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Il canzoniere di Iacopo Marmitta: studio e commento.

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Academic year: 2021

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CORSO DI L

IL CANZONIERE DI

Candidato:

Marco Bertuccelli

AN

Università degli Studi di Pisa

Facoltà di Lettere e Filosofia

DI LAUREA SPECIALISTICA IN LINGU

LETTERATURA ITALIANA

E DI IACOPO MARMITTA: STUDIO E CO

Relatore:

li Chiar.mo prof. Gio

Correlatrice:

Chiar.ma prof.ssa E

ANNO ACCADEMICO 2009/2010

INGUA E

COMMENTO.

f. Giorgio Masi

f.ssa Elena Salibra

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INTRODUZIONE

1. Iacopo Marmitta: la vita.1

Quando, nel 1530, venivano pubblicate a Venezia le Rime del Bembo, Iacopo Marmitta aveva venticinque anni e si trovava proprio sul suolo della Repubblica. La diffusione di questa opera diede l’impulso decisivo per l’affermazione di quel clamoroso fenomeno letterario al quale la critica ha attribuito l’etichetta di petrarchismo: e Iacopo Marmitta fa parte, generalmente parlando, del folto gruppo dei cosiddetti “petrarchisti”. Uno dei tanti, tantissimi; apparentemente molto simili l’uno all’altro, ma alla fine diversi poichè diverse erano le menti chiamate a reggere la penna scrivente. Iacopo Marmitta dunque si trovava, in quegli anni decisivi per la codificazione della lingua letteraria volgare italiana, in laguna. Venezia era un centro culturale decisamente vivace: centro della lirica petrarcheggiante e capitale della stampa (si ricordino i grandi Manuzio, Giolito, le edizioni filologicamente moderne dei classici, di Dante e Petrarca, le invenzioni dei libri tascabili privi di commento erudito). Insomma la letteratura, più o meno “alta”, si apriva verso un pubblico più ampio che, anche se più o meno colto, avrebbe di lì a poco fatto, a sua volta, letteratura.

Le Accademie sono una delle novità del Cinquecento: nella Serenissima fioriva quella della Fama dove, tra gli altri, Domenico Venier (la sua residenza, Ca’ Venier, divenne luogo di incontri culturali) e Federico Badoer svolgevano un ruolo di primo piano; protagonista della Venezia del tempo era anche l’indiscusso magistero di Bembo e

1

La ricostruzione biografica che segue ha tenuto in particolare considerazione la voce “Giacomo Marmitta” di Paola Cosentino presente nel volume LXX del Dizionario Biografico degli Italiani (Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, pp. 625–7). Altri strumenti utili, benché ormai superati, sono: I. Affò,

Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, Parma, Stamperia Reale 1793 pp.61–68 e B. Janelli, Dizionario biografico dei parmigiani illustri, Genova, Schenone 1877, pp.239–241.

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Aretino. Iacopo Marmitta viveva in questo ardito humus culturale e certamente conosceva, oltre ai grandi già citati, Bernardo Cappello e Ludovico Dolce, con i quali strinse una salda e stabile amicizia. Dunque la città lagunare può dirsi, a ragione, determinante per la formazione artistico–letteraria del nostro poeta, tuttavia non nativo dell’area veneta: Parma, infatti, è la sua città natale. Vi nacque il 25 ottobre 1504, dal padre Francesco e dalla madre Isabella di Canossa. Quest’ultima era figlia di un orafo, mentre Francesco era un artista affermato, soprattutto nell’area tra Parma e Bologna. Il Vasari lo ricorda così:

Fu ne’ tempi a dietro il Parma il Marmita, il quale un tempo attese alla pittura, poi si voltò allo intaglio, e fu grandissimo imitatore degli antichi. Di costui si vedde molte cose bellissime.2

Egli è infatti autore di alcune pregevoli miniature, presenti in vari codici, tra cui quello contenente Rime e Trionfi di Petrarca (conservato a Kassel, Landesbibliothek), il

Messale della Rovere (Torino, Museo civico di arte antica) e l’Offiziolo di Casa Durazzo (Genova, Palazzo Bianco). Dipinti a lui attribuiti sono invece la Madonna col Bambino e santi (Parigi, Louvre), la Flagellazione (Edimburgo, National Gallery of

Scotland) e la Madonna (Cremona, Museo civico). La sua espressione artistica, dalla vivace fantasia ed elegante stilizzazione, mostra l’influenza dell’amico pittore Ercole de’ Roberti. Il figlio Ludovico, fratello maggiore (di un anno) di Iacopo, seguì le orme del padre: fu infatti pittore e intagliatore di gemme, operando a Roma, oltre che a Parma. Tuttavia il padre Francesco vide per poco tempo i propri figli: colpito dalla terribile epidemia che decimò la popolazione di Parma, morì prima del 2 giugno 1505, quando risulta deceduto nel testamento del fratello Niccolò. Nonostante ciò, riuscì a

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trasmettere ai propri figli (forse ne ebbe anche altri oltre a Ludovico e Iacopo) l’amore per il bello e per l’arte, il culto per l’antichità e per i classici, la venerazione per la Grecia e per Roma. Insomma la famiglia, benestante, avviò allo studio il futuro poeta, così come aveva fatto per il fratello Ludovico.

Iacopo Marmitta si trasferì a Venezia quando aveva circa venti anni. Qui iniziò la sua professione di segretario–cortigiano, occupazione che lo terrà impegnato per tutta la vita. Non è molto chiaro per chi, a quel tempo, egli lavorasse3; al contrario è certo che nel 1538 divenne il segretario di Giovanni Ricci da Montepulciano, chierico destinato alla porpora cardinalizia. A trentaquattro anni entrò al suo servizio, che non lascerà più fino alla morte. Da allora iniziò a seguirlo: già nel ’38 i due lasciarono Venezia, per giungere a Roma, dove il Ricci sperava di accelerare la sua già spedita e brillante carriera ecclesiastica. L’ambiente della Curia permise a Iacopo di frequentare e stringere amicizia con grandi personaggi quali, ad esempio, Annibal Caro, Giovanni della Casa, Francesco Maria Molza, Dionigi Atanagi, Giovan Girolamo de’ Rossi, Giovan Francesco Commendone, Paolo Manuzio. Anche l’ambiente dell’Accademia Vitruviana, sorta a metà degli anni trenta sotto l’impulso dell’umanista senese Claudio Tolomei e la protezione del cardinal Ippolito de’ Medici, era un centro culturale assai importante, nel quale poteva esprimersi nel migliore dei modi un certo gusto antiquario e archeologico allora assai di moda: il futuro papa Marcello II presiedeva gli incontri che vedevano protagonisti, fra gli altri, personaggi come gli stessi Molza e Caro, Contile e Vignola. Questa élite artistico–culturale frequentava anche le ville e i palazzi di un chierico altamente influente e potente nella Roma del tempo, ‹‹il gran cardinale››, 2

G. Vasari, Le vite, a cura di G. Milanesi, V, Firenze, Le Monnier 1880, p. 383. 3

Il servizio presso il patriarca di Aquileia Marino Grimani, di cui ci informa la citata biografia di Ireneo Affò, è assai incerto.

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Alessandro Farnese; presso di lui alcuni uomini importanti come della Casa, Caro, Molza, Gualteruzzi e Cappello (coi quali Marmitta stringerà duratura amicizia) prestavano servizio nella veste di cortigiani. E lo stesso faceva dal 1534, favorito anche da vincoli di parentela, il “protettore” del nostro poeta, quel Giovanni Ricci da Montepulciano che già era legato al cardinale Giovanni Maria Ciocchi del Monte (il futuro papa Giulio III). La famiglia Farnese, in quegli anni all’apice del suo potere, deteneva il soglio pontificio con Paolo III, nonno di Alessandro. La disponibilità economica di cui godeva era grandissima: ciò costiuisce il presupposto di quello straordinario mecenatismo che fiorirà nei decenni seguenti e che, cambiando il volto del centro di Roma, lo arricchirà enormemente, soprattutto in termini architettonici. Artisti come Michelangelo, Antonio da Sangallo e Vignola saranno alle dipendenze (più o meno dirette, più o meno problematiche) del papa e dell’ambizioso nipote. Marmitta a Roma entrò dunque direttamente in contatto con gli ambienti religioso– culturali più ricchi e facoltosi. Tuttavia, spesso gli accadeva di lasciare la città eterna per recarsi a Padova (dove si trovava Pietro Bembo e fiorivano, grazie a personaggi come Carteromaco, Musuro e Girolamo Aleandro, gli studi di cultura ellenica), a Venezia e a Parma, dove presso la locale Accademia degli Innominati svolgeva un ruolo importante. Proprio nella città natale Iacopo si rifugiò nel 1538, non appena lasciata Venezia, prima di giungere a Roma. Lo testimonia anche l’epistola del primo di agosto diretta a Ludovico Dolce4, nella quale Marmitta, da Parma, saluta l’amico, promettendo di scrivergli nuovamente una volta giunto a Roma. Il viaggio da Venezia

4

Presente nella Nuova scielta di lettere (Venezia, Muschio 1574, vol.II, pp.62–67); la raccolta trasmette sei epistole indirizzate a Ludovico Dolce degli anni ’38, ’39 e ’40 che testimoniano la confusa e misteriosa fuga da Venezia, l’arrivo in Curia, il soggiorno a Padova. Epistole autografe di Marmitta sono invece conservate presso l’Archivio di Stato di Parma.

