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Presupposti oggettivi

Nel documento RASSEGNA DELLA GIUSTIZIA MILITARE (pagine 41-45)

2. Presupposti applicativi 1 Pericolosità “comune”

2.4. Presupposti oggettivi

Abbiamo visto, sino ad ora, i presupposti soggettivi delle misure di prevenzione, mettendo a fuoco le possibili sfaccettature del concetto pericolosità (comune e sociale) e tratteggiando ciascuna categoria entro cui il soggetto deve rientrare per diventare destinatario di una misura di prevenzione personale, piuttosto che patrimoniale.

Relativamente alle misure preventive patrimoniali, la loro applicazione non dipende solo dalla sfera soggettiva del proposto, ma anche da elementi oggettivi, tangibili, che si riferiscono alle disponibilità di beni (mobili o immobili) in capo a lui. I presupposti oggettivi, infatti, consistono:

a) nella disponibilità, diretta o indiretta, del bene da parte del proposto; b) nella sufficienza indiziaria della provenienza illecita del bene; c) nella sproporzione rispetto al reddito dichiarato.

La disponibilità, diretta o indiretta, dei beni in capo al proposto, va intesa in senso sostanziale, e di essa va data la prova. La definizione di disponibilità evoca la volontà del legislatore di ampliare le possibilità di intervento, andando oltre il concetto civilistico di proprietà e/o di possesso. Il Codice antimafia recepisce una nozione sostanziale, estesa a tutti i beni che rientrano nella sfera giuridico-economica della persona, andando oltre il dato dell’intestazione formale. La stessa Corte di Cassazione ha precisato che il concetto di disponibilità non presuppone una relazione materiale con il bene, riferendosi anche a tutte quelle situazioni in cui la persona agisce uti dominus, anche se tale potere è esercitato tramite colui che ha il concreto godimento del bene (Cass. pen. sez. II, sent. n. 6977 del 23 febbraio 2011). Tale nozione vi ricomprende infatti, sia le ipotesi di disponibilità diretta dei beni sia quelle di disponibilità indiretta. La disponibilità diretta non presenta particolari problemi, desumendosi dalla formale titolarità. Non occorre dimostrare la titolarità che il proposto abbia di un bene, ma è sufficiente provare che ne determini la destinazione o l’impiego.

I modelli più elementari di ricognizione della ricchezza in sede di accertamenti patrimoniali antimafia ricorrono nelle ipotesi di identità soggettiva tra persona indagata e titolarità ufficiale dei

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beni o, come spesso accade, quando i beni rientrino nel novero della cerchia familiare “ristretta” dell’indagato (coniuge, figli e altre persone conviventi). In questo caso, infatti, l’individuazione dei beni non richiede normalmente il ricorso a moduli investigativi complessi e invasivi, essendo sufficiente attivare gli ordinari accertamenti presso le banche dati e gli uffici pubblici demandati alla conservazione dei dati, eventualmente integrati con mirate indagini finanziarie onde appurare la presenza di attività/disponibilità finanziarie in capo all’indagato e ai propri familiari.

Una notazione specifica meritano gli accertamenti da esperire nei confronti dei soggetti facenti parte del nucleo familiare del soggetto direttamente indagato, in quanto uno dei più diffusi e insidiosi sistemi di mimetismo e occultamento dei beni di derivazione illecita è rappresentato dall’intestazione o trasferimento fittizi della proprietà del bene, in cui si realizza una “dissociazione” tra la titolarità formale e apparente del bene e la titolarità o disponibilità effettiva dello stesso. Tale fenomeno è stato tenuto ben presente dal legislatore antimafia fin dai primi approcci all’aggressione patrimoniale introducendo, seppur con una previsione molto generica, un sistema capace di colpire anche i beni di terzi che si trovino nella disponibilità del soggetto indagato, così da impedire l’elusione delle misure patrimoniali derivante da intestazioni fittizie dei beni a terzi o dalla creazione di società di comodo.

Tra questi, il primo livello di collegamento soggettivo preso in considerazione dal Legislatore ha riguardato, per l’appunto, il coniuge, i figli e coloro che nell’ultimo quinquennio hanno convissuto con l’indagato. L’estensione ex lege degli accertamenti ai soggetti facenti parte del nucleo familiare dell’indiziato deriva proprio dalla constatazione, del tutto ovvia già nella fase “preistorica” di applicazione della legislazione patrimoniale antimafia, che il più semplice e tradizionale sistema di occultamento dei beni illeciti consiste nell’intestazione ai più diretti familiari realizzata senza ricorrere a particolari artifici.

