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PREMESSE INTRODUTTIVE

TEMI GENERALI

A) PREMESSE INTRODUTTIVE

Il lungo processo di cui questo documento segna, almeno per questo grado di giudizio, l’atto conclusivo, ha avuto una vasta risonanza mediatica che lo ha accompagnato durante il suo corso e che si è acuita allorché sono stati coinvolti, a vario titolo, personaggi assai in vista nella vita del Paese.

Il quadro probatorio emerso dalla articolatissima istruzione dibattimentale si presenta spesso, nei vari segmenti che lo compongono, incerto, talora confuso ed anche contraddittorio. Esso è formato da indicazioni frammentarie che in molti casi possono essere ricondotte ad una sintesi solo con il ricorso ad elaborati ragionamenti: tale metodo, però, non sempre garantisce il raggiungimento di risultati sicuri.

Il Tribunale, nel cercare di trarre dal ponderoso compendio probatorio le indicazioni davvero rilevanti, emarginando quelle di scarsa conducenza almeno per la decisione sulla specifica materia in discussione, e nel vagliarle procederà con la dovuta prudenza, cercando di tenere lontane le insidie costituite dalla interazione di alcuni fattori, quali: la suggestione di ricostruzioni plausibili anche se non supportate da prova adeguata; la grande distanza temporale dai fatti, che rende difficile al testimone il ricordo esatto degli stessi; la non più verde età di svariati testimoni, anche essa ostacolo ad un ricordo limpido degli avvenimenti, per di più assai spesso costituiti da mere interlocuzioni; la possibile influenza del modo in cui la memoria ricostruisce i fatti anche in dipendenza di avvenimenti o di cognizioni solo successivi ad essi; il condizionamento che su alcune testimonianze ha probabilmente esercitato la pressione mediatica; l’intento di rincorrere possibili, ancorché vaghi, benefici che

invogli a compiacere l’Accusa fornendo indicazioni idonee a confortare le tesi ed i temi, già in precedenza conosciuti, di un processo al quale palesemente l’Accusa medesima attribuiva una notevole importanza; possibili atteggiamenti compiacenti verso le ragioni degli imputati, già o tuttora ufficiali dell’Arma dei Carabinieri, che possano essere stati indotti da spirito di corpo o da sentimenti di affezione o di gratitudine.

Nella fattispecie, poi, dovrà prestarsi particolare attenzione alla rigorosa applicazione della regola che impone di coltivare il dubbio e di preferire, in un quadro probatorio incerto, le ragioni degli accusati, specie considerando che si deve all’atteggiamento processuale di questi ultimi, che hanno espressamente e reiteratamente dichiarato di rinunciare alla prescrizione, se si è arrivati ad una pronuncia sul merito della imputazione.

Un’ultima notazione preliminare: le ipotesi, per quanto plausibili, restano ipotesi e nuoce alla complicata attività di verifica della fondatezza delle stesse la diffusa inclinazione a trasformarle in fatti (sia pure rimasti, per il momento, sforniti di prova).

Per un P.M. e, a maggior ragione, per un giudice è questo un punto fermo, dal quale non si può prescindere.

Si avverte che, al fine di offrire un resoconto immediatamente verificabile, si riporterà frequentemente la testuale trascrizione delle dichiarazioni o dei documenti ai quali, di volta in volta, si farà riferimento.

