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I

Chiunque al vero è volto et ha nel core Quel sole impresso et le bellezze eterne, Et di qua quanto mira et quanto scerne

Un sogno stima, un’ombra, un freddo horrore, 5 Cura non ponga al mio grave dolore,

Ned a i sospir che da le parti interne

M’escono ogni hor: che pro notitia haverne A lui ch’acceso è del divino amore?

A voi scopro i miei mali et con voi parlo, 10 Che di vane speranze il cor nodrite,

Cui rode dentro l’amoroso tarlo: Qual è il mio stato dico, Amanti, udite,

Poscia che pur a voi son di spiegarlo Queste mie basse e incolte rime ardite.

Con il sonetto proemiale il poeta si rivolge e individua il destinatario del suo canzoniere: l’amante. Egli è colui che, prigioniero del vortice della passione terrena, vive l’amore come esperienza tanto esclusiva e totalizzante, quanto tragica, tormentata poiché lontana da quella logica religiosa che, al contrario, renderebbe liberante tale sentimento. La bipartizione strutturale di questo componimento è emblematica: le terzine infatti rendono esplicito il destinatario dell’opera al contrario delle quartine, che lo definiscono in negativo. Si realizza così una biplanarità, una dicotomia manicheista tra coloro che sono rivolti a Dio e coloro che invece guardano esclusivamente alla realtà terrena, tra un amore profano, classico-pagano, e uno sacro e gravitante nell’orbita del Cristo. Ovviamente il doppio livello semantico di questo testo ricorda anche la divisione in due parti del canzoniere stesso: la prima chiamata a delineare l’angoscia dell’amore terreno, la seconda la santità liberante di quello divino. L’incontro liberante con Dio è il movente del canzoniere e della sua vocazione pubblicitaria, volta a sponsorizzare la pace e la libertà che solo l’incontro con il Risorto può conferire all’uomo. Nel comporre questo testo Marmitta si sente dunque dalla parte di coloro che sono, per parafrasare il testo, volti al Vero (a Dio) e dunque possono (anzi vogliono e devono) testimoniare la Sua gioia e tentare di far alzare gli occhi a tutti coloro che permangono, con lo sguardo a terra, ad essere invischiati nelle paludi mondane.

Il sonetto è probabilmente uno degli ultimi composti dal poeta in vista della “costruzione” del canzoniere, e perciò va ascritto agli anni (romani) che seguono l’incontro con san Filippo Neri. Questo testo testimonia infatti, oltre che l’acquisizione da parte del poeta di una profonda spiritualità, anche la volontà di dare all’insieme delle sue rime un testo-manifesto che coordini lo sforzo dottrinale del poeta. La presenza e la

posizione incipitaria di questo testo testimoniano la volontà dell’autore di organizzare le sue rime in un libro, capace di disegnare la parabola storica ed esemplare della sua vita. Quella dell’autore vuole essere infatti una operazione di insegnamento (son di

spiegarlo), resa possibile dalla scrittura su carta della sua esperienza di vita, che vuole e

deve divenire esempio per i lettori. La parabola dell’intero canzoniere è dunque un invito, in linea con le intransigenti tendenze controriformistiche, a rivolgersi a Dio, unico a concedere vera pace all’uomo.

Così come aveva fatto Bembo, Marmitta limita nel sonetto proemiale l’elemento di vergogna e di pentimento caratteristico di RVF I, per porvi invece l’esplicito invito ad utilizzare l’opera, nel suo insieme, come canale di riscatto e come modello di comportamento. Rimane invece invariata, rispetto ai RVF e alle Rime, la funzione programmatica e riassuntiva del testo incipitario, apertura e “manifesto” del canzoniere. L’assenza del sonetto sulle carte del ms. parmense conferma le ipotesi sulla sua datazione tarda rispetto al resto della produzione e lo accosta ai due componimenti che seguono: al pari di essi infatti il presente testo ha una vocazione marcatamente funzionale alla forma “canzoniere”. Nei primi tre sonetti infatti vengono presentate le tre “persone” coinvolte nel messaggio poetico del Marmitta: rispettivamente i destinatari (gli amanti), l’io poetico (Marmitta), l’oggetto dell’amore e del canto che ne deriva (la donna, nella seconda parte del canzoniere questa funzione verrà ricoperta da Dio).

