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I posteggiatori e il loro gergo: la parlesia

2.1 Chi sono i posteggiatori?

Capitolo 2

I posteggiatori e il loro gergo: la parlesia

2.1 Chi sono i posteggiatori?

Dalla consultazione di due risorse lessicali differenti quali il Grande dizionario della lingua italiana e L’etimologico1, si rileva che il significato della voce «posteggiatore» può oscillare da quello più generico di «venditore ambulante che occupa un posteggio», a quello di conio più recente e cioè «addetto alla custodia dei veicoli lasciati in sosta in un posteggio» (ed è in questa accezione che il nome agentivo è più noto), per arrivare al significato più specifico e, stando al GDLI, primigenio di «suonatore e cantante girovago, per lo più in luoghi e locali pubblici»; quest’ultima accezione nell’Etimologico è attribuita specificatamente ai suonatori ambulanti operativi a Napoli. E’ a questa definizione, ovviamente, che si fa riferimento nella presente trattazione al fine di delineare una figura, quella del posteggiatore napoletano, sulla quale poche informazioni è possibile reperire.

La fonte principale sull’argomento è rappresentata dagli scritti di Giovanni Artieri (Napoli 1904 – Santa Marinella 1995), storico, giornalista e deputato alla camera, autore di una trilogia di libri dedicata alla sua Napoli, edita per i tipi Longanesi: Napoli nobilissima (1955), Il Vesuvio col pennacchio ovvero Funiculì, funiculà (1957) e Penultima Napoli (1960). Con questa trilogia Artieri si riallaccia alla tradizione letteraria memorialistica e d’occasione offrendo un ritratto di Napoli e della cultura napoletana nei suoi aspetti più caratteristici e folkloristici, spaziando dalla descrizione di alcuni scorci cittadini ai ritratti di figure più o meno note (da Matilde Serao a Benedetto Croce), senza però abbracciare un’impostazione di tipo romantico, culla di tanti luoghi comuni che tanto ha investito l’immagine sia di Napoli, sia, soprattutto, dell’Italia come “bel paese”.

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La Napoli di cui parla Artieri è quella di fine Ottocento e del periodo intercorso tra le due guerre, un tempo in cui «il Vesuvio portava il suo pennacchio, come un bell’asprì fioccoso di colonnello a cavallo»2, una città di cui molte caratteristiche e tradizioni rimandano ancora ad una realtà pre-unitaria: uno di questi aspetti riguarda la canzone napoletana, la quale «non era e non fu un mondo a sé, di basso livello, isolato nella società letteraria della città. Era, al contrario, il denominatore comune di tutta intera la società letterario e artistica di Napoli, nella totalità dei suoi nomi migliori»3. Sull’evoluzione della canzone napoletana, Giovanni Artieri spiega che

Da prima (trascurando i pochissimi esempi protostorici) frequentò i libretti dell’opera buffa, poi passò nelle mani dei verseggiatori della prima metà dell’Ottocento, già quasi tutti appartenenti al terzo stato, muniti di una piccola o media cultura e s’accese, infine, come un fuoco d’artificio tra il 1880 e la prima guerra mondiale.4

Dalla consapevolezza dell’importanza rivestita dalla canzone napoletana nella città stessa, al di fuori di Napoli e anche dell’Italia (è l’autore stesso a ricordare di aver sentito intonare per le strade di Oslo Te voglio bene assai di don Raffaele Sacco, «considerata dai critici e dagli studiosi di tutte le tendenze, tranne qualche eccezione, come la vera, autentica prima canzone napoletana nel senso, s’intende, moderno dell’espressione»5), nasce, con ogni probabilità, la volontà di approfondire la genesi e di descrivere il profilo di quelli che furono tra i protagonisti della canzone napoletana delle origini, e non solo, cioè i posteggiatori. Questo interesse è presente in nuce in Funiculì, funiculà, in cui due brevi capitoli sono dedicati rispettivamente a Enrico Caruso, definito da Artieri come «il grande posteggiatore» e a Memorino e Mimì Pedulla, «gli ultimi grandi posteggiatori napoletani» a detta dell’autore stesso.6

2 G. Artieri, Il Vesuvio col pennacchio ovvero Funiculì, funiculà, Milano, Longanesi & C., 1957, p. 9. L’autore fa riferimento al periodo precedente l’eruzione del marzo 1944.