---L’Accusa ipotizza che il generale dei Carabinieri (e poi Prefetto) Mario MORI, già investigatore di punta e protagonista della lotta alla mafia, all’epoca dei fatti vice-comandante operativo del Raggruppamento Operativo Speciale (ROS) dei CC., ed il col. Mauro OBINU, anche egli all’epoca dei fatti impegnato in investigazioni antimafia e comandante della I Sezione (Criminalità Organizzata) dello stesso Raggruppamento, abbiano favorito la latitanza del famigerato boss mafioso Bernardo PROVENZANO, deliberatamente omettendo di attivare i necessari dispositivi per catturare il predetto in occasione di un preannunciato incontro che il medesimo avrebbe avuto con l’esponente mafioso Luigi ILARDO, da tempo confidente del ten.

col. dei CC. Michele RICCIO, che era stato, appunto, preventivamente informato

dello stesso incontro. In seguito, dopo che l’annunciato incontro si era svolto, il 31 ottobre 1995, in un casolare ubicato nelle campagne di Mezzojuso, i due imputati avrebbero deliberatamente omesso di disporre tempestive indagini finalizzate al controllo della zona in cui era avvenuto l’incontro medesimo, ovvero alla compiuta individuazione dei favoreggiatori del PROVENZANO che l’ILARDO aveva specificamente segnalato fornendo alcuni dati identificativi, ed avrebbero deliberatamente omesso di comunicare alla A.G. quanto a loro conoscenza fino alla presentazione del c.d. rapporto (informativa) “Grande Oriente”, datato 30 luglio 1996, redatto a seguito della morte dello stesso ILARDO, caduto vittima di un agguato in Catania, nei pressi della sua abitazione, il 10 maggio precedente.

Secondo l’Accusa, l’origine di tale condotta, certamente anomala in due esponenti dell’Arma che erano stati stimati come irreprensibili ed abili investigatori impegnati nella lotta contro la mafia, dovrebbe individuarsi in pregressi, inconfessabili accordi, frutto di trattative fra esponenti delle Istituzioni e mafiosi. Particolare rilievo rivestirebbero, in quest’ambito, le circostanze che hanno portato alla cattura del boss Salvatore RIINA (15 gennaio 1993) e la presunta trattativa che la avrebbe resa possibile e che, con la intermediazione di Vito CIANCIMINO, sarebbe intervenuta fra l’allora col. MORI ed il cap. Giuseppe DE DONNO, da una parte, e Bernardo PROVENZANO, dall’altra. Tale trattativa, di cui sarebbero stati mandanti e garanti esponenti politici e delle Istituzioni, sarebbe sfociata nell’accordo che, in cambio della collaborazione alla cattura di RIINA ed alla cessazione delle stragi mafiose, avrebbe assicurato al PROVENZANO una sorta di immunità. In seguito, la trattativa sarebbe proseguita ed avrebbe indotto, nel corso del 1993, anche alcuni cedimenti sul piano del rigore penitenziario.

In sede di requisitoria il P.M. ha insistito sull’addotto movente della condotta contestata, evidenziando che la stessa non era stata determinata da vituperabili motivi personali, da collusione, da corruzione o da viltà: <<Mori e Obinu non hanno aiutato Provenzano perché collusi con Cosa Nostra o corrotti da Cosa Nostra o mossi dalla paura e del ritratto di Cosa Nostra ma perché hanno adottato una scelta che si è, di politica criminale che si è rivelata sciagurata, quella di far prevalere in un particolare momento l'esigenza di mediazione favorendo la fazione ritenuta più moderata di Cosa Nostra quella di Provenzano, mutando quello che

è necessario mutare con questa scelta in quel momento il governo e i responsabili del DAP decisero di assecondare questo dialogo, non importa se finalizzato alla cessazione delle stragi ma agirono in questa ottica di trattativa e a questa ottica che lo vide come protagonista principale nel 1992 nemmeno nel 1993 l'odierno imputato Mori è stato estraneo.>> (udienza del 24 maggio 2013).

Considerati anche il passato degli imputati ed il loro comportamento processuale (essi, come ricordato, rinunciando alla prescrizione non si sono sottratti al giudizio), non appare in linea con la premessa la estrema severità della sanzione richiesta dal P.M., che sembra tradire lo sforzo di imprimere agli avvenimenti una peculiarissima gravità, sforzo forse disancorato da una lettura contestualizzata degli stessi.