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1. vero: Dio, che è Verità (cfr. Gv 14, 6 ‹‹Io sono la via, la verità e la vita››). 2. le

bellezze eterne: sintagma dantesco, cfr. Purg. XIV, 149 ‹‹mostrandovi le sue [del cielo,

di Dio] bellezze eterne››. 3. di qua: nel mondo, nella vita terrena. 4. un sogno

stima, un’ombra: per questi termini, canonici per l’inanità e caducità dei beni terreni,

cfr. RVF CLVI, 4 ‹‹ché quant’io miro par sogni, ombre et fumi››; RVF CCXCIV, 12 ‹‹Veramente siam noi polvere ed ombra››. 5. grave dolore: in un primo momento dovuto all’amore terreno, in un secondo alla continua caduta nelle tentazioni mondane e al discontinuo rapporto con Dio. 6. ned: la d è eufonica. 7. che pro notitia

haverne: “quale vantaggio dall’averne notizia”. 10. vane speranze: sintagma

petrarchesco, cfr. RVF I, 6 ‹‹fra le vane speranze e il van dolore›› e CLXXXIV, 13-14 ‹‹in che stato son queste | vane speranze, ond’io viver solia››. 13. pur: “solo, proprio”.

II

Le bellezze a cantar di donna, stile

Non basta haver pien di dolcezza e d’arte. Come ben le saprà spiegare in carte Chi di seguire Amor si tiene a vile?

5 Come ridir potrà l’altero humile

Sguardo che ’l cor da l’huom dolce diparte, Come hor le chiome accolte et hora sparte Et quando al collo fan vago monile? E i rubini et le perle ond’escon fuore 10 Parole accorte, per cui spesso crebbe

Ne gli amanti desio, speme et timore? Non può, dico, ritrarle un che non hebbe

A provar mai de l’amoroso ardore, Anzi sovente a sé medesmo increbbe.

La sola capacità tecnico-stilistica non può bastare per parlare di amore, è necessaria altresì l’immersione completa nella passione, conditio sine qua non per scrivere versi autentici sul tormentato rapporto con l’amata. Non può dedicarsi ad una sincera versificazione d’amore colui che lo evita, lo disprezza, o lo ritiene una debolezza: il poeta diventa così un privilegiato, un eletto in grado di raggiungere quelle altezze poetiche alle quali Venere conduce. Protagonista di questo testo non è, come potrebbe apparire ad una prima lettura, la donna da lodare, bensì il poeta-lodante, che si serve di questi quattordici versi per meglio autodefinirsi. La funzione maggiormente significativa di questo testo è però un’altra: quella di garantire al lettore che ciò che egli si appresta a leggere è stato sperimentato dal poeta sulla sua stessa pelle, garantisce cioè che le liriche sono fedeli alla vita vissuta, non sono frutto di invenzione o di solo artificio retorico. Si tratta dunque di un passaporto di autenticità che non guarda in primo luogo a confermare la veridicità della forza di amore, quanto piuttosto ad affermare con forza che l’impalcatura amorosa su cui si innesterà la conversione a Dio, centro ideologico e fine dell’opera, è ben autentica e salda: l’esperienza di vita del poeta, messa in rima, è davvero reale e ha le carte in regola per farsi, dunque, esemplare.

Dopo aver individuato, con il sonetto proemiale, gli amanti come destinatari del canzoniere, il poeta definisce ora la sua immagine di amante-scrittore, creatore di una poesia autentica proprio perchè autentico, assoluto e totalizzante è l’amore stesso che lo coinvolge.