3 Id., p. 28.

4 Id., p. 37.

5 V. Paliotti, Storia della canzone napoletana, Milano, G. Ricordi, 1958, p. 9.

6 Il famoso tenore italiano Enrico Caruso, al quale è dedicata la celeberrima canzone di Lucio Dalla

Caruso (che nel ritornello recita “Te voglio bene assai”: un omaggio forse alla prima canzone napoletana,

ben nota ai posteggiatori, di cui si è detto prima?), esordisce, complice la ristrettezza economica in cui crebbe, proprio tra le fila dei posteggiatori. E’ grazie ad una serie di incontri fortuiti che al giovane squattrinato furono impartite lezioni di canto gratuitamente, in seguito alle quali, grazie anche al suo talento, riuscì a diventare il grande tenore che fu, apprezzato in Italia ma soprattutto all’estero. (Fonte: D. Rubbuoli, Lo «scugnizzo» che conquistò il mondo. Vita di Enrico Caruso, Napoli, Liguori Editore, 1987).

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Poco dopo la realizzazione della trilogia partenopea di cui si è detto, Giovanni Artieri si dedica alla stesura di I posteggiatori, edito nel 1961 per la medesima casa editrice. Osservava all’epoca l’autore che

La posteggia è quasi del tutto priva di bibliografia, la sua storia è stata scritta sull’acqua o nell’aria, i suoi protagonisti, vissuti nella memoria dei loro continuatori, sono stati cancellati dal tempo con chi li ricordava.7

considerazione quest’ultima vera tanto allora quanto oggi. Quest’esile operetta di Giovanni Artieri, infatti, costituisce la fonte principale sull’argomento anche nello studio di Maria Teresa Greco sui posteggiatori e la parlesia – di cui si parlerà in maniera diffusa a breve -, pubblicato quasi quarant’anni dopo.

Per descrivere quindi l’evanescente categoria dei posteggiatori può risultare utile, come anticipato nel precedente capitolo, fare riferimento in parte al mondo dei cantastorie e in parte a quello dei suonatori ambulanti.

I posteggiatori, infatti, possono essere associati ai cantastorie in quanto custodi di un patrimonio – canzonettistico nel loro caso più che epico – che ha radici lontane e che è noto e condiviso anche dal pubblico al quale è proposto: è lo stesso Artieri a considerare i posteggiatori, fin dalle prime pagine del suo studio, come «l’ultimo residuo di una spinta naturale della poesia e della musica […] che cominciò nel medioevo e produsse i trovatori, i menestrelli, i portatori di favole e notizie, tradotte in versi e melopee»8. Il repertorio dei posteggiatori si colloca pertanto a metà tra il canto popolaresco e la canzone napoletana, il primo frutto di una creazione collettiva che trasmette di generazione in generazione la sensibilità poetica e musicale del popolo al quale appartiene, la seconda, invece, risultato dell’inventiva di un singolo ma ispirata al canto popolare: esiste cioè tra le due creazioni poetiche un rapporto di derivazione naturale perché senza il canto popolare non è concepibile la canzone napoletana.9 Parlare quindi della genesi della posteggia, cercare di descrivere quelli che possono essere stati i primi posteggiatori, comporta, per Giovanni Artieri, il fare riferimento alla produzione poetica

