino seguente. Dopodiché mangiai e tornai alla mia stanza per riordinare lo zaino, contare i soldi e pianificare l’arrivo in questa Colombia al tempo stesso così complicata e seduttrice. Mi misi a sfogliare il diario di viaggio in cerca di annotazioni e chiudendolo, nella prima pagina, come se fosse lo spirito di tutto ciò che c’era scritto al suo interno, riposava la “Poesia a Copenhagen” che Maiane mi aveva regalato. La rilessi per l’ennesima volta e la malinconica allegria piena di accettazione che sentii per la prima volta in quel piccolo bar di Copenhagen, mi invase di nuovo. Sì, Maiane aveva ragione.

Vibravo insieme all’insonnia che si fa sentire quando sta per succedere qualcosa di grandioso, ma riuscii comunque a dormire un po’, anche grazie alla tranquillità che

c’era nella stanza, visto che Angie era andata di nuovo a fare festa e aveva portato tutti con sé. La sveglia suonò e mi alzai senza fretta, dimenticando per un momento il mio grande amico, la scimmia King Kong, nel letto e con lui anche l’intero universo delle ansie, questo compagno inseparabile dei miei ultimi vent’anni di vita che mi ha fatto comprendere che, alla fine, nel cammino verso l’eterno ritorno, non è la morte ad essere la maggiore tra le disgrazie ma la paura di vivere.

Mi feci una doccia, mi gustai appieno la colazione gratuita, sistemai per l’ennesima volta lo zaino e mentre lo alzavo sentii la motivazione che nasce dalla comodità ormai perduta. Scesi in strada e calpestai quel marciapiede di sempre, quello del destino, dove la sfida del vivere è più forte dell’incuranza del sopravvivere; ecco che si fece sentire una voce femminile per niente nuova, ricca in giovinezza e alcol:

– Uruguayano! Coglione! – non era necessario girarsi per sapere che era Angie al suo ritorno da un’altra notte come si deve.

– Scheisse! Te ne vai senza salutare, maledetto! Non immagini nemmeno la festa che ti sei perso! Lo so, lo so, non ricominciare con la storia del tuo amico King Kong e del fatto che ti piace ma solo ogni tanto, che lo so già, lo so, non me lo dire! – chiedeva barcollando e facendo di no con le mani. – Tieni, per dirmi addio almeno fumati una sigaretta insieme a me – disse allungandomi il pacchetto.

– Che bello esserci trovati qui! – iniziai. – Si vede che ti sei divertita! Guarda che occhi che hai! – e in un attimo già avevo una sigaretta in mano. – Sai una cosa? Fa ciò che c’è da fare. La vita è una festa e se quello che ti piace è vivere la notte, dacci dentro! – Sìii! Diamoci dentro! E dove hai deciso di andare? – volle sapere, mentre scuoteva le braccia al ritmo della musica elettronica che continuava a suonare nella sua mente.

– Volerò fino a Cartagena.

– Sìii, Colombia! Dacci dentro! – barcollava nella sua allegria. – Ah e per la questione Darién, non ti preoccupare. Ci si può dimenticare dei sogni, ma sono i sogni a non dimenticarsi di te. Vedrai.

– Questa mi è piaciuta, più tardi me la scrivo. Va bene dai, un abbraccio, compagna di viaggio. Di sicuro ci rincontreremo in giro per il mondo – dissi mentre cercavo di defilarmi da questa Angie così presa dalla conversazione per andare a prendere il mio volo.

– Ehi, aspetta un attimo… non accendi la sigaretta? – No, no. Me la fumo dopo – mentii.

– Va bene, fumatela dopo, ma aspetta un attimo. Lascia che ti faccia qualche domandina che sono curiosa. Beh, in questi giorni mi hai conosciuta e sai che sono curiosa, vero? – mi chiese in intimità colei che fino a un momento prima era ancora sulla pista da ballo. – Ti confesso che non ho mai creduto troppo alla storia del giocatore di basket, dell’allenatore, eccetera, eccetera. Magari l’hai anche fatto, peròòò… non ti sto dicendo che sia una bugia, peròòò… di cosa ti occupi? Posso indovinare?

– Sì, certo – e lasciando per il momento in disparte il volo, la Colombia e tutti i miei sogni, riposi a terra lo zaino, disposto a non lasciarmi scappare questa ricompensa inaspettata. Approfittare dei bei momenti che la vita offre significa dispensare allegria.

– Ho visto che scrivevi tutto il tempo in foglietti, salviette e chi più ne ha più ne metta – inizia con chiarezza, facendo scorrere l’intera notte nella sua mente. – Zittirti mentre pensi, chiedere, ascoltare finché ce n'è. Tu sei una cosa del tipo un giornalista, ooo forse un poeta! Ho ragione?

– Poeta – mentii super convinto.

– Sìii! Lo sapevo – festeggiò, alzando le braccia al cielo. – Lo sapevo! – Se vuoi, posso regalarti una poesia. Credo che ti piacerà.

– Sì, certo che la voglio – accettò entusiasta. – Va bene, spero che ti rimanga impressa, vado.

– Aspetta, aspetta, sediamoci sul cordolo del marciapiede – chiese mentre accendeva una sigaretta cercando qualcosa che la preparasse a quel momento, che era sempre più vicino. – Adesso sì, poeta uruguayano e coglione, forza!