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dovette essere burrascoso e pericoloso, se il poeta confessa di essere ‹‹giunto a salvamento nella mia patria amata (Parma)››.5 Il Dolce gli risponderà in data 23 agosto, allegando le Prose della volgar lingua del Bembo; nella replica, datata 18 ottobre, il poeta parmigiano confessa all’amico: ‹‹altro che un sonettaccio da indi in qua che io partì da Vinegia non ha havuto luogo nella mente mia: il cui parto voglio che vediate››: ed ecco che di seguito riporta il componimento Qui dove ammanta i lieti colli e ’l

piano6. L’epistola, ancora diretta al Dolce, del 13 dicembre testimonia l’arrivo a Roma, da dove parte la lettera dell’ ‹‹ultimo di febbraio››7 1539 nella quale il poeta racconta allo stesso Dolce di una sua ‹‹indisposizione, che s’io volessi dipingerla vi finirei il mio ragionamento in Tragedia, il che non è l’animo mio››. Il 10 giugno del ’39 invece è da Padova che Marmitta scrive al medesimo interlocutore: sottolineata la “molta et vera amicitia” che a lui lo lega, gli confida la propria percezione che, di questi tempi, gli “conviene accomodare alla vita cortigiana”. In seguito troviamo il nostro poeta a Venezia, dove prende parte alle riunioni dell’Accademia della Fama, fondata dall’amico Federico Badoer, mentre l’11 marzo del ’40 scrive, di nuovo da Roma, al Dolce: si congratula col destinatario per la sua traduzione in versi sciolti del primo libro delle Metamorfosi di Ovidio8 e si raccomanda al Badoer, al Venier e “alla nostra virtuosa accademia”; fa ciò prima di confessare all’amico le sue precarie condizioni di salute, lamentando “l’amara vita che io ho sempre menato di poi ch’io mossi il piede di Vinetia, nel qual tempo vi giuro che io non mi posso vantare di pur’una sola hora essere stato compitamente sano, come io soleva”. Nel seguito dell’epistola, però, dà notizia

5

Passo tratto dalla medesima epistola datata 1 agosto 1538. 6

È il sonetto I CXXIX. 7

Così datata nella Nuova scielta di lettere (Venezia, Muschio 1574, vol.II, pp.44–51). 8

Il primo libro delle Trasformazioni di Ovidio da M. Lodovico Dolce in volgare tradotto (Venezia, Bindone–Pasini 1539).

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del miglioramento attuale della sua salute e comunica all’amico la speranza che presto egli stesso possa andarlo a trovare nella città lagunare. In quest’ultima lettera, come del resto nelle altre precedenti, mai mancano saluti agli amici rimasti a Venezia e ai membri della Accademia della Fama (oltre ai più noti Federico Badoer e Domenico Venier, vengono nominati Agostino Spinelli, “il gran Berrettaio”, Antonio Anselmi e tali Gasparo, Paolo e “i due Francesco – l’uno della Cecca –”).

L’anno dopo sappiamo che si trovava a Roma: infatti in una lettera diretta a Dionigi Atanagi, che al tempo si trovava nell’Urbe, Trifone Benci scrive: “Che fa il gentilissimo M. Iacopo Marmitta nostro?”.9 Ed è a questi anni che risale l’amicizia con Giovanni della Casa, come attestano i sonetti tra il nostro poeta e l’autore del Galateo, e due lettere (una del Casa a Marmitta, priva di datazione; una di Carlo Gualteruzzi al Casa, datata 24 gennaio 1545) nelle quali il poeta parmigiano viene nominato in tono confidenziale.

Nel frattempo la carriera ecclesiastica di Giovanni Ricci procedeva con successo: nel 1542 venne infatti eletto vescovo a Castro, nel territorio che lo stesso papa Paolo III aveva dato in possesso al proprio figlio naturale Pier Luigi Farnese, creandolo duca. Nel 1543 Marmitta è diretto proprio verso il Salento, dove è chiamato a rappresentare il Ricci e a svolgere per lui il ruolo di agente; dai documenti sappiamo che, durante il viaggio, nell’inverno del ’43, fece sosta a Viterbo per ripararsi da una nevicata.

Lo zelo dello stesso Ricci verso il papa Farnese e il nipote Alessandro lo condusse a due cariche prestigiose: il 25 giugno 1544, insignito dell’arcivescovato di Siponto, fu inviato nunzio apostolico in Portogallo. Marmitta, in qualità di segretario, lo seguì: i

9

Cfr. Delle lettere facete et piacevoli…Libro secondo, a cura di F. Turchi, Venezia, Salicato 1601, pp. 265–7.

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due partirono alla volta della penisola iberica all’inizio di settembre, passarono da Avignone e il 25 ottobre giunsero a Saragozza, dove si trattennero fino alla fine dell’anno. Delle traversie e dei disagi del viaggio offrono testimonianza i sonetti Io me

ne vo’ là dove il Tago apporta, Hor che per me si rasserena il cielo e Frate, del novo mio lungo viaggio.10 Come del resto si intuisce dai citati componimenti, Marmitta faceva talvolta ritorno in Italia; in Hor che per me si rasserena il cielo, ad esempio, il poeta promette, scrivendo dall’Italia a Gualtiero (probabilmente un collaboratore del Ricci, oltre che un amico), il suo prossimo ritorno in terra iberica. Talvolta i soggiorni del poeta in patria (a Parma in particolare) erano dovuti a motivi di salute, da sempre precaria. Nel frattempo, nel 1545, mentre il Ricci diveniva anche amministratore apostolico di Chiusi, proprio la città natale del poeta giungeva ad una svolta politica: non più parte del Ducato di Milano, ma autonoma, nel Ducato di Parma e Piacenza, in mano alla potente famiglia Farnese con Pier Luigi, il quale aveva ricevuto dal papa, nel 1543, il possesso di Castro e il relativo titolo di duca. Si può ben vedere come il lungo pontificato di Paolo III Farnese abbia favorito l’ascesa al potere dei membri del proprio casato. Ma nel settembre 1547 una congiura portò all’uccisione di Pier Luigi Farnese; e due anni dopo, il 10 novembre 1549, il pontefice morì e Marmitta venne mandato dal Ricci (il quale rimase a Lisbona) a Roma, dove giunse il 2 gennaio 1550 per portare le condoglianze alla famiglia Farnese (in particolare al nipote del defunto pontefice, Alessandro). A quanto pare, dopo essere rientrato in patria, Marmitta non fece più ritorno in Portogallo. Il conclave che seguì la morte di Paolo III condusse al pontificato il cardinale Giovanni Maria Ciocchi del Monte, che prese il nome di Giulio III. Giunta la notizia in terra lusitana, Giovanni Ricci ne rimase pienamente soddisfatto: il papa

10

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neoeletto è un uomo molto affezionato al cardinale Alessandro Farnese. E le accresciute speranze del protettore del nostro poeta non vengono disattese: il 12 ottobre 1551, giunto a termine il mandato di nunzio apostolico, il Ricci viene infatti insignito della porpora cardinalizia, mentre Marmitta rimane al proprio posto, continuando a svolgere la funzione di suo segretario. Tuttavia si noti che, negli anni successivi, maturerà nell’animo del poeta una conversione spirituale, la quale lo condurrà ad una vita devota e ritirata; determinante per questa svolta fu l’incontro a Roma, dove ormai risiedeva presso il Ricci, con Filippo Neri, con cui il poeta strinse un legame molto forte.

