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La popolarità di questi rosari è confermata dal fatto che lo stesso Vaticano si rifornisce direttamente dalla Santa Casa. Il segretario

di Paolo VI, monsignor Macchi, in occasione della presentazione di un monumento cittadino da dedicare alle coronare ha ricordato che anche lui si rivolgeva spesso alle fabbriche di Loreto, per ordinare i rosari che il pontefice regalava poi ai suoi ospiti illustri

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. Ma alla popolarità delle corone di Loreto non corrispondevano condizioni eque per coloro che le realizzavano.

E lì le pagavano quanto volevano loro: quattro soldi. Poi queste coronare non avevano la fabbrica, perché tutto fuori casa facevano, con il banchetto.

Io quando andavo su vedevo i gruppi di dieci, dodici donne. Tu sei stata mai a Loreto? Monte Reale. Tu andavi su per la strada di Monte Reale e vedevi tutti gruppi di donne fuori dal portone, poi in inverno, invece,

42 Lo strumento al quale si riferisce Derna sono pinze chiamate ‘mojole’ e vengono utilizzate per inanellare i fili di metallo tra un grano e l’altro del rosario.

43 B. Longarini, Un monumento per ricordare le “coronare”, in “Corriere adriatico”, 22 febbraio 1996.

quelle di Monte Reale avevano un locale. Molte altre, invece, le andavano a fare dentro la sezione del partito. Sì, sì, le andavano a fare lì, in inverno, quando era freddo. A Costa Bianca, una frazione di Loreto, una frazione abbastanza consistente, tutti facevano le corone: anche il marito aveva imparato, quando tornava da lavorare si metteva anche lui a fare le corone, perché più ne facevi, più ti pagavano. Però non c’era un contratto. A peso, così, facevano per conto loro, senza nessuna regola. Quando io andavo su, facevo tutte le tappe: “Quanto vi dà? Quanto non vi dà?”. Era un lavoro considerato quasi un passatempo per quelli della Santa Casa. “Ma le donne si trastullano, si mettono lì, si trastullano”. Si trastullano! Invece lavoravano anche la sera a casa, sai la vita era grama. È stato un lavoro estenuante cambiare le cose. Non è come la fabbrica che le trovi tutte lì, siamo andati a rintracciarle tutte, porta a porta. Tutte le donne facevano le corone perché era considerato quasi un dovere per la chiesa, un lavoro così, fatto senza importanza, invece era un’attività fiorente, le corone venivano anche esportate44.

Sennonché abbiamo conosciuto un signore del Consiglio di amministra-zione della Casa di Loreto, perché la Casa di Loreto aveva un Consiglio di amministrazione per amministrare tutti i beni, i terreni, eccetera. Sic-come io facevo parte, Sic-come rappresentante della Camera del lavoro, della Commissione assistenza della prefettura di Loreto - per l’assistenza agli anziani, ai poveri… -, in questa Commissione della prefettura c’era questo signore che ci ha aiutato parecchio.

Iniziamo ad organizzare delle riunioni con queste donne. Dunque una l’ab-biamo fatta a Costa Bianca, dentro un locale che ci ha prestato un signore che aveva un biroccio, un carretto. Considera la miseria di quei tempi! Un’altra l’abbiamo fatta a casa di un’operaia, su a Monte Reale. E un’altra sotto Loreto, da una che aveva una bancarella, perché molte donne hanno le bancarelle e vendono i giocattoli… i ricordini45. Quindi abbiamo fatto queste assemblee, abbiamo detto che era un lavoro come un altro, che doveva essere considerato di più. Abbiamo faticato parecchio, perché la Santa Casa dava lavoro a molta gente, avevano paura. Chi lo aveva mai affrontato questo problema? Era un monopolio, tutti dipendevano dalla chiesa lì. La chiesa di Loreto aveva tante, tantissime attività, direi un 80% circa degli abitanti dipendeva dalla chiesa.

44 Si è calcolato che negli anni cinquanta le coronare erano circa tremila (ibidem).

45 Un’altra figura tradizionale di Loreto è quella della ‘bancarola’, la venditrice ambulante che espone la merce, solitamente souvenir della basilica o le stesse corone, su piccoli banchetti (ibidem).

Cinque volte abbiamo fatto buco. Riunisciti, riunisciti, non siamo riusciti a convincere queste donne ad alzare la testa. Allora che cosa abbiamo fatto?

