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Portatori di valore

Chi ha valore, e perché

2.1 Portatori di valore

Credo vi siano ragioni per affermare che l’essere portatori di valore intrinseco equivale ad avere uno statuto morale: le entità che hanno valore intrinseco sono le entità verso le quali abbiamo in prima istanza un obbligo morale di rispetto, protezione e cura in ragione del valore di cui sono portatrici e in ragione del fatto che l’esigenza di rispetto si impone alla coscienza degli agenti morali.

Affermare che qualcosa ha valore intrinseco significa anche affermare che dovremmo considerare quell’entità nei nostri giudizi normativi, che dovremmo compiere una riflessione su come trattare quell’entità, su come esprimere il rispetto che le è dovuto in quanto portatrice di valore morale e in quanto espressione di un valore intrinseco che abbiamo riconosciuto e che si è reso evidente in modo immediato alla nostra coscienza fenomenologica.

Ma quali tipi di entità richiedono questa considerazione morale? Chi possiede valore intrinseco e si manifesta con una pretesa di riconoscimento morale alla nostra coscienza?

Tra i candidati tradizionali all’essere portatori di valore dobbiamo distinguere le entità astratte (proprietà, stati di cose, ovvero entità composte da oggetti concreti e proprietà, fatti, assumendo che i fatti sono tipicamente ritenuti stati di cose che si verificano, entità complesse (classi, insiemi, collezioni)) da quelle concrete (entità individuali come persone, animali, piante, oggetti, ovvero entità materiali che esistono nello spazio e nel tempo e che possiamo percepire con i nostri sensi).1

1 Le posizioni a riguardo sono molteplici, Moore stesso, che non affronta direttamente la

questione, nei Principia Ethica assume di volta in volta concezioni differenti: in alcuni casi sembra che i portatori di valore siano gli oggetti individuali, in altri l’esistenza di questi oggetti, in altri la coscienza di questi oggetti, o delle loro qualità, o ancora la coscienza dello stato di cose che li comprende. (Cfr. Principia Ethica, trad. it., cit., in particolare, pp. 43-48, 150, 190, 313, 322). Ross sembra assumere che i portatori siano entità astratte, e in particolare fatti (Cfr. Il giusto e il bene, cit., pp. 132-35). Secondo Chisholm sono stati di cose (Cfr. R.M. Chisholm, Objectives and Intrinsic Value, in R. Haller, ed., Jenseits von Sein und Nichtsein, Graz, Akademische Druck- und

Propongo di assumere che i portatori di valore siano entità individuali in accordo alla seguente considerazione: le entità oggetto di riconoscimento morale sono le entità che si presentano alla coscienza soggettiva in modo immediato e attraverso una presentazione fenomenologica di natura non

concettuale. Ovvero, le entità che sembrano oggetto dei nostri

atteggiamenti valutativi primari (manifestazioni soggettive e modificazioni affettive che si accompagnano ad un sentimento di considerazione, rispetto, protezione, cura, benevolenza) sono le entità individuali che si manifestano alla coscienza attraverso un riconoscimento immediato che non richiede, per la sua validità e certezza, l’elaborazione di una credenza di ordine superiore o di un giudizio normativo.