Ritenere, poi, a distanza di circa venti anni dai fatti, che la finalità di evitare le stragi non sarebbe rilevante appare una forzatura, posto che la stessa non potrebbe non incidere sull’apprezzamento del disvalore del fatto in vista anche della graduazione della sanzione.

Infine, affermare, senza essere apodittici, che una scelta strategica sia stata sciagurata presupporrebbe una compiuta e pacata analisi che, prendendo le mosse dalle condizioni date, avesse tenuto conto dello sviluppo degli avvenimenti, avesse verificato i risultati conseguiti ed avesse considerato problematicamente quale sarebbe stato il corso degli eventi ove fosse stata preferita una diversa, possibile opzione.

---Conviene procedere secondo l’ordine cronologico degli avvenimenti, sicché l’esame dei fatti che costituiscono lo specifico addebito sopra ricordato deve essere preceduto da quello dell’antefatto che ad essi avrebbe dato causa e che, dunque, li spiegherebbe.

Prima, però, vanno brevemente ricordati alcuni dati, assolutamente pacifici, che possono anche ritenersi notori per essere stati oggetto di numerose pronunzie giudiziarie, dati che delineano il contesto in cui si sono svolti i fatti e la evoluzione successiva degli stessi:

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la esistenza, la diffusione e la estrema pericolosità della organizzazione a delinquere di stampo mafioso denominata Cosa Nostra;

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la caratura criminal-mafiosa dei boss corleonesi Salvatore RIINA e Bernardo PROVENZANO, entrambi, all’epoca in cui prendono avvio i fatti qui considerati (1992), esponenti di vertice di Cosa Nostra e già da lungo tempo latitanti;

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la stagione di attacco ad esponenti delle Istituzioni promossa da Cosa Nostra dopo che con la sentenza del 30 gennaio 1992 la Corte di Cassazione aveva in gran parte avallato le decisioni di merito che avevano definito il c.d. maxiprocesso, stagione culminata, nel corso del 1992, nell’omicidio dell’on. Salvo LIMA (12 marzo 1992), nella strage di Capaci in cui persero la vita il dr. Giovanni FALCONE, la moglie e tre agenti della sua scorta (23 maggio 1992) e nella strage di via D’Amelio, in cui persero la vita il dr. Paolo BORSELLINO ed il personale della sua scorta (19 luglio 1992). Il comprensibile clima di sfiducia e la sensazione che lo Stato fosse impotente dinanzi alla violenza mafiosa, che caratterizzarono quel turbolento frangente, sono ben descritti nel seguente passo della deposizione dell’ex Ministro della Giustizia, on.

Claudio MARTELLI: <<P.M.: quindi quantomeno in questa fase iniziale si ritrovò solo - MARTELLI: solo ma non soltanto perché non c’era più Scotti e non c’era più soprattutto Giovanni e non c’era più Borsellino, solo perché anche magistrati come Caponnetto, dopo l’assassinio di Paolo Borsellino, dissero non c’è più niente da fare, abbiamo perduto, c’era uno scoramento, c’era la sensazione di uno Stato in ginocchio ed era questo in fondo che mi preoccupava di più, che proprio per questo qualcuno potesse pensare magari troviamo una forma più blanda di repressione, siamo campati in questo modo cinquant’anni e possiamo campare altri cinquanta, questa è la sensazione veramente preoccupante che avevo>>.

In riferimento anche alla ipotesi di accusa che è stata formulata nei confronti dell’imputato MORI e di altri nel distinto processo avente ad oggetto la c.d. trattativa Stato-mafia, che rileva anche nel presente processo in dipendenza della aggravante del nesso teologico contestata al predetto nella udienza dell’11 novembre 2011, il Tribunale osserva che il P.M. ha sostenuto che le predette, eclatanti iniziative criminali sono state promosse, fin dall’origine, sulla scorta di una precisa strategia che mirava a ricattare lo Stato per ottenere specifici benefici.