7 G. Artieri, I posteggiatori, Milano, Longanesi & C., 1961, p. 22.

8 Id., p. 10.

9 Cfr. S. Di Massa, La canzone napoletana e i suoi rapporti con il canto popolare, Napoli, Rispoli, 1939, pp. 13-21.

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e melodrammatica napoletana del Cinque - Seicento, la quale ha origini ancor più remote, risalenti almeno al regno di Federico II10: non è infatti da escludere, secondo lo studioso, che tali poeti componessero, improvvisassero, distribuissero nelle piazze e durante le feste le loro canzoni, «storie di cose già sapute o giunte per antiche tradizioni da altri paesi […]; erano cantilene politiche o amorose, contrasti, leggende, strambotti, villanelle, stornelli, racconti di gesta di banditi, paladini […]»11. L’immagine che viene così delineandosi avvalora quindi l’associazione di cui si diceva sopra tra le figure dei posteggiatori e quelle dei cantastorie: della stessa opinione è anche Giancarlo Pretini in quanto cita proprio la figura del posteggiatore come una «variazione di uno stesso mestiere», ovvero quello del cantastorie

Cantastorie era il menestrello del Medioevo, il “castrato” del Settecento e il cantante di serenate dell’Ottocento. Canta, o cantava, le storie di guerra il coro dei soldati e le storie d’amore le cantano i “posteggiatori” napoletani e gli “stornellatori” fiorentini.12

Riguardo queste due ultime figure, lo studioso aggiunge che «posteggiatori e stornellatori si affidavano e si affidano al cuore degli ascoltatori; alla simpatia che riescono a creare per far cacciare dalle loro tasche l’obolo “volontario”. Essi svolgono le loro attività solitamente nelle osterie e nei ristoranti tipici»13.

La figura del cantastorie si diffuse tanto nel tempo – dal Medioevo fino almeno agli anni Sessanta del secolo scorso - quanto nello spazio – la Francia fu forse la culla di un fenomeno destinato ad una diffusione europea – non solo perché essi intrattenevano ed allietavano il pubblico ma anche perché con le loro filastrocche e i loro ritornelli mettevano in qualche modo in circolazione i fatti di cronaca e le vicissitudini della gente. Il maggior numero di notizie più recenti raccolte per il contesto italiano riguarda soprattutto i cantastorie siciliani, meglio noti come contastorie14: Roberto Leydi rilevava

10 Il primo capitolo de I posteggiatori è dedicato alla ricostruzione delle origini della posteggia, argomento per il quale Artieri fa riferimento agli studi critici di don Ferdinando Russo Il Gran Cortese,

note critiche sulla poesia napoletana del 600 e Il poeta Velardinello e la festa di S. Giovanni a mare. Per

ovvie ragioni di tema e spazio non è possibile dilungarsi in questa sede sull’argomento.

11 Id., p. 17.

12 G. Pretini, op. cit., p. 123.

13 Ibid.

14 «Si vuole questo termine specificatamente più proprio di quello di cantastorie, in quanto costoro più che cantare al popolo storie e leggende scritte in poesia, narrano il cuntu, cioè recitano a memoria un fatto meraviglioso, accompagnando le parole con un fiero ed espressivo gestire» da R. Leydi, Cantastorie, in

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alla fine degli anni Cinquanta che se nel nord Italia i cantastorie potevano rappresentare una patetica sopravvivenza, un fenomeno ormai anacronistico la cui decadenza era da ricondurre alla rapida proliferazione di nuovi mezzi di divulgazione e comunicazione come radio e televisione, altrettanto non si poteva dire per il sud della penisola dove «questa antica professione ha tutt’ora una nobiltà (e una fortuna) che altrove sono ormai sconosciute»15.