Si tratta di una metodologia di dissimulazione oramai quasi completamente abbandonata dai soggetti mafiosi, anche di più basso profilo criminale, vista la facilità di rilevazione dei beni nella fase ricognitiva ma, soprattutto, l’agevole riconducibilità degli stessi beni al soggetto indagato attraverso una presunzione iuris tantum. Nei confronti del coniuge, dei figli e dei conviventi del proposto opera, infatti, una presunzione legale relativa di disponibilità indiretta dei beni, (che può, quindi, essere superata attraverso la prova contraria fornita dagli interessati) desumibile dal dettato normativo dell’art. 19 e basata sul dato di comune esperienza secondo cui il proposto è in grado di esercitare una signoria di fatto o comunque di avere la disponibilità di beni solo formalmente intestati a individui sottoposti alla sua “soggezione” in virtù dello stretto vincolo parentale e/o di convivenza esistente. Ne consegue che, attualmente, gli accertamenti patrimoniali sui prossimi congiunti possono essere eseguiti automaticamente dagli investigatori non tanto nella speranza di trovare beni a loro intestati dall’indagato, quanto per avere una visione complessiva del quadro economico, patrimoniale e finanziario dell’intero nucleo familiare da utilizzare in un contesto investigativo più ampio e articolato.

In ogni caso, laddove dovesse emergere l’esistenza di beni intestati al coniuge o ad altro familiare convivente, alla luce del delineato quadro giurisprudenziale, l’interposizione fittizia di persona è ritenuta sussistente, come detto, sulla base di una presunzione relativa di illecita accumulazione patrimoniale, a meno che non risulti già in sede di accertamento l’effettiva riconducibilità dell’acquisto al familiare predetto e/o la congruità rispetto ai redditi derivanti dall’attività di lavoro da questo svolta. Si tratterà, pertanto, di ricostruire la posizione reddituale del familiare intestatario del bene, attraverso il semplice utilizzo delle banche dati, onde provare l’incongruenza tra il valore del bene e il reddito dichiarato.

Nel caso, invece, di disponibilità indiretta, è necessario provare che, al di là della formale intestazione del bene, il proposto ne risulti l’effettivo dominus in quanto il concetto di disponibilità non può ritenersi limitato alla mera relazione naturalistica o di fatto con il bene, ma deve essere esteso, al pari della nozione civilistica del possesso, a tutte quelle situazioni nelle quali il bene medesimo ricada nella sfera degli interessi economici del soggetto, anche se costui eserciti il proprio potere su esso per il tramite di altri che pure ne godano direttamente. La prova della disponibilità indiretta deve essere rigorosa (poiché si va ad incidere sul diritto di proprietà di una terza persona – art. 42 della Costituzione), ma può essere fornita anche sulla base dei requisiti della gravità,

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precisione e concordanza, che avallino concretamente l’ipotesi del carattere puramente formale dell’intestazione a terzi e, corrispondentemente, del permanere della disponibilità dei beni nell’effettiva ed autonoma disponibilità di fatto del proposto. Tali requisiti sono, appunto, idonei a costituire prova indiretta della disponibilità.

La giurisprudenza non differenzia la natura dell’onere “probatorio” nel momento del sequestro o della confisca, ma in quest’ultima fase, col pieno esplicarsi del contraddittorio, a fronte della prova offerta dall’organo proponente e ritenuta idonea dal Tribunale in sede di sequestro, i terzi intestatari (apparenti titolari), possono fornire elementi diretti ad inficiare la ricostruzione accusatoria (esercitando la “facoltà di difendersi”) attraverso l’introduzione nel procedimento non della prova di elementi a discolpa, ma di temi o tracce di prova la cui indicazione ritengano utile a fini difensivi. Non si tratta di “inversione dell’onere della prova”, ma di mero onere di allegazione, pur se il tema o la traccia offerta devono apparire verosimili e congruenti.

Sul terzo, quindi, non grava una probatio diabolica, poiché dovrà indicare temi o tracce di prove, per dare giustificazione della disponibilità di risorse economiche commisurate al valore del bene (Cass. pen. sez. II, sent. n. 6977 del 23 febbraio 2011). Egli potrà perfino dimostrare il possesso di risorse adeguate, allegando redditi illeciti. A differenza del proposto, infatti, egli non deve dimostrare la provenienza legittima, ma solo la disponibilità del bene, anche provando di averlo acquistato con risorse di origine illecita, ferme restando le altre conseguenze di legge che derivano dalla sua allegazione (Cass. pen. sez. II, sent. n. 2181 del 6 maggio 1999 “Sannino”). Per essere attendibile, il terzo non si può limitare ad affermazioni generiche, ma deve fornire prove documentate o almeno riscontrabili sul piano logico o fattuale (estratti c/c; depositi bancari; successioni ereditarie; contabilità parallele; ricevute nominative di vincite al gioco), altrimenti difficilmente riuscirà a dimostrare la sua buona fede, ovvero della sua estraneità all’attività illecita del proposto.