Durante i primi anni del nuovo decennio una guerra sconvolge, gettando nello sconforto il poeta, il neonato Ducato di Parma e Piacenza. Le milizie imperiali e papali combattevano contro quelle farnesiano–francesi. La difficile situazione si risolse con la ripresa del potere da parte della famiglia Farnese con Ottavio (il quale, a quanto pare, aveva partecipato alla congiura che nel 1547 tolse la vita al padre Pier Luigi). Sposo di Margherita d’Austria, Ottavio difese il ducato dall’invasione delle truppe nemiche (l’atteggiamento antimperiale dei Farnese comportò l’inasprimento dei rapporti tra la famiglia e il pontefice Giulio III; il cardinale Alessandro, negli anni della guerra, verrà infatti mandato in “esilio” a Firenze) riaffermando il proprio dominio, che diviene definitivo dopo l’accordo politico con il re di Spagna Filippo II. Come anticipato, durante gli anni ’50 il Ricci, e di conseguenza lo stesso Marmitta, risiedono stabilmente a Roma: qui il segretario, trovando una stabilità fino ad allora mai sperimentata, ha la possibilità di frequentare con continuità i vivaci ambienti culturali dell’Urbe. Grande

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amicizia stringe, ad esempio, con il suonatore di cetra fiorentino Pierino degli Organi11 (figlio di Bartolomeo degli Organi, famoso compositore, cantante e organista) e, alla sua morte (avvenuta tra il ’52 e il ’55), dettò il testo della lapide (oggi perduta) nella chiesa dell’Ara Coeli.

Tuttavia l’amicizia più profonda e importante di questo periodo romano è quella con Filippo Neri. Il futuro santo, sacerdote dal ’51 presso la chiesa di San Girolamo della Carità, aveva lì istituito la congregazione dell’Oratorio. La semplicità e l’intraprendenza del sacerdote devon avere affascinato il dolce animo del nostro poeta il quale, sebbene in precedenza avesse già dimostrato salda cultura teologica e attenzione particolare verso l’universo religioso–spirituale, solo adesso diviene protagonista di una conversione sincera e autentica. Del resto Marmitta non abitava lontano dal Neri: lungo la via Giulia, da palazzo Cassetti (residenza del Ricci, presso la quale Iacopo abitava)12 alle chiese di San Girolamo e San Giovanni dei Forentini (nelle quali Filippo operava) non corrono che poche centinaia di metri; palazzo Farnese, residenza del cardinale Alessandro, è addirittura a pochi passi da San Girolamo, in prossimità del già allora vivace Campo de’ Fiori. In questa area del Campo Marzio il nostro poeta trascorse i suoi ultimi anni, divenendo intimo amico e sincero seguace del Neri. Come si evince anche dalla lettera indirizzata ad un certo Arcangelo da Parma (nella quale si racconta la morte del diciottenne Gabriele Tana, ospite del cardinal Ricci e dedito a opere di pietà in San Giovanni de’ Fiorentini)13, Marmitta vedeva con frequenza e ammirava profondamente Filippo. Conseguenza di questo approfondimento

11

Cfr. la lettera del 17 luglio 1550 indirizzata a Pierino degli Organi (Delle lettere facete et

piacevoli…Libro secondo, a cura di F. Turchi, Venezia, Salicato 1601, pp. 265–7).

12

Il cardinal Ricci, legato anche a Cosimo I de’ Medici, si era stabilito vicino agli ambienti medicei della Capitale come la famosa villa sul Pincio.

13

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spirituale è l’abbandono, come vedremo meglio di seguito, della produzione poetica di stampo erotico–amoroso per aprirsi definitivamente a contenuti spirituali e morali, del resto anche maggiormente consoni all’età ormai avanzata. Ecco allora che Bernardo Tasso può ricordarlo nell’Amadigi come ‹‹il Marmitta gentil, ch’a Dio rivolto / da le cure del mondo in tutto sciolto››.14

A questi ultimi anni risale anche la fitta corrispondenza lirico–epistolare con Giovanni della Casa, il quale talvolta viene invitato dallo stesso Marmitta, con un atteggiamento perfettamente in linea con il petrarchismo dalla forte impronta morale dell’interlocutore, a recuperare la dimensione religiosa. Più eccentrica e singolare è invece la testimonianza del filosofo e medico calabrese Giovan Battista Modio, anch’egli legato a Filippo Neri, che nel suo dialogo Il convito, overo del peso della

moglie (pubblicato a Roma nel 1554) introduce il Marmitta nella loggia di Psiche del

palazzo della Farnesina a discutere del pregio del tradimento amoroso, nella dotta compagnia di Alessandro Piccolomini, del vescovo di Piacenza Catalano Trivulzio, di Trifone Benci e di altri.

Nel 1559, intanto, muore papa Paolo IV (eletto pontefice nel 1555 dopo il breve ufficio di Marcello II); e Marmitta, sebbene l’insoddisfazione per il mestiere di segretario fosse nel frattempo cresciuta15, prende parte in abito clericale al conclave che si apre in quell’anno, al seguito del cardinal Ricci: dal neoeletto Pio IV (della famiglia dei Medici, vicina al Ricci) ottiene, insieme con gli altri conclavisti parmensi (Girolamo Garimberti, Gabriele Longo, Agostino e Cesare Bonelli), il prestigioso titolo di viene indicata la datazione dell’epistola, tuttavia pare individuabile nella seconda metà degli anni ’50. 14

B. Tasso, Amadigi, Bergamo, Lancellotti 1755 (Canto C, ottava XL, vv.7–8). 15

Cfr. l’epistola indirizzata a Bernardino Pino del 7 dicembre 1557, in Della nuova scielta di

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cavaliere palatino, che permette di creare notai e dottori, e di legittimare figli naturali. Quest’ultima facoltà gli consentirà di accogliere come figlio adottivo il giovane Ludovico Spaggi16 che nel 1564, insieme all’editore parmense Seth Viotti, pubblicherà le sue rime con una stampa contenente gran parte dell’intera produzione poetica. Le

Rime uscirono postume: Marmitta infatti, dopo essere stato a lungo afflitto da una

malattia, morì a Roma il 28 dicembre 1561. Fu sepolto nella chiesa di San Girolamo della Carità: ciò appare il suggello definitivo della intensa amicizia con Filippo Neri il quale, a quanto pare, tenendolo fra le proprie braccia, lo assistette fino all’ultimo respiro.

2. Un uomo di lettere.

Di Iacopo Marmitta non ci restano che poesie ed epistole. Queste ultime, pur avendo una mera funzione comunicativa, essendo indirizzate a familiari e amici, vennero in parte ritenute degne di pubblicazione in alcune antologie del genere (De le lettere

facete, et piacevoli…Libro primo, a cura di D. Atanagi, Venezia, Zaltieri 1561; Della nuova scielta di lettere di diversi nobilissimi huomini, et eccellentissimi ingegni…Libro secondo, a cura di B. Pino, Venezia, Muschio 1574; Della nuova scielta di lettere di diversi nobilissimi huomini, et eccellentissimi ingegni…Libro quarto, a cura di B. Pino,

Venezia, Muschio 1582; De le lettere facete, et piacevoli…Libro secondo, a cura di F. Turchi, Venezia 1601). La poesia, complessivamente definibile “di maniera”, presenta però caratteri personali ed è come poeta che egli è ricordato. Marmitta, infatti, era

16

Sappiamo ben poco di Ludovico Spaggi Marmitta: soltanto che, nel 1602, verrà creato Cavaliere aurato e Conte del Sacro Palazzo Lateranense dal duca Ranuzio I Farnese.

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capace di buona poesia, alla quale si interessò fin dagli anni della formazione scolastica, quando la cultura umanistica che apprese e le successive esperienze lavorative come segretario gli permisero di assecondare e coltivare la sua sensibilità estetico–letteraria. L’interesse per la poesia deve essere stato mediato fin dai primi anni dal filtro dispotico del bembismo imperante e, di conseguenza, guardando soprattutto in direzione del Petrarca. Nella già citata lettera del 1° agosto 1538 Marmitta, non ancora trentaquattrenne, scrive al Dolce:

Eccomi dico dalla poesia tratto all’epistole [...] ma di che genere non so io, o grave, o giocoso, o famigliare. Grave non potrà egli essere, essendo io leggiero come penna, giocoso sarà egli forse, cioè da prendersene giuoco, fate voi, io per me voglio cominciare, seguendo la turba, da quello.