“Qui bisogna fare un atto di forza perché queste donne siano appoggiate da tutta la famiglia”. Abbiamo coinvolto anche gli uomini, perché anche loro spesso lavoravano le corone. Ho fatto una riunione in sezione, ho spiegato che queste donne avevano bisogno di un sostegno lì, a Loreto, altrimenti non ci potevamo riuscire. “Ma cosa fai? Dopo non ci danno più il lavoro!”. Le solite storie e io dicevo: “Ma se non le fate voi le corone, chi altro le fa? Dove le portano, ad Ancona? Nessun altro le sa fare!”. Insomma c’era da informare e creare uno spirito di classe in queste donne che non sapevano niente… Alla fine siamo riusciti a fare un contratto. E quando hanno preso il primo salario c’è stata una gran festa: il doppio di quello che prendevano abbiamo ottenuto, ma ci è voluto… Adesso ho saputo che faranno il monumento alle coronare.

Le filandaie

Avevo sempre desiderato poter entrare in una filanda e rendermi conto direttamente della vita che vi si conduceva e, finalmente, ho avuto la possibilità di soddisfare il mio desiderio. Sono accompagnata da una ope-raia della fabbrica che mi farà da guida nella visita. Eccoci. Quel grosso fabbricato che si vede laggiù e verso il quale ci avviciniamo, è la filanda;

mano a mano che ci si accosta, un odore sempre più acuto e sgradevole colpisce le narici e sembra voglia togliere il respiro. Si giunge, infine, alla filanda e si entra nel fabbricato. Una vampata di calore ti investe ed avvolge il tuo corpo all’ingresso del laboratorio. Sembra di entrare nei locali delle macchine di una nave. […] Attraverso uno spazioso scalone saliamo al piano superiore. Questo è diviso in un grande camerone dove si trovano le bacinelle per la prima trasformazione del bozzolo, ed in altre stanze nelle quali avviene la scelta delle matasse di seta, l’imballaggio delle stesse che verranno inviate al mercato. Ma dove, effettivamente, ci si può rendere conto del grave e faticoso lavoro che la produzione della seta comporta, è il reparto della filatura del bozzolo. Vi si respira un’aria afosa, pregna di umidità provocata dal vapore acqueo che si innalza dalle bacinelle. Acco-stiamoci ad una di esse, ed osserviamo il lavoro che vi si svolge. Vi sono addette due lavoratrici, l’‘esperta’ e l’‘apprendista’; la anziana immerge le sue mani nell’acqua bollente e prende il bandolo del filo del bozzolo che viene passato alla giovane la quale provvede a legarlo al mozzo che,

giran-do velocemente, forma la grossa matassa. Questo lavoro continuerà ogni giorno, ininterrottamente, per otto ore consecutive. Vedendole all’opera ci si può rendere, facilmente, conto della vita e delle fatiche che le operaie filandaie conducono. Basta guardarle per comprendere quanto faticoso sia il loro lavoro. Quasi tutte emaciate, esangui, con evidenti segni di anemia.

E come potrebbe essere diversamente dal momento che sono costrette a lavorare in un caldo opprimente, con le mani continuamente immerse nell’acqua bollente, in un ambiente chiuso dove l’aria circola a stento? Le operaie sono quasi tutte taciturne; da parte di qualcuna di esse, di tanto in tanto, si leva qualche canto che, però, subito cessa. Tutte, o la maggior parte, pensano alla loro famiglia, al lavoro che devono compiere sotto gli occhi ed il controllo

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nflessibile della sorvegliante. Pensano alle loro case, ai loro figli, al marito forse lontano e sono in angustie per i loro bambini che, a quell’ora, sono forse in mezzo alla strada, senza alcun controllo, in mezzo ai pericoli, mentre esse, costrette a lavorare per poter tirare innanzi la famiglia, sono nell’impossibilità di curarli, di controllarli, di accudirli.

La visita è finita. Si ritorna con la mente affollata di pensieri. Abbiamo potuto vedere da vicino la vita che conducono le operaie filandaie nella loro fabbrica; abbiamo constatato con i nostri occhi la gravosità del lavoro, dal quale uscirà la seta, quella seta pura e vellutata che sarà la delizia e soddisferà il capriccio delle ricche ed eleganti signore. Ed il nostro animo si turba; nessuno penserà certamente alla quantità di lavoro e di sacrifici che la produzione del luminoso tessuto richiede; nessuno penserà alla vita dura delle filandaie che l’hanno prodotta. […] Ma la nostra mente, a poco, a poco, si rasserena. Il nostro pensiero scivola verso immancabili prospettive.

Oggi, dopo tanti anni di oppressione fascista, nel nuovo regime democratico, queste operaie appoggiandosi alle libere organizzazioni sindacali, potranno far sentire la propria voce e risolvere i propri urgenti problemi46.

Questo intenso articolo scritto da Derna sul lavoro delle filande