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2. arte: “tecnica poetica”. 3-4. “Come potrà cantare in modo compiuto (ben) le bellezze della donna chi concepisce l’amore come una cosa di cui vergognarsi?” 3. cfr. RVF CCLXI, 11 ‹‹che ’ngegno human non pò spiegar in carte››. Come: si noti l’anafora ai vv. 3-5-7. 5. altero humile: tradizionale coppia oppositiva, chiamata a testimoniare il topos della continua alternanza tra gioia e dolore per colui che, innamorato, sperimenta l’insensibilità della donna. 6. dolce diparte: “dolcemente separa”; si accenna al motivo topico dell’allontanamento del cuore dal corpo

dell’amante stesso. 7. per l’attenzione ai capelli, “ora raccolti e ora sciolti e sparsi”, cfr. RVF CXCVI, 7-11 ‹‹et le chiome or avolte in perle e ‘n gemme, | allora sciolte, et sovra òr terso bionde: | le quali ella spargea sì dolcemente | et raccogliea con sì leggiadri nodi | che ripensando anchor trema la mente››; XC, 1-2 ‹‹Erano i capei d’oro a laura sparsi | che ‘n mille dolci nodi gli avolgea››; CCXXVII 1-4 ‹‹Aura che quelle chiome bionde e crespe | cercondi et movi, et se’ mossa da loro, | soavemente, et spargi quel dolce oro, | et poi ‘l raccogli, e’n bei nodi il rincrespe››. 9. i rubini e le perle: indicano la bocca della donna (il rosso delle labbra e il bianco dei denti); nei RVF le perle sono solitamente accostate ai capelli, in quanto elemento decorativo (cfr. RVF CXXVI, 47-49 ‹‹qual su le trecce bionde | ch’oro forbito et perle | eran quel dì, a vederle›› e il sopra riportato RVF CXCVI, 7). 10. parole accorte: “parole caste, sagge”; sintagma petrarchesco, cfr. RVF XXXVII, 86-7 ‹‹et l’accorte parole, | rade nel mondo o sole››, CV, 61 ‹‹In silentio parole accorte et sagge››, CIX, 10 ‹‹move col suon de le parole accorte››, CLXX, 3 ‹‹...parole honeste accorte››; ‹‹parolette accorte›› in CLXXXIII, 2 e CCLIII, 1. 11. desio, speme e timore: queste tre “forze” governano e determinano l’azione del poeta innamorato, perennemente in balia di esse; cfr. ad es. I VII 1-4.

III

Donna che sète a quella parte giunta Ove è la somma de l’eterne lodi,

Qual penna sia ch’a pieno unqua vi lodi? Qual da l’uso mortal tanto disgiunta? 5 Ogni amoroso stral ratto si spunta

Che ’l cor vi tocchi (et d’altrui reti et frodi Nulla temete) con sì fermi nodi

S’è in voi beltà con honestate aggiunta. Questa ad amarvi ogn’huom tragge, et insegna 10 La strada di salire al cielo; et quella

D’honor vi rende et riverenza degna. L’una a gloria immortal gli animi appella

Et sovra il senso l’altra impera et regna, O Donna veramente honesta et bella.

Il canto poetico scaturisce dalla presenza della terza “persona” del canzoniere: la donna amata. Essa si presenta subito come creatura celeste, dotata di straordinaria bellezza e di colta rettitudine morale (honestà), al punto da poter insegnare agli uomini ‹‹la strada di salire al cielo››. Tuttavia cogliere a pieno l’insegnamento della donna è possibile