Ovviamente non si pensi che in precedenza Marmitta non usasse scrivere epistole: come avrebbe potuto, essendo un segretario? La novità è che solo ora egli intraprende l’epistolografia, con lettere artistiche, non solo “di servizio”, potenzialmente aspiranti a divenire letteratura: ciò avviene sulla scia del grande modello del ‹‹Libro di lettere›› che, proprio nel 1538, quell’Aretino che il nostro poeta ben conosceva aveva proposto e pubblicato, aprendo la strada all’affermazione di un “nuovo” genere letterario. Da quell’anno in poi le pubblicazioni di epistolari si moltiplicheranno, in un modo simile a quello che succedeva per i canzonieri lirici: e, come si mettovano assieme le antologie di poesie, si raccoglievano anche le epistole di personaggi illustri. Testi del Marmitta finirono nei due libri delle Lettere facete et piacevoli (Venezia, Zaltieri 1561 e 1565) e nella raccolta Della nuova scielta di lettere (Venezia, Muschio 1574).17

17

Nel 1900, come visto, la casa editrice perugina Santucci pubblicherà, sotto il titolo Una lettera inedita

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Talvolta, però, informazioni da scambio epistolare assumono il linguaggio delle Muse, la ritmica dell’endecasillabo, la forma del sonetto (o della terza rima): insomma una porzione non disprezzabile dei componimenti poetici risulta essere “di corrispondenza”; lo scambio avviene con personaggi illustri, come ad esempio lo stesso Dolce, della Casa, Caro, Molza, Atanagi. Altre volte componimenti poetici viaggiano insieme alle lettere: è il caso del sonetto Qui dove ammanta i lieti colli e ’l piano18, allegato all’epistola diretta al Dolce del 18 ottobre 1538.19

Ma è ovviamente nelle antologie poetiche che la produzione di Marmitta trova spazio maggiore: in sei dei nove libri20 della famosa serie delle Rime diverse si trovano liriche di sua produzione. Tuttavia nel primo libro della collana (edito da Giolito nel ’45 e curato da Ludovico Domenichi) il nostro autore è rappresentato da due componimenti la cui paternità è dubbia: Chi può si degna et honorata impresa e Poi che in questa

mortal, noiosa vita ne sono i versi incipitari. Il primo componimento esalta un omicida

(Lorenzino de’ Medici, assassino del cugino, il duca di Firenze Alessandro), il secondo un suicida (Filippo Strozzi che, accusato di quello stesso omicidio, si tolse la vita in prigione). Questi due testi, e per tono e per contenuto, si differenziano molto dalla restante produzione del poeta parmigiano: per questo, con tutto l’odio di parte che un farnesiano poteva nutrire verso i Medici, si tende a pensare che la loro paternità non sia da attribuire al nostro poeta. Come ipotitizza Giorgio Masi, almeno per il primo testo, essa può ricondursi ad Alfonso de’ Pazzi detto l’Etrusco, con Marmitta che sarebbe stato, nell’antologia giolitina, “tirato in ballo come il più implausibile a cui si potesse

18

È il componimento I CXXIX. 19

Cfr. Della nuova scielta di lettere di diversi nobilissimi huomini, et eccellentissimi ingegni…Libro

quarto, a cura di B. Pino, Venezia, Muschio 1582, pp. 189–192.

20

Cfr. la Tavola dei componimenti presenti nelle antologie poetiche del XVI secolo, presente in questo lavoro all’interno della sezione Tavole ed indici.

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pensare, dunque senza rischi per l’interessato: un prestanome docile e innocuo per una funzione scabrosa”.21

Durante gli anni immediatamente seguenti la morte dell’autore, liriche di sua produzione circolano nelle antologie anche dopo la fortunata serie dei ‹‹Nove libri››; infatti, ad esempio, De le rime di diversi nobili poeti toscani dell’amico Dionigi Atanagi (stampato dal veneziano Avanzi nel 1565, ad un anno dalla pubblicazione delle

Rime da parte del Viotti) riporta, nei suoi due libri, ben 14 componimenti marmittiani.

È proprio grazie alla sicura ascrizione–individuazione della produzione del nostro poeta entro il ben definito genere del petrarchismo che la stessa avrà una discreta fortuna anche nei secoli seguenti. Ecco così che ancora nel 1709 a Bologna la casa editrice Pisarri, stampando la Scelta di sonetti e canzoni de’ più eccellenti rimatori d’ogni

secolo, riporta sei liriche di Marmitta; sono undici, invece, quelle che si trovano

nell’antologia del veneziano Zatta datata 178722; sette nei Lirici italiani del secolo

decimosesto, pubblicato da Plet nel 1836 ancora a Venezia; fino alle antologie del

‹‹secolo breve››: otto componimenti nei Lirici del Cinquecento curato da Baldacci (Firenze, Salani 1957), sei nell’omonima raccolta del Ponchiroli (Torino, UTET 1958), tre in Poesia del Quattrocento e del Cinquecento di Muscetta e dello stesso Ponchiroli (Torino, Einuadi 1959). Come appare evidente da questo excursus temporale23, la poesia di Marmitta è riemersa quasi in ogni secolo fino al nostro, proprio grazie al suo far parte di un movimento, di un gruppo relativamente bene individuato, che si trovò a essere una delle espressioni più caratteristiche di una fase temporale, come quella

21

Cfr. G. Masi, Politica, arte e religione nella poesia dell’Etrusco (Alfonso de’ Pazzi), in Autorità,

modelli e antimodelli nella cultura artistica e letteraria tra Riforma e Controriforma, Urbino–

Sassocorvaro, 2007, p. 335. 22

Ariosto, Castiglione, Fracastoro, Sannazaro, Casa, Canzonieri del secolo XVI, Venezia, Zatta 1787. 23

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cinquecentesca, studiata e ammirata, importante per la futura storia politica e culturale d’Italia.

3. La produzione poetica.

La poesia di Marmitta ha la caratteristica, comune a molti altri poeti e rimatori del suo tempo, di non essere monotematica, ma di passare con facilità da un argomento all’altro: da quello amoroso al morale, dal politico allo spirituale, dal mitico–pastorale all’encomiastico–celebrativo. Tuttavia le prove migliori del poeta parmigiano coincidono, secondo l’opinione dei più, con le liriche d’amore dal tono elegiaco– pastorale, ricco di dolcezza e semplicità. Apprezzabili sono anche i componimenti di carattere religioso–spirituale, ascrivibili agli ultimi anni, quelli caratterizzati dall’incontro con Filippo Neri, dalla sincera e autentica conversione–vocazione e dall’indirizzamento letterario verso i modelli più recenti – rispetto a Petrarca e Dante – dei conosciuti Vittoria Colonna e Giovanni della Casa.

Rimane fuori di dubbio che la poesia del Marmitta sia essenzialmente “di maniera”, in linea con i dettami retorici e stilistici di moda all’epoca, orchestrati e proposti in primo luogo dal Bembo. Il lessico è dunque fortemente selezionato e pochi sono i termini che già non facevano parte del ventaglio espressivo di Petrarca; ricorrono con frequenza parole e sintagmi canonici, come, ad esempio, bel variar, angeliche parole, amorosa

selva, doglioso stato, ardenti rai, viso sereno. Marmitta, al pari degli altri poeti

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petrarchisti, non cela i modelli a cui guarda maggiormente, ma anzi li mette in evidenza, marcando il suo debito verso di loro, imitandoli nella lingua e nello stile, citandoli fino all’eccesso del centone. La citazione, infatti, non avviene solo a livello sintagmatico, bensì talvolta vengono riproposti emistichi, oppure interi endecasillabi. A questo proposito, il sonetto Quella che fu del secol nostro honore (I CXLV) costituisce la prova più eccezionale di questo lavoro sul modello principale (Petrarca): i quattordici versi di cui si compone provengono tutti dai Rerum vulgarium fragmenta.

Al fenomeno evidente della citazione, debitore in misura massiccia anche di Dante, si aggiungono passi testuali nei quali, come detto, si dichiarano esplicitamente i modelli. Si veda ad esempio il sonetto LII (ai vv.5–8), nel quale, riportando i nomi di Delia, Cinzia, Laura e Beatrice, si fa riferimento rispettivamente a Tibullo, Catullo, Petrarca e Dante. Ancora Cinzia, assurta a protettrice delle donne caste e salvifiche, viene evocata in I LXXXII (vv.5–8):

Accogli, o Cinthia, et di tua gratia herede fa, prego, lei, ch’ogni lascivo et empio nemico tuo fuggendo, eterno essempio sia di verà honestà, di pura fede.

Nel sonetto CXLII invece il poeta invita la ormai santificata donna di Properzio a prestare aiuto alla sua amata, colta in cattivo stato di salute: “Porgi, Cinthia, ti prego almo soccorso / a la mia donna”. L’apprezzamento di Dante e Petrarca si fa esplicito quando, immaginando futuri tempi felici in compagnia dell’amico Barozzo, Marmitta scrive (Capitolo II, vv. 41–42):

Sì potrem poi lungo le rive in pace [...]