L’esistenza di sufficienti indizi tali da far ritenere che i beni siano frutto di attività illecita o ne costituiscano il reimpiego. Tale requisito presenta uno standard probatorio inferiore alla prova, ed è costituito da quegli indizi che, in misura sufficiente, conducano alla genesi illecita dei beni o al loro reimpiego. La sufficienza indiziaria è data soprattutto dall’elemento, non è l’unico ma certamente è il principale, della sproporzione tra il valore dei beni nella disponibilità (diretta o indiretta) del proposto e i suoi redditi e le attività da lui svolte.

L’art. 20 del D.lgs.159/2011, infatti, prevede che oggetto di sequestro di prevenzione, ad esempio, possano essere, oltre ai beni di cui si disponga in valore sproporzionato, anche quelli che, sulla base di sufficienti indizi, si ritiene “[…] siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il

reimpiego”. L’utilizzazione di tale formula ampia, pone in luce la volontà del legislatore di dilatare

l’oggetto delle misure di prevenzione patrimoniali in modo da ricomprendere non solo quanto rappresenta il provento di determinate attività illecite, ma anche ciò che costituisce il risultato del reinvestimento di tali proventi. Rientrano, dunque, tra i “frutti” suscettibili di confisca:

- i risultati empirici delle azioni criminose, intendendosi come tali le cose che vengono create, trasformate o acquisite mediante il reato;

- le utilità economiche conseguite per effetto della realizzazione dell’illecito penale.

I beni che presentano una correlazione indiretta con la condotta criminosa, consistendo nell’impiego in attività imprenditoriali, rientrano nella nozione di “reimpiego”, con la quale si intende, difatti, ogni forma di utilizzazione ovvero di investimento in attività economiche o finanziarie dei beni di provenienza illecita. In tal modo, risultano incluse nell’ambito della confisca di prevenzione non solo le più varie fattispecie concrete di utilizzo ovvero di sostituzione di beni illegalmente acquisiti, ma anche:

- tutte le ipotesi di immissione di beni di provenienza illecita (diretta o indiretta) nei normali circuiti economici e finanziari;

- i casi di persistente uso illecito di ricchezze accumulate in epoca anteriore all’entrata in vigore della normativa;

- le situazioni in cui una determinata iniziativa imprenditoriale abbia potuto sorgere o espandersi grazie all’inserimento del suo titolare nell’organizzazione mafiosa ed ai vantaggi di natura illecita di

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conseguenza ottenibili. In tal caso, evidentemente, l’oggetto della confisca sarà costituito dall’intera azienda, la quale può costituire di fatto il “frutto” di attività illecite a monte. Più in particolare, possono formare oggetto delle misure di prevenzione:

- il danaro o il diverso prodotto materiale ottenuto con lo svolgimento di un’attività illecita (come, ad esempio, il traffico di stupefacenti o le estorsioni);

- i beni acquistati con il danaro ricavato dall’attività illecita, rientranti anch’essi nel concetto di “frutto”;

- i beni comunque acquisiti con ulteriori operazioni rivolte ad ottenere utilità economiche dai proventi frutto delle attività illecite. Rientrano in tale categoria, non solo i beni nei quali i primi siano stati semplicemente convertiti, ma anche i prodotti di attività economiche, per lo più imprenditoriali, impiantate, almeno prevalentemente, con l’impiego di proventi illeciti.

È evidente che tale requisito amplia la sfera di intervento sui patrimoni mafiosi, presentando, rispetto alla confisca allargata di cui all’art. 240 bis del c.p. “Confisca in casi particolari”, il vantaggio di trovare più varchi operativi, anche nel caso in cui, pur in assenza di sproporzione, sussistano sufficienti indizi che depongano in favore della provenienza illecita di tutti i beni o di una parte di essi. Si pensi, ad esempio, alle forme più sofisticate di reimpiego dei proventi di illecite attività, in cui è curata perfettamente la tenuta delle scritture contabili e la regolarità della posizione fiscale, in modo da creare un’apparenza legale. La dichiarazione di un collaboratore di giustizia sull’apporto finanziario mafioso in un’attività economica apparentemente regolare, integrata per il completamento del sufficiente quadro indiziario, potrebbe, ad esempio, sostenere la confisca dei beni o di una parte di essi. Ben più difficilmente lo stesso risultato si potrebbe conseguire con la confisca allargata di cui al nuovo art. 240-bis c.p., in cui la sproporzione è elemento cardine della presunzione di illecita provenienza dei beni. La giustificazione del patrimonio sarebbe opponibile con il reddito derivante dall’attività economica svolta, in modo apparentemente regolare. Solo complessi accertamenti sulla ricostruzione dei movimenti economico - finanziari o la prova (e non sufficienti indizi) della illecita provenienza dei capitali potrebbero superare l’esteriore regolarità economico-contabile. Ovviamente, considerato il dettato della norma, per procedere alla successiva confisca nel caso di ipotesi di frutto o reimpiego, non basterà la “sufficienza indiziaria” che aveva legittimato il sequestro, ma sarà necessario che “risulti” che i beni costituiscano “frutto o reimpiego”. Pur nell’inerzia difensiva del prevenuto, non potranno confiscarsi i beni che si ritengono frutto o reimpiego, se tali non siano “risultati” dalle ulteriori attività istruttorie. Il verbo “risultare” impone difatti un livello probatorio più elevato, con un meccanismo di progressione delle acquisizioni probatorie simile a quello del processo penale, nel quale la sufficienza indiziaria è richiesta per l’adozione di misure cautelari, ma è necessario uno standard più elevato per l’affermazione della responsabilità, richiedendo, perlomeno, la prova indiziaria ex art. 192 c.p.p. (indizi gravi, precisi, concordanti); ciò “[…] non vuol dire che deve essere fornita la prova del nesso causale tra uno