Alcune voci convalidano indiscutibilmente tale convincimento, come quella, de relato, del collaboratore di giustizia Filippo MALVAGNA e quella della fonte primaria, Giuseppe PULVIRENTI, richiamate nella sentenza sulla strage di Capaci resa dalla

Corte di Assise di Caltanissetta del 26 settembre 1997, della quale si riportano alcuni brani significativi.

<<Sembra, d’altronde, indiscutibile, per le considerazioni svolte nel quarto paragrafo del secondo capitolo di questa parte, che la decisione di uccidere Giovanni FALCONE - per la carica istituzionale dallo stesso ricoperta al Ministero; per l’ampia sfera di incidenza della sua attività di contrasto alla mafia, che valicava il confine della provincia di Palermo; per la rilevanza del personaggio; per la più ampia strategia complessiva in cui il delitto si inseriva - rientrava certamente nell’ambito di competenza della commissione regionale come forse nessun’altra prima di allora. Ed un’ulteriore significativa conferma della strategia in cui si inseriva la strage di Capaci viene dalle dichiarazioni, sotto questo profilo non ancora esaminate, rese dal MALVAGNA e dallo AVOLA. Il primo ha riferito che tra gli ultimi mesi del 1991 ed i primi giorni del 1992 si era tenuta nella provincia di Enna una riunione cui erano intervenuti gli esponenti di vertice di tutte le province siciliane in cui esisteva COSA NOSTRA, e tra questi il RIINA ed il SANTAPAOLA, per deliberare una strategia con la quale - essendosi preso atto che avevano perso consistenza i precedenti rapporti dell’organizzazione con appartenenti al mondo politico-istituzionale - si abbandonava ogni remora e si muoveva un attacco deciso contro l’apparato statale, che mostrava di volere efficacemente contrastare il fenomeno mafioso, per destabilizzarlo e crearsi nuovi spazi di trattativa. Questa strategia, efficacemente sintetizzata nell’espressione che il RIINA aveva pronunciato, secondo quanto riferito al MALVAGNA da PULVIRENTI Giuseppe, per cui “si doveva prima fare la guerra allo Stato per poi fare la pace”, prevedeva non solo l’approvazione di tutte le province ma anche il loro sostanziale contributo, che doveva tra l’altro consistere nel porre in essere attentati ed intimidazioni a chi nell’ambito di ogni provincia mostrava di volere più seriamente opporsi a COSA NOSTRA. Tale strategia avrebbe dovuto essere rivendicata con la sigla della “Falange armata”.>>;

<<Il PULVIRENTI, indicato dal MALVAGNA come colui dal quale aveva appreso della riunione di Enna e di quanto nella medesima era stato deliberato, sia pur mostrando una notevole confusione soprattutto nell’indicazione dei partecipanti alla riunione, ha tuttavia sostanzialmente confermato di aver parlato con il nipote MALVAGNA della riunione tenutasi ad Enna, cui avevano tra l’altro partecipato il RIINA e SANTAPAOLA Salvatore, e di aver parlato con lo stesso anche della strategia di attacco contro lo Stato che sarebbe stata concordata tra le organizzazioni di Palermo e Catania, strategia alla quale anche la sua organizzazione avrebbe contribuito facendo delle telefonate minatorie al sindaco di Misterbianco DI GUARDO Antonino, facendo uso della sigla “Falange armata”. […] Che poi le conoscenze manifestate dal MALVAGNA sulla predetta strategia e sulla qualità delle persone intervenute alla riunione siano state notevolmente più chiare e precise di quelle del PULVIRENTI, appare ragionevolmente spiegabile con la diversa lucidità