solo a colui che, accompagnato da una forte fede religiosa, viva nella logica del Cristo, così che le passioni terrene non abbiano potere su di lui. Ovviamente questo non è il caso del giovane poeta, che nelle liriche seguenti si dimostrerà prigioniero delle reti dell’amore profano: egli non può ancora accettare né comprendere a pieno la santa castità della donna, che lo conduce alle pene d’amore. Dunque, lo si era già accennato, dietro a questo testo c’è un Marmitta anziano e spirituale, volenteroso di presentare la donna del canzoniere (in realtà se ne celebrano più di una, e questa ha la funzione di individuarle tutte) come creatura ultramondana, bella, santa: intesa cioè nella sua potenziale essenza divina, come creatura che innalza lo spirito dell’uomo all’amore di Dio. Fa ciò senza fare accenno ai tormenti che la castità della donna ha inflitto all’io giovanile del poeta stesso. Le sofferenze d’amore ora vengono taciute non perché non sono considerate importanti (se ne parlerà per almeno due terzi del canzoniere) ma perché ci si vuole occupare della sola fattura divina dell’amore e della donna. Una volta immersi nella logica di Dio, come lo è l’ultimo Marmitta, la passione terrena viene superata: lo stesso avviene per il ricordo delle sofferenze, le quali vengono ora sublimate e chiamate a divenire l’emblema di una vita dissennata e lontana dalla verità; una vita che conduce la grande maggioranza dei viventi, chiamati a conventirsi e a sperimentare la grandezza dell’amore di Dio.

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1-2. a quella parte...lodi: perifrasi per “cielo, paradiso”. 3-4. per il topos dell’inadeguatezza della lingua umana a parlare della bellezza della donna cfr. ad es. RVF XX, 9-14 ‹‹Più volte già per dir le labbra apersi, | poi rimase la voce in mezzo ’l pecto: | ma qual sòn poria mai salir tant’alto? | ... | Più volte incominciai di scriver versi: | ma la penna et la mano et l’intellecto | rimaser vinti nel primier assalto››; RVF LXXII, 10-12 ‹‹nè già mai lingua humana | contar poria quel che le due divine | luci sentir mi fanno››; RVF CCXLVII, 12-13 ‹‹Lingua mortale al suo stato divino | giunger non pote››; RVF CCCXXV, 5-6 ‹‹Come poss’io, se non m’insegni, Amore, | con parole mortali aguagliar l’opre | divine››, RVF CCCVIII, 8 ‹‹né col mio stile il suo bel viso incarno››; TC II, ‹‹ov’è ’l mio stile quasi al mar piccolo fiume››. Secondo l’ideale della “convenienza” (per cui è adeguato soltanto l’accostamento fra entità della medesima natura e del medesimo livello) una strumento umano come la penna non è adatto a rappresentare una realtà celeste, come la donna. 3. unqua: latinismo, “mai”. 5-8. “Poiché siete bella e onesta, ogni freccia d’amore che raggiunge il vostro cuore si infrange immediatamente (ratto) e non avete timore di altri tranelli e inganni”. 5.

amoroso stral: sintagma petrarchesco, cfr. ad es. RVF CCXLI, 4 ‹‹con un ardente et

amoroso strale››. 6. altrui: in primo luogo di Amore. reti: metafora tradizionale per indicare la prigionia a cui Amore conduce. 7. si noti la forza espressiva dell’incipitario nulla temete (in enjambement); per l’espressione cfr. TC I, 25 ‹‹[un

garzon crudo, Amore] nulla temea, però non maglia o scudo››. 8. cfr. RVF CCXV, 9

‹‹Amor s’è in lei con Honestate aggiunto››; la lode della bellezza e dell’onestà della donna è un motivo classico (cfr. Ovidio, Her. XV 288 ‹‹lis est cum forma magna