I posteggiatori, in quanto cantanti e musicisti al tempo stesso, possono essere accostati, come si è detto precedentemente, anche ai “parenti stretti” dei cantastorie, cioè i suonatori ambulanti. Interessante al riguardo è un articolo di Chiara Trara Genoino16, in cui la studiosa traccia un profilo dei suonatori ambulanti del sud Italia servendosi di una fonte insolita quale l’Archivio di Stato di Napoli17: la professione del suonatore ambulante, allora molto diffusa come altri mestieri itineranti, comportava un continuo contatto con gli organi della polizia, alla quale i suonatori dovevano rivolgersi per il rilascio di licenze, di carte di passaggio e di passaporti. In questi stessi documenti ufficiali è stato possibile per la studiosa rinvenire qualche sporadico riferimento al repertorio musicale, registrato unicamente per il timore che alcune canzoni sospette o immorali potessero minacciare l’ordine pubblico. Sono tre le categorie di suonatori ambulanti che si possono distinguere: i musicanti d’arpa di Viggiano (Potenza), le bande musicali di vario tipo e composizione e gli zampognari. Se questi ultimi potevano contare su molte agevolazioni quali la possibilità di muoversi per il Regno e negli stati limitrofi usufruendo di carte di passaggio e senza imbattersi in numerosi controlli, più difficili si rivelavano gli spostamenti per tutte quelle bande musicali non precisamente identificate ritenute sospette di connivenza con l’eversione politica nel periodo tra il 1830 e il 1848 (numerose infatti sono le denunce inviate in questo periodo alla polizia contro le bande musicali di vari paesi). Il primo gruppo invece, quello dei musicanti d’arpa, è quello per il quale si dispone del maggior numero di informazioni: essi si

15 Id. p. 353. Negli anni Sessanta del secolo scorso, tuttavia, vi era la piena consapevolezza della graduale scomparsa delle figure dei cantastorie e della realtà al loro mestiere associata: per tutelare le loro tradizioni e la loro memoria fu quindi fondata una rivista, “Il Cantastorie” (con un’attività editoriale durata fino al 2013) e fu istituita un’associazione, l’ A.I.CA (Associazione Italiana Cantastorie) al fine di garantire il sostegno delle figure dei cantastorie ancora attivi e di conservarne il patrimonio culturale.

16 C. Trara Genoino, Suonatori ambulanti nelle province meridionali. Archivi della polizia borbonica e

postunitaria, in La piazza. Ambulanti vagabondi malviventi fieranti, “La Ricerca Folklorica”, op. cit., pp.

69-75.

17 Nello specifico la studiosa si è servita della documentazione che va dal 1828 al 1861 raccolta sotto la voce “Ministero di Stato della Polizia Generale: Gabinetto”.

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spostavano per lo più in gruppi in cui erano presenti anche ragazzi di età inferiore ai 18 anni, il viaggio della compagnia poteva durare tre o quattro anni, nel corso dei quali la fisionomia della compagnia stessa poteva cambiare arrivando ad ampliarsi anche notevolmente. I Viaggesi erano famosi soprattutto per lo strumento che suonavano, un’arpa popolare tipica del territorio lucano di cui si hanno notizie a partire almeno dal Settecento: la loro popolarità era ormai consolidata già attorno alla metà dell’Ottocento se, come rileva Giovanni Artieri, essi furono descritti in Usi e costumi di Napoli e contorni, descritti e dipinti, una silloge del 1866 diretta dal letterato ed editore di origine svizzera Francesco de Boucard: «da questi cataloghi» nota Artieri «si desume la presenza di posteggiatori nelle vie di Napoli»18. E poco dopo lo studioso si sofferma sulla figura del musicante di Viggiano

Prima dell’entrata di Garibaldi e dell’Unità la “professione” musicale ambulante era permessa agli zampognari di Napoli e ai “viaggesi”, cioè ambulantisti provenienti da Viggiano, in Basilicata. […]. Ma i “viaggesi”, a parte la sudditanza comune nel Regno delle Due Sicilie, finivano col napoletanizzarsi […]. Andavano essi per strade e piazze, generalmente in quattro, quasi sempre parenti e affini, uno suonava il clarino, un altro un’arpa, un terzo il violino e un quarto, generalmente un ragazzo, il sistro. […]. Il genio musicale nativo dei viaggesi, tutti buoni clarinettisti, violinisti, flautisti ma soprattutto arpisti, si monetava facilmente. E d’altra parte Viggiano era la patria degli abeti dai quali un piccolo ma prezioso artigianato, come a Cremona per i violini, fabbricava arpe.19