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l’un Tosco il pregio de l’amato alloro, et l’altro alteramente di Beatrice.

Tuttavia, i modelli contemporanei, in primo luogo Pietro Bembo, Vittoria Colonna e Giovanni della Casa, non sono meno determinanti di quelli classici e trecenteschi: in I CXCII si invita Carlo Gualteruzzi a porre “sotto la lima del purgato et sano / giudicio tuo, l’opra mia rozza et vile”, così da veder poi “questo mio fosco et rintuzzato stile / a quel del Bembo tuo presso o simile”.24 Vittoria Colonna viene assurta invece a nuovo modello di rettitudine morale (oltre che letterario), mentre Giovanni della Casa diviene guida spirituale del poeta e maestro di stile, indirizzando anche la lirica del Marmitta verso la rottura, con l’enjambement, della coincidenza tra unità metrica e sintattica: ciò fornisce il dettato lirico di quella gravitas che porterà la poesia volgare italiana verso nuove frontiere.

Se la poesia degli ultimi anni risente, dal punto di vista stilistico, dello sperimentalismo del Casa e, da quello contenutistico, del dominio di temi spirituali e morali in linea con il clima controriformistico, diverso è certamente il discorso per la poesia giovanile. Nei primi tempi, infatti, ancora non pienamente in possesso del mezzo tecnico, il poeta si muove all’ombra dei grandi archetipi, sedando così personalità e originalità. Le liriche dei primi anni paiono semplici esercizi poetici di riproposizione e lavoro sui modelli: manca, insomma, piena indipendenza e autonomia di ispirazione autoriale. I temi di questa prima fase lirica sono quelli tradizionali della sofferenza d’amore: impegnato nel

servitium amoris (‹‹a te fui servo›› afferma, rivolto ad Amore, in I LXXI, v.2), il poeta

vive il dolore della passione non corrisposta per una donna (probabilmente per più di

24

Cfr. anche II XLII, dove Marmitta ringrazia Carlo Gualteruzzi per avergli donato un’opera del Bembo (probabilmente le Rime). Com’è noto, il Gualteruzzi fu il curatore delle edizioni delle rime e delle lettere bembiane.

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una) che si dimostra altezzosa, crudele, sfuggente, lontana e, allo stesso tempo (e proprio in virtù di ciò) casta e salvifica. L’amore, congiuntamente gioia e dolore, vita e morte, determina quella scissione interna al poeta tra corpo e anima (secondo un’idea vicina al principio neoplatonico della morte degli amanti) che diviene assoluta protagonista. La speranza del poeta vive di alti e bassi, così come la determinazione (l’‹‹ardir››) e il timore (della donna e della morte), mentre la fine della vita è auspicata, nonché sentita prossima. Ai componimenti di lode, dove viene celebrata la bellezza, la castità e la rettitudine morale di una donna angelica e salvifica, venuta a mostrare la strada per salire al cielo, si aggiungono quelli che vedono lo sdegno rabbioso del poeta per una amata così dura, insensibile e sfuggente. Le immagini di cui l’autore fa uso per rappresentare questo atteggiamento femminile sono quelle del repertorio canonico: l’amata è cerva che fugge, uccello instabile e sempre in volo, Medusa che con lo sguardo rende di pietra, arciere parto che scaglia frecce (d’Amore) mentre si allontana velocemente. I pastori e gli uomini insensibili (viene preso ad esempio il fabbro), rimanendo estranei alla logica “tragica” del folle amore terreno, si salvano dalle sofferenze della passione: i primi in modo positivo, perché si fondono panicamente con la natura e assecondano la loro spiritualità, tendendo verso l’amore stabile di Dio; i secondi, invece, vivendo solo in funzione della realtà materiale, non troveranno salvezza, né ora né mai.

In chiave cristiana, la gioia della salvezza dell’anima è, secondo il poeta, già sperimentabile sulla terra: ciò avviene quando non si vive l’amore passionale per una realtà materiale, destinata ad essere consumata dal tempo e cancellata dalla morte, bensì, al contrario, quando ci si àncora alla immutabile e perenne realtà divina, “visibile” già hic et nunc sotto varie forme. La donna casta e salvifica ne è l’esempio

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più semplice ed immediato. Ecco che l’amore passionale, con la sua conseguente perdita della ragione, caratteristico delle liriche dei primi anni, si trasforma in quello casto ed “alto” dei componimenti successivi: l’approfondimento religioso del poeta accompagna questo processo evolutivo, che si conclude nella silenziosa contemplazione del mistero di Dio, davanti al quale l’uomo, animato da profonda umiltà e devozione, riconosce la sua miseria. In questo modo si conclude il canzoniere di Marmitta della stampa del Viotti, di cui parleremo meglio in seguito. Vediamo adesso, dopo aver affrontato la produzione amorosa e il particolare percorso che la caratterizza, le altre tematiche presenti nella raccolta del poeta parmigiano.

Quasi sbocco naturale dell’evoluzione del motivo amoroso è, come si è visto, quello religioso–spirituale. In ossequio al nuovo clima di Riforma e alla personale svolta cristiana del poeta, i componimenti che rientrano in questo gruppo testimoniano il desiderio di ritorno alla semplicità della fede, vista nella prospettiva e alla luce della vita di Gesù, quindi come imitatio Christi. La fuga verso l’essenzialità, consapevoli delle lusinghiere trappole del mondo, è un motivo che ricorre di frequente, così come quello della vanità delle cose terrene, soggette alla famelica lima del tempo. Unico rifugio stabile e sicuro diventa così il corpo di Cristo, esaltato nella disfatta della Croce. Ai frequenti sonetti–preghiera si aggiungono quelli che ricordano particolari brani del Vecchio e del Nuovo Testamento, altri ancora che evocano e celebrano figure fondamentali della dottrina cattolica, come la Madonna e San Paolo. “Beato chi teco Paolo muore”, afferma Marmitta nel sonetto dedicato proprio al Saulo caduto da cavallo sulla via di Damasco. Ciò pare essere la riproposizione in chiave religiosa di quella morte degli amanti che reggeva l’impalcatura teorica delle liriche d’amore: è solo attraverso questa morte spirituale, che di fatto coincide con l’identificarsi con la

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divinità stessa per divenirne strumento – vaso nelle mani del vasaio – , che si perviene alla santità. Il sonetto conclusivo del canzoniere, mettendo al centro l’umile silenzio della meditazione divina, il continuo sentimento di indegnità (in primo luogo per i peccati commessi e per la difficoltà nel capire fino in fondo il mistero della Croce), la tragica povertà della condizione umana e l’importanza della fratellanza nel percorso verso Dio, testimonia la sincera conversione del poeta, o almeno la sua piena comprensione del profetico messaggio cristologico.

È soprattutto nei componimenti di carattere idillico–pastorale che, invece, si riscontrano semplicità e dolcezza che Luigi Carrer25 individua come caratteristiche principali della poesia del Marmitta. I personaggi pastorali di Licida, Clori, Tirsi, Filli, Dameta e Dori vengono ad abitare un mondo naturale che vive di unione con gli elementi e di amore leggero, piacevolmente privo di ogni forma di sofferenza. Il forte apprezzamento dei modelli (in primo luogo teocriteo e virgiliano) che stanno alla base di queste atmosfere bucoliche è certamente favorito dal fiorire degli studi ellenistici e archeologico–antiquari.

Anche l’universo della mitologia trova grande spazio all’interno delle liriche amorose (come avviene nelle elegie di Properzio): gli auctores a cui si guarda maggiormente sono i latini Catullo, Virgilio e Ovidio, oltre al già citato Properzio. Si veda, ad esempio, il capitolo in terza rima Dunque hai sì tosto que begli occhi, ond’io: ricordando il celebre episodio dell’abbandono di Arianna da parte di Teseo, il poeta riporta un lamento che, in modo evidente, ricorda quello del famoso carme LXIV. Nel sonetto Non hebbe Amata il cor d’odio sì pieno (I CXXVIII) viene invece ricordata la follia della virgiliana Amata, regina dei latini e chiamata a causare, attraverso il suo

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invasamento (descritto nel libro VII dell’Eneide), la guerra contro i troiani.