pudicitiae›› e Giovenale, Sat. X 297-8 ‹‹rara est adeo concordia formae | atque pudicitiae››), in seguito ripreso da Petrarca (cfr. RVF CLXXXVI, 11 ‹‹novo fior d’onestate e di bellezze›› e RVF CCXLVII, 4 ‹‹santa, saggia, leggiadra, honesta et bella››). Le due qualità dell’amata vengono, a differenza di quanto avviene qui, connotate negativamente in RVF CCXCVII, 1-2 ‹‹Due gran nemiche inseme erano agiunte, | Bellezza et Honestà, con pace tanta››. aggiunta: “unita”. 9. questa: la beltà. 10. la strada di salire al cielo: è motivo ricorrente già in Petrarca, cfr. RVF XIII, 12-13 ‹‹da lei vien l’animosa leggiadria | ch’al ciel ti scorge per destro sentero››, LXVIII, 4 ‹‹et la via de salir al ciel mi mostra››, LXXII, 2-3 ‹‹un dolce lume | che mi mostra la via ch’al ciel conduce››, CCCVI, 1-2 ‹‹Quel sol che mi mostrava il camin destro | di gire al cielo››. quella: l’onestà. 11. l’una: la beltà. 12. sovra il senso: per la sua natura immateriale, non sensibile. l’altra: l’onestà. impera et regna: intarsio tra Inf. I, 127 ‹‹In tutte parti impera e quivi regge›› e Inf. I, 124 ‹‹ché quello imperador che là sù regna››. 14. honesta et bella: i due attributi riprendono, invertendone l’ordine, i corrispondenti sostantivi del v.8.

IV ms.2

A me pur giova di ritrarmi in parte Ove non sia chi tor mi possa o voglia A i miei dolci pensier; ché questa spoglia Sostengo pur con tale inganno et arte. 5 Quinci vo’ contemplando a parte a parte Quella che m’empie d’amorosa voglia Et parmi che talhor di me si doglia Tardi a spiegar le sue bellezze in carte. Ond’io ratto a la penna la man porgo; 10 Poi veggio, Amor, che stimar troppo face

Lei mia virtute et del mio error m’accorgo: Forma humana non è quella che piace

A gli occhi miei, ma chiaramente scorgo Ch’ella è divina, et a ragion si tace.

L’atto del poeta di comporre liriche per la donna nasce dalla sensazione che essa ciò richieda, nasce dunque come una ulteriore manifestazione della devozione dell’amante verso l’amata, la quale occupa ormai totalmente il pensiero di un uomo che vede la propria vita sostenuta e avvalorata unicamente da questa passione. Questo sonetto, diretto ad Amore, testimonia dunque, in qualche modo, l’atto di nascita dei componimenti marmittiani, e concorre a formare nella nostra mente l’idea del poeta

innamorato, pensoso e solitario (vv.1-4), perennemente dubbioso, incerto (v.7: et

parmi...), e accompagnato da un umiliante senso di inferiorità nei confronti di una

donna che è, agli occhi suoi, divina (vv.9-14). Diversamente dai tre componimenti che lo precedono, questo testo risale verosimilmente agli anni delle prime prove poetiche del poeta (terzo, quarto decennio del secolo): pare testimoniare ciò uno stile ancora incerto e una sintassi un poco sconnessa, oltre che la vocazione, esclusiva e tipicamente giovanile, verso una passione amorosa totalizzante che lo rende servus Amoris.

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1. cfr. RVF CCLI, 9 ‹‹A me pur giova di sperare anchora››. pur giova: “solamente piace”. 2. tor: “togliere”. 3. dolci pensier: sintagma petrarchesco, cfr. RVF XXXVII, 36 ‹‹de’ miei dolci pensier’, mentre a Dio piacque›› e CCCXVII, 11 ‹‹de’ miei dolci pensier l’antiqua soma››. questa spoglia sostengo: “sostengo questo corpo, sopporto questa vita”. 4. pur: “solamente”. 5. a parte a parte: “completamente”; modulo petrarchesco, cfr. ad es. RVF XVIII, 4 ‹‹che m’arde et strugge a parte a parte››. 6. cfr. Inf. II, 98 ‹‹che mai non empie la bramosa voglia››. 7-8. “e mi pare che talvolta provi dolore per il mio indugio a celebrare le sue bellezze”; cfr. RVF XX, 1-2 ‹‹Vergognando talor ch’ancor si taccia, | donna, per me vostra bellezza in rima››. 9. il verso è ricalcato su RVF CXX, 4 ‹‹che ratto a questa penna la man porsi››; del sonetto petrarchesco è mantenuta anche la rima m’accorsi : porsi. 10-11. “poi mi accorgo che lei (la penna) mi porta a sopravvalutare la mia scrittura”. error: il narcisistico apprezzamento dei propri versi, non considerandone l’insufficienza nei confronti della celeste bellezza della donna. 14. è divina: nei RVF Petrarca usa l’attributo divino per la bellezza, gli occhi, il portamento, la voce e lo sguardo di Laura; riferito invece all’amata nel suo complesso appare solo in RVF CCXLVII, 12 ‹‹suo stato divino››. a