Vi fu quindi un contatto tra i suonatori ambulanti provenienti da Viggiano e i posteggiatori, sebbene di questi ultimi non vi siano testimonianze cospicue almeno fino ai primi anni dell’Ottocento: pare anzi che gli stessi viaggesi acquistassero le cosiddette “copielle”, cioè le canzoni stampate, direttamente dai “canzonari” napoletani, ovvero i gridatori ambulanti di canzonette.

Di lì a poco tuttavia la posteggia sarebbe uscita dall’anonimato per raggiungere un successo noto a livello europeo: Giovanni Artieri fissa il 1880 «come data di nascita del periodo aureo, del mirabile e irripetibile “dolce stil novo” della grande canzone napoletana, come forma lirica universale»20, una stagione questa che sarebbe durata fino al 1914 o poco più in là, in cui si addensano due generazioni di artisti destinati a portare al successo «la lirica piscatoria, rustica, cittadina, di tre secoli di letteratura

18 G. Artieri, I posteggiatori, op. cit., p. 55.

19 Id., pp. 55-57.

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napoletana»21. Sono gli anni della Belle Époque dunque quelli in cui molti posteggiatori riescono a raggiungere fama e successo, esportando la canzone napoletana nel mondo che allora contava, cioè l’Europa delle grandi capitali.

Ritornavano poliglotti, i figli già grandi, le mogli grasse e grigie; ricchi dei ricordi del buon vivere, del gran lusso, delle favolose serate, dei pranzi di gala, dei grandi matrimoni principeschi ai quali si erano mescolati, con i loro strumenti, le voci, le canzonette napoletane ammesse alle Corti dei possenti e felici sovrani del tempo […]. Li ripagava l’illusione di far parte essi stessi dell’universo piumoso e prezioso per il quale sonavano ‘O

sole mio.22

Se alcuni posteggiatori poterono raggiungere con le loro canzoni le corti europee, molti di questi, di cui pochissimi studi e testimonianze sono pervenuti, erano soliti esibirsi nei Café chantant che andarono diffondendosi proprio a cavallo tra i due secoli. Per la ricostruzione di questo scenario Giovanni Artieri attinge a piene mani da Adolfo Narciso, memorialista e posteggiatore egli stesso che in Napoli scomparsa (esistenza di erranti)23 fornisce un ritratto della città alla fine dell’Ottocento e con essa anche della posteggia. Attraverso la ricostruzione di Narciso si apprende che

Il caffè concerto ebbe la sua vera origine dai “posteggiatori”. In quegli anni non vi fu birreria o caffè di una certa importanza dove ogni sera questi missionari della canzone, puntuali, all’ora stabilita non convenissero a svolgere il rituale programma tra il godimento e l’ammirazione del pubblico.24

Prima della diffusione dei caffè concerto come luogo di incontro fisso, i posteggiatori si esibivano in occasioni specifiche come sponsali, onomastici, feste di santi e sagre - e continuarono poi a farlo-: essi erano noti anche con il nome di gavottisti, «cioè cantori e suonatori a orecchio»25.