Con l’espressione atteggiamento valutativo primario intendo quindi indicare un sentimento immediato di natura non concettuale che ha come oggetto una entità individuale e che non richiede, per il suo accadere, la formulazione di una credenza relativa all’oggetto del riconoscimento e della valutazione. Con l’espressione atteggiamento valutativo secondario Verlagsanstalt, 1972, rist. in T. Rønnow-Rasmussen, M.J. Zimmerman, eds., Recent Work on Intrinsic Value, cit.). Secondo Korsgaard, Two Distinction in Goodness, cit., Kagan, Rethinking Intrinsic Value, cit., e Rabinowicz, Rønnow-Rasmussen, A Distinction in Value, cit., i portatori possono essere entità individuali concrete. Per Rabinowicz e Rønnow-Rasmussen peraltro, il loro valore può essere ridotto al valore di stati di cose. Tra gli autori che dedicano maggiore attenzione alla questione, Zimmerman assume che i portatori siano stati di cose, ed in particolare stati di oggetti individuali, come “l’essere raro di un libro” (Cfr. Zimmerman, The Nature of Intrinsic Value, cit., cap. 3). Secondo Anderson, i portatori di valore intrinseco sono oggetti individuali, mentre gli stati di cose avrebbero soltanto un valore estrinseco, dal momento che comportano una considerazione del valore mediata dalle credenze e dagli atteggiamenti proposizionali di chi compie la valutazione (Cfr. E. Anderson, Value in Ethics and Economics, Cambridge, Harvard University Press, 1993, cap. 2). Una posizione analoga è sostenuta anche da S. Stark, Emotions and the Ontology of Moral Value, «The Journal of Value Inquiry», 38, (2004), pp. 355-74. Lemos assume che i portatori siano stati di cose, aggiungendo la condizione che gli stati di cose che hanno valore sono quelli che effettivamente accadono, sulla base della considerazione che stati di cose che non si verificano, come “l’essere felici di tutti”, non comportano realmente alcun bene o valore (Cfr. Lemos, Intrinsic Value, cit., cap. 2). Rabinowicz e Rønnow- Rasmussen, in un articolo recente, propongono che i portatori del valore siano tropi, ovvero proprietà particolari intese come proprietà effettivamente istanziate (Cfr. W. Rabinowicz, T. Rønnow-Rasmussen, Tropic of Value, «Philosophy and Phenomenological Research», 66, (2003), pp. 389-403, rist. in T. Rønnow-Rasmussen, M.J. Zimmerman, eds., Recent Work on Intrinsic Value, cit.). Nel medesimo articolo, gli autori peraltro arrivano alla conclusione che la pretesa “monista” di identificare i portatori di valore con un solo tipo di entità è destinata a fallire, e propongono di riconoscere che il valore si esprime attraverso una pluralità di entità astratte e concrete.

intendo invece riferirmi alle credenze di carattere proposizionale che possiamo esprimere in relazione all’esperienza valutativa primaria.

Tipicamente, l’oggetto di una credenza non è una entità individuale ma uno stato di cose che viene espresso in forma proposizionale, per esempio, “credo che questa entità meriti rispetto”. Se riteniamo che il valore si esprima in uno stato di cose, ovvero che richieda per il suo riconoscimento la considerazione valutativa di un fatto complesso, come la relazione dell’oggetto della valutazione con un certo insieme di proprietà e con un atteggiamento proposizionale (una credenza, un desiderio ecc.), saremo portati anche a ritenere che i portatori di valore non siano propriamente gli individui.2

Ritengo che questa prospettiva non sia in grado di cogliere la natura del valore intrinseco e i modi del suo riconoscimento. Indubbiamente, la

descrizione di un atteggiamento valutativo primario, per esempio di una

emozione suscitata dal riconoscimento di una particolare entità, richiede l’utilizzo di un enunciato che esprime un atteggiamento proposizionale, del tipo “x crede che p”, e questo enunciato descrive dunque uno stato di cose complesso, non esprime soltanto la presenza di una entità individuale.

Tuttavia, il piano della conoscenza del valore, ovvero il piano dell’esperienza diretta del valore e del suo riconoscimento, non è quello della descrizione e della giustificazione del valore. Credo vi siano ragioni per affermare che il riconoscimento del valore occorre ad un primo livello di conoscenza morale, di natura non concettuale, nel quale il valore si rende manifesto, appare in modo immediato alla coscienza fenomenologica e viene rappresentato in forma non proposizionale. Il piano della credenza, della giustificazione e della descrizione del valore, rispetto al quale il primo ordine di riconoscimento assume un carattere fondazionale, comprende invece l’insieme delle credenze e dei giudizi normativi che possiamo formulare sulla base del valore esperito e riconosciuto.

Assumendo quindi che il valore si manifesti a questo primo livello di presentazione fenomenologica, che non richiede l’elaborazione di una rappresentazione mentale di ordine superiore, sembra corretto affermare che le entità propriamente oggetto di questo riconoscimento di natura non

2 Per esempio, così si esprime Lemos a riguardo: “it does not seem possible that anyone

can merely or simply want or desire a concrete, individual thing. [...] According to this view, the objects of love and hate are not mere concrete, individual things but more complex objects”. Cfr. Lemos, Intrinsic Value, cit., p. 30. Cfr. anche Ross, Il giusto e il bene, cit., p. 160: “[...] per cui ciò che è buono o cattivo è sempre qualcosa propriamente espresso da una forma-che, cioè un oggettivo o, come preferisco dire, un fatto”.

concettuale sono entità individuali concrete. Il loro valore ha quindi priorità ontologica rispetto al valore degli stati di cose che le comprendono, che possiedono invece un valore estrinseco, derivato.