ragion si tace: considerati i limiti della lingua umana, “ragionevolmente sarebbe

meglio tacere”.

V ms.60

Se, perché Amor grato consiglio et sano A i desir’ porga traviati et rei,

Fermo in voi lagrimoso gli occhi miei, Non vi sembri atto, Donna, indegno o vano: 5 Ché in quel bel viso alteramente humano,

In cui solo mirar sempre vorrei, M’insegna il Signor mio come potrei Da ogni basso pensier fuggir lontano. Questa è quella cagion del vostro sdegno; 10 Ma se, pur per antico suo costume,

Ch’io non offendo voi, ma ben m’ingegno Di farmi tal, mirando il dolce lume, Qual a l’alta speranza si conface.

La donna angelica è scala al Fattor e il poeta la osserva per contemplare, già sulla terra, la beatitudine celeste; tuttavia essa fugge e non gli concede più la grazia di guardarlo: ecco che si manifesta per la prima volta la durezza di una donna che inizia a scivolare via, gettando il poeta nel tormento della passione. La lontananza della donna sarà un motivo centrale nelle liriche che seguiranno e costituirà il controcanto rispetto alla vicinanza e alla gioia d’amore. Tuttavia, come vedremo, le coordinate spaziali di “vicino” e “lontano” spesso verranno meno, e ciò sarà determinato dalla scissione del poeta stesso, con il cuore che vola dall’amata, per lasciare solo il corpo, con lui.

METRO: sonetto a schema ABBA ABBA CDE CDE.

1-4. “Donna, non vi sembri un atto indegno e vano se -affinché (perché) Amore (il quale risiede negli occhi della donna) porga consigli saggi ai miei desideri peccaminosi- piango mentre vi guardo”. 5. viso: “sguardo”. alteramente humano: “sovrumano, celeste”. 7. insegna: il verbo era già apparso in I III, 9-10 ‹‹[la donna] insegna | la strada di salire al cielo››; ora è Amore (Signor mio) che “consiglia”, insegnando a fuggire i desideri terreni (da ogni basso pensier fuggir lontano). 9.

Questa-cagion: coincide proprio con il fuggir lontano da ogni basso pensier del v.

precedente, che porterebbe il poeta a guardare più all’amore divino e alla realtà spirituale piuttosto che alla donna e alla realtà terrena; è possibile altresì che questa-

cagion si riferisca al pianto del poeta, che porta la donna a conferirgli, ora che

eccessivamente estasiato e gioioso, il dolore della lontananza, necessario a mantenerlo a lei legato. 10-11. “ma anche se la mano vi velasse solo (pur) per una vecchia abitudine (e non per sdegno) ciò mi ferirebbe ugualmente”. 12. ch’: “ché, poiché”. 13. dolce lume: sintagma petrarchesco, sempre identificante gli occhi di Laura (RVF XI, 14; LXXII, 2; CVI, 8; CXLII, 31; CLXIII, 9). 14. “quale si addice a una così elevata speranza”; il v. è petrarchesco (RVF LXXII, 65). alta speranza: la speranza del poeta di salire al cielo secondo l’archetipico viaggio dantesco, di seguire cioè la

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