Seduti vicini vicini sul cordolo del marciapiede, il suo alito da alcol, il suo naso chiuso, il fumo della sua sigaretta e la traspirazione del suo corpo si mescolarono alla mia barba incolta, alla mia maglietta rotta, al mio pantalone sporco e alla mia smisurata ambizione di trovare la pace. Con lentezza solenne, tirai fuori dalla sacca una ruvida bottiglia di plastica piena d’acqua. Ne bevvi un grande sorso. È difficile che la vita possa mettersi meglio di così.

– Va bene, si intitola “Anime che vagano”. Vado…spero di non sbagliarmi. E lasciai che uscisse.

La mia anima che vaga e la mia fame di mondo Mandarono a correre il mio cuore.

che inquieto va in cerca della quiete.

Trovai una tranquillità al di sopra del tempo

e dello spazio, che mise a tacere la voce delle tormente, perché tu sei la persona con cui posso vagare

e sentirmi ovunque come a casa.

Il tipico silenzio che nasce dall’incontro tra anime, scese su di noi. Dopo un momento, mi alzai e mi rimisi lo zaino in spalla. Quando ero già qualche passo più lontano, la sentii dire:

– Mi è piaciuta molto. Moltissimo! Questa cosa dell’anima che vaga! L’anima che vaga! – ripeteva più volte.

Continuai a camminare e arrivando all’angolo mi girai a guardarla per l’ultima volta. Continuava a stare seduta e brillava, immersa nella sua scoperta, e io, soddisfatto, volando in quel sorriso che viene da dentro e risveglia il vagare, mi lasciai andare senza fretta per le strade della città che dava il via alla propria quotidianità.

Cammino lungo il marciapiede, senza calma né fretta, anonimo, invisibile, senza passato né futuro, sto vedendo tutto, quando la fortissima necessità di catturare il momento mi paralizza. Poso lo zaino e mi ci siedo sopra, cerco l’accendino dentro la mia sacca e, prendendo per i baffi la tigre delle dipendenze, accendo la sigaretta che Angie mi aveva dato.

L’agitazione della città al risveglio, aveva un testimone, uno spettatore che non riusciva a credere a ciò che vedeva. Da dov’ero rividi tutto: un ragazzotto impaurito che da un’alta pietra non trova il coraggio per buttarsi nel lago e che fa scoppiare tutti in una grossa risata, che però con dolore si spegne di fronte alla visione di un bimbo che lotta con un cane per un avanzo di pollo, ma un confine si avvicina e, mentre un piccolo aereo di contrabbandieri ci sorvola, Virginie e Silvine cantano in coro “abbiamo tutta la vita per divertirci, tutta la morte per riposarci”, ed è a El Mozote e nei Campi della Morte dove ogni cosa perde di significato, quindi Zed in una strada deserta che si mette a danzare il suo ballo del pick-up, e vedo una spallina piena di medaglie, un’isola di vulcani, un invalido che mi deruba, io che mi perdo per l’Himalaya e sento Meli che, su una panchina di una piazza, mentre il sole sorge, mi sussurra: “Dormi, Bebito, dormi…

Like a rolling stone, Bebito… Like a rolling stone”.

Ed è un apprendimento sperimentale, scoprire che c’è un posto verso cui correre, dove non esiste la fretta e dove la presenza del passato e l’aspettativa del futuro si

dissolvono di fronte all’eternità del presente e che una montagna innevata, una cascata, un fiume di grande portata e il pianto di un bimbo appena nato, ci mettono di fronte a quelle che sono le vere cose da esaltare.

E così vado avanti, coi dolori in spalla, unendo frammenti degli ieri che non mentono, per poi poter credere di reinventarmi futuri migliori, lasciandomi alle spalle il timore della pazzia affinché non si prenda il meglio di me, seguendo obbediente questa vocina interna che appartiene alle antiche e dimenticate grida della terra, che continuano a insegnare che solamente le cose semplici ed essenziali portano alla pienezza, che peccato significa non conoscere se stessi e che il circolare delirio esistenziale del transitare in questo viaggio, nel quale viviamo e amiamo nel miglior modo possibile, come in questo libro, non ha né principio né fine.

La sigaretta immobile, ormai diventata cenere, mi brucia le dita dissolvendo l’illusione. Continuo a stare seduto sul mio zaino, sul marciapiede di un’agitata strada della capitale. Questo viaggio che ancora non si è concluso, in un certo senso già mi manca e ansioso aspetto quello che ancora deve iniziare.

Tutto continua, si rinnova, si tranquillizza sapendo che il mio posto nel mondo è ovunque mi porti la mia anima che vaga, comprendendo che non esiste un arrivo, esiste solo un percorso, ed è così bello che perfino le frustrazioni più pesanti si trasformano in ricordi sinceri. È lei, la mia anima che deambula attraverso misteri turbolenti e miracoli intangibili, colei che non dubita e, senza paura, nonostante la troppa ingiustizia, segue quest’enigma che chiamano speranza.

Con difficoltà, ancora una volta alzo lo zaino della ricerca, carico di più di quarant’anni di allegria a intermittenza, e me lo metto su quella schiena ormai scricchiolante. Dentro di me si agitano magliaia di dubbi di fronte alla calma della mia unica certezza: il meglio deve ancora venire.

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