Le differenti possibilità che possiamo individuare in merito ai portatori di valore sottointende peraltro un problema ontologico fondamentale: il valore esiste soltanto nei suoi portatori, come entità particolare, ovvero in quanto proprietà istanziata in un individuo concreto, oppure esiste anche come entità generale astratta, come proprietà universale rispetto alla quale il valore istanziato nei portatori è una esemplificazione?3

Credo vi siano ragioni per affermare che nella prospettiva del realismo assiologico il valore può sussistere anche come entità universale astratta, che esiste in un dominio ontologico proprio, indipendentemente dalla effettiva esistenza dei suoi portatori, ovvero dall’esemplificazione di (o dalla istanziazione in) alcuna entità particolare, come dalla possibilità di cogliere la sua natura intrinseca. In questa prospettiva, il valore intrinseco è una entità universale (di natura non linguistica), la proprietà complessa (ovvero costituita da proprietà ulteriori, alcune delle quali semplici e non ulteriormente analizzabili) dell’avere valore.

La concezione ontologica che assume l’esistenza di proprietà universali anche in assenza di effettive realizzazioni o istanziazioni di tali proprietà è certamente una forma di realismo radicale, ma giustificabile sulla base del fatto che noi facciamo riferimento a queste proprietà nelle nostre espressioni linguistiche e queste entità divengono oggetto intenzionale dei nostri atteggiamenti proposizionali. Una forma di realismo assiologico come quella che sto cercando di definire assume che l’evidenza fenomenologica, non necessariamente di natura concettuale e proposizionale, costituisca un forte indizio a favore dell’esistenza delle entità che si manifestano come oggetti intenzionali degli eventi coscienti e delle credenze di ordine superiore relative alla percezione fenomenologica e che la medesima evidenza fenomenologica possa fungere da criterio di riconoscimento del valore.4 Tuttavia, credo si possa anche affermare che

3 La prima prospettiva esprime generalmente una concezione empirista, per la quale le

proprietà istanziate, o tropi, possono occorrere soltanto in una dimensione spaziale, temporale e causale. A favore di questa prospettiva vi è naturalmente anche un principio di parsimonia ontologica. Per la ricostruzione del dibattito contemporaneo sullo statuto ontologico delle proprietà cfr. E. Runggaldier, C. Kanzian, Grundprobleme der analytischen Ontolgie, Paderborn, Verlag Ferdinand Schöning, 1998, trad. it., Problemi fondamentali dell’ontologia analitica, Milano, Vita e Pensiero, 2002.

4 Sul “primato dell’intenzionale” e sugli impegni ontologici della prospettiva realista

cfr. R. Chisholm, On Metaphysics, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1989 e Id., The Primacy of the Intentional, «Synthese», 61, (1984), pp. 89-109. Per l’autore,

l’evidenza fenomenologica potrebbe non rappresentare in modo esaustivo l’insieme delle entità esistenti: come abbiamo indicato, è possibile immaginare che vi siano limiti a quanto creature come noi possono assumere ad oggetto dei propri eventi fenomenologici, per esempio, non si deve escludere, considerando la questione di cui ci stiamo occupando, che alcune proprietà intrinseche del valore non possano essere manifeste e che vi siano anche proprietà del valore non disposizionali e relazionali a cui non abbiamo alcun accesso.

Tra le proprietà del valore che, come abbiamo indicato, è possibile descrivere come disposizionali, vi è la proprietà di suscitare un certo insieme di eventi fenomenologici in relazione al riconoscimento del valore. Sembra difficile arrivare a descrivere proprietà intrinseche del valore che non siano disposizionali ma questa evenienza non deve indurci a ritenere che il valore si risolva nelle proprietà disposizionali che è possibile ascrivere alla sua costituzione intrinseca. Una proprietà disposizionale è una proprietà che richiede, per il suo manifestarsi, un insieme di relazioni, di condizioni e di circostanze esterne, nel caso del valore, la presenza di un soggetto fenomenologico e di un agente morale che possa riconoscere il valore. Se la proprietà complessa dell’avere valore è composta anche da proprietà disposizionali, saranno dunque proprio queste proprietà a consentire un accesso privilegiato al valore, a renderlo manifesto, sebbene vi possano essere anche altre proprietà intrinseche del valore. Come vedremo, una ulteriore proprietà disposizionale del valore è la proprietà di manifestari quale oggetto intenzionale o contenuto di una emozione.