Altri componimenti del Marmitta sono di natura politica. I prìncipi degli stati italiani, colpevoli agli occhi del poeta di farsi guerra per piccole questioni, vengono attaccati duramente; loro colpa è anche quella di chiamare in causa le potenze straniere le quali, approfittandosi delle contese, depredano il suolo italico (Marmitta è memore della canzone ‹‹Italia mia›› di Petrarca, ma anche dell’invettiva dantesca ‹‹Ahi serva Italia›› di Purg. VI). Bersaglio preferito di questi componimenti critici dal tono acceso e feroce è l’imperatore che, invece di preoccuparsi, anche in nome di quella Cristianità che rappresenta, dell’avanzata dei Turchi musulmani nei Balcani, continua a prendere le armi per miseri interessi, localizzati per lo più al di qua delle Alpi. Per questo comportamento Marmitta può dire con ironia: ‹‹Mira empio Scita a la tua gloria quale / s’apparecchia secura et piana strada / per altrui colpa››, poiché ‹‹L’Aquila (l’Impero) ha stanche già predando l’ale / la bella Europa, et questo sol l’aggrada›› (I CLXVII). Durissimo è anche l’attacco contro la Chiesa di Roma, oramai adagiata su costumi indegni, come nei sonetti “babilonesi” di Petrarca:

Putta sfacciata che da gli anni stanca nel tuo lascivo oprar sempre più calda fra le vergini stai vezzosa et balda

co’l ciglio finto et con la chioma bianca.26

Nel 1551–52 la guerra tocca la natia Parma e Marmitta, affranto, scrive:

Dunque il ferro per te sola s’arrota misera patria mia? dunque un torrente

25

Cfr. L. Carrer, Lirici italiani del secolo XVI, Venezia, Plet 1836, p.336. 26

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per dipredarti di barbara gente scende da l’alpi, d’ogni fede vota?27

Legati alla città natale sono anche i pochi componimenti di carattere encomiastico– celebrativo dal tono didattico–moralistico: la canzone “pedagogica” Signor, quanto

fortuna a voi si mostri (I CLXXVI) è diretta al giovane figlio di Ottavio Farnese (il

futuro duca di Parma e Piacenza) Alessandro, la nascita del quale (avvenuta il 27 agosto del 1545) veniva già celebrata in altri componimenti (I XC e XCI).

L’impostazione moralistica, in linea con i dettami del pensiero controriformistico tendente ad un intransigente rigore etico, permea l’intera produzione del Marmitta; tuttavia, coscienza delle debolezze umane e centralità dell’infinita misericordia di Dio mai vengono eluse: se Lui ha scelto di costruire la sua Chiesa su traditori (Pietro) e persecutori (Paolo), allora non è mai troppo tardi per incontrarlo e dare una svolta alla propria vita. In virtù di questo, Marmitta pone sempre grande attenzione all’“umanità” e alla debolezza costitutiva della persona, sicuramente peccatrice. Per rendere “visibili” le idee morali il poeta fa spesso uso di metafore e allegorie comuni alla più alta tradizione poetica: esemplari sono al proposito la selva del peccato, l’agevole strada sinistra conducente alla perdizione, la destra invece faticosa ma garante di salvezza, la dura ascesa del colle come percorso di pentimento e redenzione, via maestra verso Dio e verso la santità.

4. La pubblicazione postuma delle Rime.

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produzione poetica di Iacopo Marmitta. Postuma, deve la sua esistenza al figlio adottivo Ludovico Spaggi e all’editore parmense Seth Viotti. Prima di essa, come visto, liriche del poeta parmigiano circolavano in forma manoscritta o nelle antologie poetiche. La pubblicazione in questione prese la titolazione generica, che al tempo si era imposta diffusamente, di Rime28. Il volume, in quarto, è aperto da due epistole dedicatorie: la prima indirizzata dall’editore Viotti al duca di Parma e Piacenza Ottavio Farnese, la seconda dello Spaggi al cardinale Giovanni Ricci da Montepulciano, per il quale, come abbiamo visto, Marmitta aveva prestato il servizio di segretario. Seguono l’imprimatur dell’inquisitore di Parma, il frate domenicano Felice Piaci da Colorno, e due sonetti “in lode dell’autore” di un certo Andrea Casalio.

Di seguito prendono inizio le rime vere e proprie, ripartite nelle sezioni Parte prima,

Seconda parte, Stanze dell’autore; seguono due capitoli in terza rima29. Infine, i sonetti responsivi di altri autori (Barbato, Atanagi, de’ Rossi, Dolce, della Casa, Cappello, Cenci) chiudono la pubblicazione.

La Parte prima e Seconda costituiscono quello che può definirsi un canzoniere: infatti il percorso che la disposizione dei testi disegna tiene fede ad un processo cronologico e, soprattutto, ad un percorso umano di formazione e redenzione. Proprio in queste due sezioni è, infatti, riscontrabile quell’evoluzione – di sopra descritta – che dal giovanile e sofferto amore terreno conduce al conclusivo innalzamento verso Dio. La bipartizione ricorda quella di Petrarca, tuttavia non siamo più in presenza di una sezione in vita e in morte dell’amata, bensì il discrimine viene individuato da una personale conversione 27

Sonetto I CLXIX, vv.1–4. 28

La titolazione completa è Rime di M. Giacomo Marmitta parmeggiano. 29

La Prima parte presenta 192 componimenti (180 sonetti, 5 canzoni, 3 odi, 2 sestine, 1 stanza di canzone, 1 madrigale), la seconda 96 (94 sonetti, 1 canzone, 1 sestina); in totale 288 pezzi (274 sonetti – il 95% del totale, contro l’86 dei Rerum vulgarium fragmenta –, 6 canzoni, 3 odi, 3 sestine, 1 stanza di

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religiosa. Anche la presenza di sonetti introduttivi, “di servizio” al lettore, testimonia la natura di canzoniere del corpus di queste due sezioni: ad esempio, nel sonetto proemiale il poeta, alla maniera dell’autore dei Rerum vulgarium fragmenta, si rivolge con il voi ai lettori, individuando negli amanti i destinatari privilegiati dell’opera che, in quanto racconto di una conversione provvidenziale, vuole avere funzione esemplare, mirando a far volgere verso Dio lo sguardo del lettore. In virtù di questo valore “didattico”, colui che è già prossimo alla divinità non “avrebbe bisogno” di entrare, leggendola, nella vicenda esistenziale raccontata dal canzoniere, che inizia proprio in questi termini:

Chiunque al vero è volto et ha nel core quel sole impresso et le bellezze eterne et di qua quanto mira et quanto scerne

un sogno stima, un’ombra, un freddo horrore, cura non ponga al mio grave dolore

ned a i sospiri che, da le parti interne, m’escono ogni hor: che pro notitia haverne a lui ch’acceso è del divino amore?30

Il sonetto che apre la Parte seconda testimonia, invece, lo scarto avvenuto tra passato e presente, tra la prigionia nel “labirinto” di Amore e la libertà della Croce, massima espressione di un altro Amore:

Ecco ch’io pur con faticosa lena esco del labirinto ov’io fui preso mercé di Lui che, a me dianzi disceso, per Sua somma pietà seco mi mena.31

canzone e 1 madrigale). 30 Sonetto I I vv.1–8. 31 Sonetto II I vv.1–4.

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Il canzoniere, come già anticipato, si chiude all’insegna del silenzio, interpretato come piena adesione a Dio, contemplato e amato con atteggiamento umile e consapevole dei grandi limiti dell’uomo, peccatore ma redento dal sacrificio di Gesù. All’interno di questo tradizionale percorso narrativo non mancano, come nel grande modello del canzoniere petrarchesco, i componimenti anniversario: è il caso, ad esempio, di Ne la

dolce stagion che ’l giorno breve (I XXX) e di Verde cespo il mio seggio, albergo grato (I LIII), entrambi chiamati a ricordare il primo incontro con la donna; o, ancora,

troviamo vari testi tesi a ricordare, nel giorno della ricorrenza, personaggi defunti. Altre volte invece si incontra una serie di componimenti tenuta insieme da una storia o da un tema comune: è il caso delle “collane di sonetti” che, esplicitamente, si rifanno al modello petrarchesco. Si veda ad esempio la serie I XVII–XXI, caratterizzata dalla presenza del velo, oggetto–simbolo della lontananza della donna sfuggente; i sonetti I LXXXII–LXXXV insistono, invece, sull’immagine del tempio, chiamato a celebrare la santità della donna defunta. Infine, i testi II LXVIII–LXIX si soffermano sull’acqua (simbolo di purificazione e di vita): mentre il primo ricorda il passo biblico che vede Mosé trarre l’acqua dalla pietra (Es 17, 1–7), il secondo mostra il costato di Gesù versare sangue e acqua (Gv 19, 34).