specifico bene e un determinato reato e, quindi, la prova dei crimini dai quali derivino i profitti, ma soltanto che l’accusa faccia emergere una serie di circostanze concrete (tali da fondare una prova indiziaria) da cui emerga l’origine illecita e la mancanza di una giustificazione alternativa”.

La sproporzione. La prova dell’origine illecita dei beni, può essere fornita, tra l’altro, attraverso la dimostrazione della sproporzione del loro valore rispetto al reddito dichiarato o all’attività economica svolta. La sproporzione opera come presunzione iuris tantum, costituendo un indizio che i beni sono “frutto di attività illecite” o ne “costituiscono il reimpiego”. Essa consente un’agevolazione dell’onere della prova, al fine evidente di rendere più efficace il contrasto alla criminalità organizzata, colpendola nell’aspetto per loro più rilevante: l’accumulo delle ricchezze illecite. Il calcolo della sproporzione si effettua raffrontando il valore dei singoli beni con il reddito del soggetto pericoloso dichiarato a fini fiscali e/o quello delle sue attività economiche. L’accertamento segue un iter logico, che ha inizio con l’individuazione del patrimonio nella disponibilità del proposto (o viceversa con l’accertamento del reddito). Questa è un’operazione particolarmente complessa per la varietà delle fonti di reddito, il frequente ricorso a prestanome o ad altre forme di occultamento del patrimonio, anche con transazioni internazionali. A tale fine, oltre alle consuete interrogazioni delle banche dati a disposizioni delle forze di polizia (Camera di

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Commercio, Anagrafe tributaria, Catasto, Conservatoria Immobiliare, ACI, Motorizzazione), assume particolare rilievo la lettura degli atti dei procedimenti penali (in particolare i provvedimenti giudiziali e degli atti di indagine), nell’ottica differente delle indagini patrimoniali, da cui si possono ricavare importanti informazioni sui beni nella disponibilità del proposto, sulla origine delle risorse e sulle intestazioni fiduciarie. Nel compendio patrimoniale vanno considerati l’insieme dei beni immobili, mobili registrati, società, disponibilità finanziarie (conti correnti, titoli, con tributi statali), a qualsiasi titolo nella disponibilità del proposto. I beni devono essere valutati secondo i valori di mercato ricorrendo a parametri oggettivi (es. per i beni immobili, la borsa immobiliare). La valutazione dei beni, in mancanza di riferimenti certi, comporta un certo margine di discrezionalità da parte dell’organo proponente, che rende spesso necessario, nella fase successiva al sequestro, la nomina di un perito, per una più precisa ponderazione dei valori. Dopo aver ricostruito il patrimonio, si dovrà determinare il reddito del proposto (o viceversa il patrimonio), che rappresenta il secondo termine del raffronto. La normativa vigente indica, come parametri di riferimento, quelli del reddito dichiarato ai fini fiscali e dell’attività economica svolta. I due criteri hanno un rapporto alternativo, per cui una volta accertata la sproporzione rispetto al reddito dichiarato al Fisco non occorre un’ulteriore verifica rispetto all’attività economica. Il riferimento all’attività economica comporta quindi, un’integrazione del reddito qualora quello effettivo sia superiore a quello dichiarato ai fini fiscali. Ciò si spiega per l’esistenza di alcuni redditi che possono essere legittimamente dichiarati in misura forfettaria, con valori inferiori rispetto a quelli reali (attività agraria; utili sociali) e di altri che sono perfino esentati dall’obbligo di dichiarazione (redditi di capitali, ricavato di vendite o donazioni). Una volta determinato il totale delle fonti dei redditi e degli impieghi, si potrà procedere al calcolo della sproporzione effettuando la somma algebrica di tali valori, con riferimento al momento dell’acquisto di ogni singolo bene.

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