intellettuale dei due e con il fatto che il primo, meno portato dell’altro a circoscrivere i suoi interessi all’ambito prettamente provinciale, aveva potuto attingere ulteriori informazioni sulla linea strategica seguita in quegli anni da COSA NOSTRA e sui profili organizzativi della stessa, oltre che dalla sua partecipazione ad alcuni incontri periodici con gli affiliati della “famiglia” catanese di COSA NOSTRA, dalle conversazioni avute durante la comune detenzione con il D’AGATA, consigliere di quest’ultima “famiglia” e profondo conoscitore delle vicende di questa organizzazione. Tali indicazioni avevano, quindi, consentito al MALVAGNA di integrare le conoscenze derivanti dalle confidenze fattegli dal PULVIRENTI. Né può ritenersi che l’indicazione temporale fornita dal MALVAGNA e dal PULVIRENTI in ordine alla riunione di Enna contrasti con le scansioni cronologiche emergenti dagli atti processuali in relazione al momento in cui era stata emessa la sentenza della Corte di Cassazione n. 80 del 1992 ed ai tempi in cui era stata deliberata la strage di Capaci dalla commissione provinciale. E, invero, la riunione cui hanno fatto riferimento il MALVAGNA ed il PULVIRENTI non aveva ad oggetto specifico l’attentato a Giovanni FALCONE, ma bensì verteva sull’approvazione per linee generali di una strategia di cui COSA NOSTRA avvertiva sin da allora l’esigenza, avendo già avuto preciso sentore della inidoneità dei vecchi canali politico-istituzionali ad assicurare le necessarie coperture, atteso che – come si è evidenziato nel quinto paragrafo del capitolo primo di questa terza parte – già con nota del 27 giugno 1991 il Primo Presidente della Corte di Cassazione aveva manifestato la sua chiara volontà nel senso che il maxiprocesso di Palermo non venisse presieduto dal dottor CARNEVALE, nella cui giurisprudenza COSA NOSTRA riponeva ogni affidamento circa un esito a lei favorevole del giudizio ed intorno all’ottobre del 1991 era stato designato a presiedere il dottor VALENTE.>>;

<<Ovviamente la strategia elaborata nel corso della riunione di Enna riferita dal MALVAGNA e dal PULVIRENTI non era finalizzata ad un’immediata operatività, quanto meno per gli attentati più eclatanti, come l’omicidio LIMA e la strage di Capaci, che verosimilmente non erano stati neanche specificamente trattati, perché non sarebbe stata comunque prudente compiere azioni di quel genere in Sicilia nell’imminenza del giudizio della Suprema Corte di Cassazione e, quindi, la deliberazione dei tempi e modi di quei crimini doveva essere rimandata ad un momento successivo, più vicino a quello dell’esecuzione. E, tuttavia, quella riunione aveva una sua particolare utilità per il RIINA, in quanto gli serviva a verificare il consenso di tutti i rappresentanti delle varie province ad una strategia di così ampia portata da non poter essere certo preparata ed attuata in tempi brevi, sicché il RIINA ben poteva dopo tale consenso compiere gli ulteriori necessari passi che dovevano gradatamente portare all’esecuzione dell’omicidio LIMA prima ed alla strage di Capaci poi. Né deve meravigliare il fatto che l’esistenza di tale riunione non fosse nota agli affiliati, pur di grado elevato, alle

“famiglie” palermitane, poiché la compartimentazione delle conoscenze nell’ambito di quelle strutture, di gran

lunga più articolate su diversi livelli gerarchici rispetto alla “famiglia” catanese facente capo al SANTAPAOLA, rendeva certamente meno facile ad un consociato palermitano non direttamente coinvolto nella vicenda di venire a conoscenza di un incontro tra i vertici delle varie province rispetto a quanto non lo fosse per un consociato catanese di livello elevato qual era certamente il PULVIRENTI, dalle cui confidenze il MALVAGNA aveva tratto la sua conoscenza della riunione, in virtù del suo stretto rapporto anche familiare con lo stesso.