Le Stanze dell’autore e i due capitoli in terzine dantesche seguono, come visto, quello che abbiamo definito il canzoniere. Nelle prime si celebra una volta di più la bellezza della donna e la forza di Amore; i capitoli invece sono epistole metriche (il grande modello diviene ora Orazio) di argomento amoroso.

L’utilizzo dello schema metrico della terza rima (i cui archetipi principali sono

Commedia e Trionfi) per temi amorosi è una novità: fino ad allora, infatti, esso era

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Marmitta32, aprì questa struttura al tema amoroso. La forma metrica maggiormente rappresentata nella raccolta a stampa è comunque il sonetto, come è ovvio per chi si muove all’ombra di Petrarca e Bembo. Esso appare sia nelle forme strutturali più testimoniate dalla tradizione, sia in altre ben poco rappresentate in essa: si vedano, ad esempio, i casi delle terzine CDE CED, presenti ben 23 volte in Marmitta ma assenti nei Rerum vulgarium fragmenta e negli importanti canzonieri cinquecenteschi di Colonna, Stampa e della Casa. Lo stesso vale per i sonetti continui e a rima irrelata, mentre le terzine CDE ECD, assenti in Petrarca, si ritrovano nella produzione di Vittoria Colonna.

Dei sei diversi schemi metrici delle altrettante canzoni solamente uno è usato anche da Petrarca: si tratta di quello della celebre Chiare, fresche et dolci acque (RVF CXXVI); gli altri schemi, invece, non si ritrovano né nei RVF, né all’interno della produzione lirica di importanti poeti contemporanei a Marmitta (come della Casa, Colonna, Stampa). Invenzione cinquecentesca, tradizionalmente attribuita a Bernardo Tasso, nata in relazione agli esperimenti di imitazione dei modelli greco–latini e di quelli della precedente e parallela produzione umanistica, è l’ode: nella produzione marmittiana essa, ben rappresentata, veicola perlopiù motivi erotico–pastorali di ascendenza ellenistico–classicistica. Infine il poeta fa uso, sebbene in misura minore, anche del madrigale (nella veste cinquecentesca).

L’ascrizione metrica del componimento Quel de’ bei lumi in me sì lento giro (I LI) pare dubbia: composto da 14 endecasillabi (ma le rime non sono disposte come, secondo tradizione, il sonetto vorrebbe), esso potrebbe costituire una stanza di canzone (in altre

32

Le Rime di madonna Gaspara Stampa furono pubblicate a Venezia dall’editore Plinio Pietrasanta nel 1554.

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parole si tratterebbe di una canzone monostica, struttura del resto non estranea alla produzione poetica dell’epoca), oppure un madrigale privo di settenari: pare meno problematica la prima soluzione, tuttavia la questione resta aperta.

5. Il manoscritto parmense.

Un ulteriore supporto che testimonia la poesia di Iacopo Marmitta è il manoscritto 864 della biblioteca Palatina di Parma33. Si tratta di un codice cartaceo dello stesso secolo XVI, in folio, di 165 carte scritte in una calligrafia chiara e privo, a differenza della stampa, di partizioni interne. In esso sono presenti 238 componimenti del poeta parmigiano (ai quali se ne aggiungono 5, missivi e responsivi di altri autori: due di Della Casa, uno ciascuno di Dolce, Barbato e Cencio); considerando che 3 dei 238 pezzi sono oggi illeggibili (a causa della dispersione dell’inchiostro causata dall’umidità), 23534 sono i testi attribuibili con certezza a Marmitta. Di questi 235,

33

Componimenti marmittiani assenti nella stampa Viotti e nel ms. di Parma si trovano nei ms. fiorentini 2835 della Biblioteca Riccardiana e Magl. cl.VII 1403 della Biblioteca Nazionale Centrale (entrambi testimoniano il sonetto, dedicato al Bembo, Qual nel bel tempo, allhor che le viole), nelle Rime di Annibal Caro (Rime del Commendatore Annibal Caro, Venezia, Manuzio 1569, p.43, dove si trova il sonetto Lingua d’atro venen tutta cospersa) e in quelle di Giovan Girolamo de’ Rossi (Rime di M.

Giovan Girolamo de’ Rossi, Bologna, Pisarri 1711, p.111, dove si trova Signor, io veggio ben come leggiero). Questi testi sono riprodotti in Appendice.

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Dei quali 214 sonetti, 6 canzoni, 4 capitoli, 4 odi, 3 sestine, 2 madrigali, 1 stanza di canzone e 1 poemetto in ottava rima.

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20435 si trovano anche nell’edizione a stampa del 1564, mentre 3136 sono giunti sino a noi solo grazie a questo manoscritto, mancando anche dalle antologie. Tuttavia le carte riportano frequentemente correzioni a margine dei testi, scritte in modo meno curato, a quanto pare dalla medesima mano: così suggeriscono anche le informazioni sul manoscritto reperibili nel catalogo della Biblioteca parmense. Esse danno per certa la natura autografa del codice: “autografo con mutazioni e correzioni ritenute di mano dell’autore”, anche se ciò andrebbe verificato alla luce delle lettere di sua mano tramandateci (che peraltro si trovano, anch’esse, a Parma). A differenza di quanto accadeva per la stampa, una lettura delle rime del manoscritto non fornisce una narrazione, un percorso lirico cronologico–formativo tale da suggerire la sensazione di trovarsi di fronte ad un canzoniere organico. Non vi sono neppure componimenti composti ad hoc con l’intento di reggere l’impalcatura narrativa e fornire di una guida il lettore.

Difficile è anche tentare una datazione della stesura del codice, sebbene sulle ultime carte si leggano, tra appunti confusi, le due date 19 settembre 1556 e 5 maggio 1556 (riportate secondo l’ordine della carta); si tratta di mandati di pagamento e, nella nostra ottica, servono a poco. Tuttavia la natura autografa, come suggeriscono le informazioni della Biblioteca parmense, pare plausibile per vari motivi. Innanzi tutto le correzioni: appurato che non si tratta del manoscritto usato dal Viotti per la stampa, forse solamente l’autore avrebbe potuto correggere in modo così capillare le sue liriche, in previsione di una pubblicazione futura; inoltre, gran parte delle correzioni vanno nella

35

Dei 192 componimenti della Prima parte della stampa ben 160 (l’84%) sono presenti anche sulla carte del manoscritto; riguardo invece alla Seconda parte solamente 38 dei totali 96; infine, sia le ottave che i due capitoli che chiudono la stampa sono presenti nel manoscritto.

36

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direzione di un testo conforme a quello che poi verrà stampato dal Viotti nel ’64. Ancora più significativa è, tuttavia, la mancanza sulle carte del manoscritto dei componimenti ascrivibili agli ultimi anni di vita del poeta, quelli cioè più intensamente spirituali, per i quali si può ipotizzare il termine post quem del 1556 (lo stesso anno dei mandati di pagamento), durante il quale i rapporti con Filippo Neri si fecero molto intensi. Anche i componimenti che nella stampa Viotti paiono composti ad hoc, in funzione cioè della struttura del canzoniere (come quello incipitario, quello che apre la seconda parte e quello che chiude il canzoniere) non sono qui presenti: è forse questa la prova più interessante. Probabilmente si tratta, dunque, di una raccolta di liriche intermedia, allestita a partire dai primi anni ’50 (vi si trovano le liriche relative alla guerra di Parma e alla morte di Pierino degli Organi, databili 1551–52), sulla quale Marmitta si è poi (difficile dire quando) messo a lavorare apportando varie correzioni. L’idea del canzoniere, ascrivibile certamente solo agli ultimi anni di vita del poeta, data la funzione cristiano–salvifica del canzoniere stesso, pare attribuibile a lui con un certo margine di sicurezza, piuttosto che ai curatori postumi della stampa. Pare arduo tuttavia stabilire se al tempo della presunta sua stesura del manoscritto parmense tale idea, unita a quella di pubblicare le proprie rime, avessero già toccato il poeta. A questo riguardo, è importante il già citato sonetto (I CXCII) che, chiudendo la prima parte della stampa, invita il destinatario Carlo Gualteruzzi a “correggere” le rime, rendendole maggiormente prossime alla lingua e allo stile di Pietro Bembo. Supponendo infatti che Iacopo Marmitta avesse voluto pubblicare le sue liriche (data la volontà di migliorarne la forma che si evince proprio dal sopradetto sonetto) e aggiungendo che, come visto, molto probabilmente la struttura “canzoniere” è riconducibile al lui, è possibile giungere con cautela ad ipotesi relative alla storia editoriale di manoscritto e stampa. Il

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primo pare, come anticipato, opera di servizio e di lavoro per compiere un adeguato

labor limae; probabilmente, una volta deceduto il poeta, il figlio adottivo Ludovico

Spaggi avrà mandato all’editore Viotti, insieme al codice sul quale si baserà la stampa, anche quello che oggi chiamiamo il manoscritto di Parma. Lo stampatore della città ducale farà porre alle due sillogi (delle quali oggi ovviamente ne resta solamente una, essendo andata perduta quella che ha prodotto la stampa) il medesimo imprimatur37, firmato dal frate domenicano Felice Piaci da Colorno. In seguito, però, solamente il codice che riportava le liriche in modo organizzato e ripartito troverà la strada della pubblicazione.