La posteggia, stando sempre alla testimonianza di Adolfo Narciso, si diffuse anche nei pressi degli stabilimenti balneari che sorsero alla fine dell’Ottocento sulle rive napoletane

21 Id., p. 129.

22 G. Artieri, Funiculì, funiculà, op. cit., p. 342.

23 Con prefazione di Giuseppe Tetamo, Napoli, Nicola Pironti Editore, 1928.

24 G. Artieri, I posteggiatori, op. cit., p. 92.

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I clienti aspettavano sulle “rotonde” il loro “numero”, cioè il turno per entrare in possesso di un camerino e fare il bagno. Si creava un pubblico, di numero variabile, al quale i “cantanti”, posteggiatori dilettanti e professionisti si rivolgevano, spesso senza speranza di compenso.26

Ma il luogo di maggior diffusione e successo della posteggia fu Galleria Umberto I, inaugurata nel 1890 in cui proliferarono locali e botteghe e con esse anche i posteggiatori: pare che lo stesso Verdi e anche Puccini, ogni qual volta si trovassero a Napoli, si recassero al “salotto” della città per rendere omaggio all’ambiente musicale locale.

Se questi furono i vari luoghi in cui i posteggiatori si esibirono, altrettanto vari furono gli strumenti musicali dei quali si servirono: spesso dovettero accontentarsi di strumenti improvvisati o che le canzoni «fossero accompagnate dai “cro cro” e dagli “zuco zuco”, come forma di basso sostenuto, alla voce del cantante»27; strumento cinque – seicentesco destinato ad una diffusione anche successiva fu il tamburo, mentre l’orchestrina della posteggia di fine Ottocento poteva annoverare strumenti musicali più adatti alla realizzazione di canzoni a ballo, tarantelle e “canzoni sentimentali”: essa era formata da due chitarre, due mandolini, un violino e un bombardone, cui talvolta si aggiungeva una fisarmonica.

Per quanto talentuosi, profondi conoscitori della musica, richiesti e graditi, era pur sempre attribuita all’etichetta di posteggiatore un’accezione negativa: chi svolgeva tale mestiere non voleva sentirsi definire come tale, preferendo il termine “professione” a designare «qualcosa più del mestiere; qualcosa che confina con l’università e il conservatorio di musica […]. Si dice: “Sono in professione da trent’anni”; significa: da trent’anni faccio il posteggiatore”»28. Esisteva, del resto, un rapporto di frizione tra i musicisti diplomati al conservatorio e i posteggiatori in quanto spesso si trovavano ad eseguire canzoni del medesimo repertorio. Ciononostante pare che i posteggiatori, per quanto successo potessero raggiungere in vita, fossero destinati a morire in miseria

26 Id., p. 88.

27 Id., p. 71.

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Essi sono condannati all’anonimato: ch’è destino delle arti e degli artisti puri. E’ difficilissimo, come si è visto, ritrovarne anche i nomi, fissarne le biografie. Quali biografie possono dichiarare, se non quella espressa in un solo e solitario verbo: suonare, cantare, vivere?29

La stagione aurea dei posteggiatori, di cui si è detto prima, si esaurì in parte con la scomparsa delle grandi corti europee in seguito ai tragici avvenimenti del primo conflitto mondiale, in parte anche in conseguenza ai cambiamenti di costume che si susseguirono nell’arco di un paio di decenni: andava infatti diffondendosi la radio e con essa le prime “canzonette da festival”, le quali, secondo Giovanni Artieri, si trovarono in una condizione di «separazione incolmabile creata nella sostanza stessa della lirica napoletana, dalla violenta intromissione dei mezzi elettronici e meccanici, dalla decadenza dei poeti a “parolieri”, dalla voracità di un mercato sempre più vasto e assorbente»30.

Questi cambiamenti quindi determinarono l’eclissi della posteggia, i cui protagonisti continuarono però ancora ad esibirsi, ma in una condizione di anonimato ancor più radicale: con queste parole infatti Giovanni Artieri descrive due degli ultimi posteggiatori ancora attivi negli anni Cinquanta, che egli stesso ha avuto modo di vedere esibirsi una sera d’estate a Mergellina

Sono fantasmi? Può darsi, ma ad essi, alla magia aleatoria delle loro vite dorate e inconsistenti, si collega l’ordito dell’epoca felice che condusse la canzone napoletana accanto alla Imperatrice delle Indie, col fine delicato Francesco Paolo Tosti, e il tonante

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