Quest’ultima circostanza spiega anche perché neppure lo AVOLA, benché affiliato a COSA NOSTRA a differenza del MALVAGNA, ignorasse tale riunione, pur essendo a conoscenza, come emerge dalle sue dichiarazioni, della strategia di attacco allo Stato, del consenso fornito a tale strategia dai vertici catanesi - anche se con delle riserve interne - e dell’utilizzo della sigla della “Falange armata” per le rivendicazioni.>>.

Per le considerazioni svolte nei richiamati brani della sentenza nissena, non sembra incompatibile con l’esposto convincimento il fatto che autorevoli fonti, già protagoniste in Cosa Nostra con ruoli di spicco nella Sicilia occidentale, non abbiano parlato della suddetta deliberazione strategica, ed abbiano dichiarato, piuttosto, che la decisione, successiva alla definizione del maxiprocesso, di procedere a cruente ritorsioni perseguiva, più semplicemente, il tradizionale effetto intimidatorio attraverso la punizione dell’impegno antimafia dei magistrati che avevano promosso il maxiprocesso (i dr.i FALCONE e BORSELLINO) e del (ormai risalente) disimpegno di quegli esponenti politici dai quali, a torto o a ragione, i mafiosi si attendevano un fattivo adoperarsi per le sorti della organizzazione: l’on. Salvo LIMA (in connessione con il sen. Giulio ANDREOTTI), che non si era adoperato per neutralizzare il maxiprocesso; l’on. Claudio MARTELLI, che nel 1987 aveva riscosso i consenso elettorale dei mafiosi.

Sono istruttivi, al riguardo, i seguenti brani, contenenti citazioni di alcune dichiarazioni di importanti collaboratori di giustizia (Vincenzo SINACORI, già al vertice della mafia di Mazzara del Vallo e Antonino GIUFFRE’, già capo del mandamento mafioso di Caccamo), della sentenza di appello (2 maggio 2003) del processo a carico del sen. ANDREOTTI:

Particolarmente significative appaiono, in proposito, le, già richiamate, dichiarazioni del citato Sinacori, di cui pare opportuno trascrivere testualmente il seguente passo: “<<PM NATOLI: ho capito.

Lei ha sentito parlare al di là di queste due fonti che ci ha ricordato di... da parte di altri del Senatore Andreotti o comunque ha altre notizie? Ovviamente... - SINACORI V.: io, altre notizie in merito al Senatore Andreotti, ce li

ho... durante... prima della sentenza del Maxi-Processo o subito dopo la sentenza del Maxi-Processo, perché Andreotti era diventa... il Senatore Andreotti era diventato un obiettivo da colpire ad ogni costo, perché lo ritenevano responsabile sia della sentenza che delle... che si era inasprito molto contro di noi. Inasprito nel senso che siccome ricordo che lui e... aveva firmato un decreto per fare ri... rincarcerare persone che erano uscite, siccome era una cosa che se lui voleva, poteva giocare, perché siccome si trovava fuori, si trovava all'estero, pensavamo tutti che non... che non riusciva a firmare questo decreto. Invece lo ha firmato, le persone sono state nuovamente arrestate. Questo era un fatto, poi ricordo pure che si parlava che sia il Senatore

ho... durante... prima della sentenza del Maxi-Processo o subito dopo la sentenza del Maxi-Processo, perché Andreotti era diventa... il Senatore Andreotti era diventato un obiettivo da colpire ad ogni costo, perché lo ritenevano responsabile sia della sentenza che delle... che si era inasprito molto contro di noi. Inasprito nel senso che siccome ricordo che lui e... aveva firmato un decreto per fare ri... rincarcerare persone che erano uscite, siccome era una cosa che se lui voleva, poteva giocare, perché siccome si trovava fuori, si trovava all'estero, pensavamo tutti che non... che non riusciva a firmare questo decreto. Invece lo ha firmato, le persone sono state nuovamente arrestate. Questo era un fatto, poi ricordo pure che si parlava che sia il Senatore

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