A conclusione di queste considerazioni, credo si possa affermare che per quanto riguarda l’esistenza del valore l’evidenza fenomenologica costituisce un criterio per riconoscere la natura intrinseca del valore che si manifesta nelle sue proprietà disposizionali ed un criterio per il riconoscimento dei portatori di valore. Non credo invece che l’evidenza fenomenologica possa costituire un criterio ontologico più forte, ovvero un criterio per arrivare a conoscere e a determinare in modo complessivo ed esaustivo l’insieme di proprietà che costituiscono la natura intrinseca del valore.

che esprime una prospettiva analitica di orientamento fenomenologico, tutto ciò che può costituire il riferimento dei nostri atti intenzionali deve essere assunto in un resoconto ontologico completo. Occorre rilevare che questa condizione potrebbe da un lato determinare una ontologia effettivamente troppo ricca, dall’altro potrebbe escludere entità esistenti che non possiedono la proprietà disposizionale di manifestarsi come oggetti intenzionali dei nostri stati coscienti.

A questo punto allora, possiamo assumere che rispetto alla proprietà complessa del valore i portatori si possano definire esemplificazioni o

istanziazioni del valore. In generale, le entità individuali possono essere

descritte, in una prospettiva realista, come fasci o collezioni di proprietà istanziate e compresenti in uno stesso individuo.5 Ora, ammesso che i portatori di valore intrinseco siano entità individuali concrete che, tra le differenti proprietà che ne determinano la costituzione intrinseca, istanziano anche la proprietà del valore, di quali entità individuali concrete si tratta?

Una prima questione da affrontare a questo proposito, come abbiamo accennato, riguarda la necessità di un criterio per identificare le entità portatrici di valore. Abbiamo bisogno di un criterio per determinare la presenza del valore e per riconoscere i suoi portatori?

Assumo che nel contesto dell’indagine sul valore il termine “criterio” denomini, nel senso più ampio, sia l’insieme di condizioni e proprietà in virtù delle quali il valore è presente e riconoscibile sia la relazione criteriale che sussiste tra il valore e ciò che dovrebbe rendere possibile la sua esistenza e la sua conoscibilità. Assumo anche che se un criterio per il valore esiste, la relazione tra il valore e le condizioni della sua possibilità dovrebbe essere necessaria, ovvero non contingente ed empirica, e non convenzionale, ovvero non originata dalla stipulazione e dall’accordo tra gli agenti morali. La natura della relazione criteriale non dovrebbe tantomeno essere intesa, nella prospettiva realista, come una relazione di natura concettuale, linguistica e grammaticale.

Data l’esistenza oggettiva del valore e la sua natura sui generis, sembra tuttavia che un criterio di natura ontologica non possa costituire una risposta adeguata: non possiamo affermare che il criterio del valore è una qualche proprietà ulteriore dei portatori, differente dalla proprietà dell’avere valore. Se così fosse, il valore sarebbe riducibile a questa ulteriore proprietà, e ci ritroveremmo a dover spiegare in virtù di cosa questa proprietà ulteriore possa essere ritenuta causa o spiegazione del valore, dando il via ad un regresso di difficile soluzione.

Inoltre, come abbiamo posto in evidenza considerando l’Argomento della

domanda aperta di Moore, non sembra possibile che qualcosa che

appartiene ad un differente dominio ontologico possa costituire la fonte del

5 La necessità che le entità individuali debbano possedere anche un sostrato distinto e

indipendente cui tali proprietà ineriscono o possano invece essere considerate soltanto meri aggregati di proprietà coistanziate costituisce un genuino problema metafisico. Per le differenti teorie a riguardo cfr. M.J. Loux, Metaphysics. A Contemporary Introduction, London, Routledge, 1998.

valore: il valore sembra sopravvenire agli individui e agli stati di cose e non essere riducibile ad alcuna proprietà ulteriore, dal momento che qualunque identificazione del valore con qualcosa di differente dal valore stesso sembra originare una domanda aperta e non sembra poter cogliere alcuni tratti del valore che appaiono invece immediatamente evidenti ai soggetti morali. Il valore sopravviene ad alcune entità, fatti o stati di cose ma non appare riducibile ad alcun fatto o proprietà ulteriore che possa spiegare

come e perché il valore origina dalla presenza di queste condizioni,

ovvero che possa costituire una spiegazione effettiva della presenza del valore.

Sembra dunque si possa affermare che la domanda relativa al perché i portatori di valore hanno il valore che esprimono sia in buona misura fuorviante e inadeguata se riteniamo che la risposta a questa domanda debba indicare qualche cosa di differente dal valore che ne costituisca un criterio ed un insieme di condizioni necessarie e sufficienti per la sua esistenza differente dal valore stesso.

Una serie di difficoltà analoghe a quelle menzionate in relazione al valore si presenta peraltro anche riguardo a questioni di ordine differente. Per esempio, riguardo al problema dell’identità personale, o dell’avere una coscienza fenomenologica: in base a quali criteri possiamo affermare che alcuni individui possiedono o non possiedono queste proprietà? I criteri di volta in volta proposti possono davvero spiegare perché una entità individuale è una persona o perché esprime un punto di vista fenomenologico?6 Se non riusciamo a spiegare come, in che modo e a quali condizioni, un determinato fenomeno origina dalla relazione con una proprietà o un insieme di proprietà che supponiamo possano esserne la causa e la spiegazione, o se non riusciamo a spiegare in cosa consiste la relazione tra due o più oggetti, fatti o proprietà, per esempio la connessione tra gli eventi cerebrali e quelli fenomenologici, credo si possa affermare che disponiamo di un forte indizio per supporre di essere in presenza di un elemento ultimo e irriducibile (e non dunque in presenza di una difficoltà di ordine epistemologico) e di una correlazione tra fatti appartenenti a domini ontologici differenti che non può essere ulteriormente spiegata. Considerazioni sulla effettiva inadeguatezza di criteri e spiegazioni riduttive, per esempio quelle che cercano di ricondurre l’identità personale e l’esperienza cosciente a fatti di ordine biologico, cerebrale, psicologico o

6 Il tema dell’identità personale e il dibattito in merito ai differenti criteri di

individuazione, e alle difficoltà esplicative di ciascun criterio, è vastissimo. Per una prima introduzione Cfr. M. Di Francesco, L’io e i suoi sé. Identità personale e scienza della mente, Milano, Raffaello Cortina, 1998.

funzionale, portano in evidenza l’incapacità di questo tipo di spiegazione a rendere conto di fatti e proprietà della cui evidenza fenomenica i soggetti sono certi e che sembrano tuttavia costituire una classe di fenomeni distinti e “ulteriori”, irriducibili e fondamentali, la cui natura sui generis non sembra consentire alcuna riduzione naturalistica e per i quali dovremmo dunque ipotizzare un dominio ontologico proprio.

Non si può nemmeno affermare, tuttavia, che il criterio del valore sia interno al valore stesso, ovvero che la proprietà dell’avere valore sia criterio per l’identificazione dei portatori di valore: la proprietà dell’avere valore non spiega perché qualcosa ha valore e non è causa del valore ma è il valore stesso, consiste nel valore. L’avere valore di un portatore consiste proprio nella istanziazione o nell’esemplificazione del valore.

Ma che relazione intercorre allora tra una proprietà universale e le entità particolari che istanziano quella proprietà, ovvero, nel nostro caso, tra il valore ed i suoi portatori? Se nessuna relazione criteriale sembra adeguata, cosa significa affermare che il valore esiste, che esistono portatori di valore, e che tuttavia non vi è qualcosa in virtù della quale questo valore sussiste nei suoi portatori?

L’istanziazione o l’esemplificazione sembra in effetti un tipo di relazione molto particolare, una nesso di costituzione più profondo delle relazioni ordinarie, ovvero della compresenza, della derivazione o della dipendenza, per il quale non vi è modo di fornire alcuna analisi ulteriore. Si tratta dunque di un fatto primitivo, fondamentale e sui generis. Tuttavia, l’esito radicale di questa considerazione dovrebbe destare una preoccupazione teorica soltanto se si ritiene che le spiegazioni filosofiche non debbano alla fine arrestarsi da qualche parte. Ma non vi è ragione di ritenere che non debba esistere qualche fatto fondamentale e irriducibile che pone fine alle nostre catene di spiegazioni, sebbene vi possa essere naturalmente un ampio novero di possibilità rispetto a quali fatti e verità debbano essere considerati fondamentali.

Ma torniamo ora al nostro interesse principale: se il valore intrinseco è esemplificato ed istanziato nei suoi portatori attraverso un nesso primitivo

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