L’epistola del 5 gennaio 1564 indirizzata da Ludovico Spaggi a Seth Viotti, presente sulle prime pagine della stampa, offre informazioni importanti:

[...] secondo il conseglio de’ miei amici più savi et honorati, mi sono finalmente risoluto a prevalermi in ciò del mezzo della buona memoria di M. Giacomo Marmitta mio adottivo Padre [...] e così dove prima non riceveva frutto alcuno di questo mio ascoso thesoro, sarò per l’avenire per riportarne grandissimo emolumento; oltre che ogniuno facilmente conoscerà, quanto meglio questa gioia di poesia compaia chiara et splendente nelle mani di lei, che appresso di me era vile et tenebrosa. Adunque con quella maggior diligenza, ch’io ho potuto, et che dalle facoltà mie mi è stato concesso, ho fatto stampar qui in Parma per dirizzarlo a lei, il presente Poema.

Insomma, lo Spaggi qui sembra delegare al Viotti l’opera della pubblicazione: quanto questa delega fosse ampia non lo sappiamo, ma il figlio adottivo sembra porsi come semplice tramite della poesia prima nascosta nelle mani di chi le darà la luce.

La questione del rapporto tra manoscritto di Parma e pubblicazione del Viotti, difficile

37

Presente sul manoscritto di Parma alla carta I, sotto il primo componimento, il sonetto Io non posso

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a risolversi, resta comunque aperta. Anche se prendiamo i componimenti presenti nelle antologie poetiche pubblicate quando l’autore era ancora in vita, oltre che sulle carte del manoscritto e della stampa Viotti, possiamo giungere soltanto ad ipotesi. Vediamo, ad esempio, il sonetto Chiaro sole a i dì nostri in terra apparse (I CXVII). Quella riportata di sotto è la versione della stampa Viotti; in apparato, invece, vengono riportate le varianti relative al manoscritto di Parma (P) e al sesto libro della serie dei Nove (Il sesto libro delle rime di diversi eccellenti autori, Venezia, Al segno del Pozzo 1553; siglato A):

Chiaro sole a i dì nostri in terra apparse Che di splendor vincea l’altro ch’è in cielo, Ond’ei piu non udendo Delio et Delo Sonar, pianse d’invidia et d’ira n’arse. 5 Et quei bei lumi che solean mostrarse

A noi sì pieni d’amoroso zelo Cinse et coperse il reo d’humido velo Et d’una oscura et folta nebbia sparse. Qual suol Progne girarsi al caro nido 10 Mentre empia mano il novo parto invola,

Empiendo il ciel di doloroso strido, Tal intorno a’ begli occhi afflitto vola

Amor, che privo del suo albergo fido Dì et notte piagne, et mai non si consola.

4. pianse d’invidia et d’ira] P A: d’invidia et di vergogna 5. a noi sì pieni] P A: tutti a noi pieni 8.

sparse] A: apparse 12–13. P A: tal Amor a’ begli occhi intorno vola | et privo del suo dolce albergo

fido

Come si può osservare, le due versioni P e A (quest’ultima ha come termine ante quem il 1553) sono pressoché speculari; al contrario, la forma definitiva della stampa del 1564 si differenzia da esse in vari loci. Ciò conforta l’ipotesi formulata in precedenza: antologia e manoscritto attesterebbero una fase di elaborazione superata, con varianti d’autore recepite nella stampa Viotti.

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NOTA AL TESTO

Il presente lavoro mira a testimoniare l’intero corpus della produzione poetica di Iacopo Marmitta. Sono di seguito riprodotti, mantenendone l’ordine, i componimenti dell’edizione a stampa del Viotti (Parma, 1564), che si assume come quella attestante l’ultima volontà dell’autore per l’ordine e il testo dei componimenti ivi rappresentati. Seguono testi lì assenti, tratti dai codici manoscritti 864 della Biblioteca Palatina di Parma, 2835 della Biblioteca Riccardiana e Magl. cl.VII 1403 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, dalle edizioni a stampa delle Rime di Annibal Caro (Venezia, Manuzio 1569) e di Giovanni Girolamo de’ Rossi (Bologna, Pisarri 1711). In conformità ai criteri editoriali moderni è stato corretto l’uso di maiuscole e minuscole, della grafia u e v, degli accenti, degli apostrofi, della punteggiatura e dell’alternanza tra carattere tondo e corsivo. Sono stati inoltre sciolti i compendi delle nasali (n e m), senza far uso delle parentesi tonde. La numerazione dei componimenti con cifre romane è mia. I sonetti di altri autori, nell’edizione Viotti relegati in una specifica appendice, sono stati privati della originaria dicitura introduttiva e trascritti di seguito al relativo componimento marmittiano.

DESCRIZIONE DEI TESTIMONI

–Rime di M. Giacomo Marmitta parmeggiano, Parma, Viotti 1564.

Edizione di complessive 108 carte, in ottavo. Il frontespizio reca la marca tipografica, raffigurante un liocorno che tuffa il proprio corno in un rivo per purificarne le acque; l’illustrazione è contenuta in una cornice tondeggiante, ai bordi della quale compaiono, accanto ad altre facce, due figure angeliche che sembrano reggere il motto dello

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stampatore: VIRTUS SECURITATEM PARIT. Le epistole dedicatorie di Seth Viotti al duca di Parma e Piacenza Ottavio Farnese (del 10 gennaio 1564) e di Ludovico Spaggi Marmitta al cardinale Giovanni Ricci da Montepulciano (del 5 gennaio 1564), e i due sonetti di Andrea Casalio in lode dell’autore precedono 288 componimenti marmittiani, ripartiti nelle tre sezioni Parte prima, Seconda parte, Stanze dell’autore. Seguono, infine, i sonetti missivi e responsivi di altri autori, la tavola errata–corrige e l’incipitario.

I Viotti, famiglia parmense di stampatori e librai, svolgevano dal secolo XV la loro attività nella città emiliana; con la costituzione, nel 1545, dello stato farnesiano, essi beneficiarono di una sorta di monopolio editoriale, divenendo stampatori ducali.

–ms. 864 della Biblioteca Palatina di Parma.

Codice manoscritto cartaceo, del secolo XVI, in folio, di carte 165, oltre ad alcune in bianco, ultime del volume. Sulla coperta, in pelle marocchina, si trovano, in color oro, la dicitura ‹‹Bibliothecae regiae / parmensis›› e lo stemma ducale (tre gigli disposti a triangolo con la punta in basso). Sul dorso è presente la scritta ‹‹MARMITTA · ORIGINALE · COLLE · CORREZIO››. Alla scrittura calligrafica della stesura principale si accompagna quella meno curata delle correzioni, ritenute ugualmente di mano dell’autore. La disposizione dei 243 componimenti ivi presenti non presenta partizioni interne.

–ms. 2835 (O IV 4) della Biblioteca Riccardiana di Firenze.

Codice manoscritto cartaceo, del secolo XVI, in ottavo, di carte 218, scritto in calligrafica. Si tratta di una raccolta antologica di componimenti poetici, volgari e

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latini, del secolo XVI; sul dorso è presente la dicitura ‹‹Rimatori / Cinquecentisti / Sec. XVI››, mentre all’interno si trova il titolo ‹‹Poesie Toscane e Latine di Diversi Autori del 1500››. Di Iacopo Marmitta è presente il sonetto Qual nel bel tempo, allhor che le

viole.

–ms. Magl. cl.VII 1403 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.

Codice manoscritto cartaceo, del secolo XVI, in ottavo, di carte 92, scritto in calligrafica. Si tratta di una raccolta antologica di componimenti volgari del secolo XVI; sul dorso è presente la dicitura generale di ‹‹Rime››. Così come avveniva nel ms. riccardiano sopra citato, di Iacopo Marmitta è presente il solo sonetto Qual nel bel

tempo, allhor che le viole.

Componimenti del poeta parmigiano sono presenti anche nella serie dei ‹‹Nove Libri››38 e nella raccolta De le rime di diversi eccellentissimi autori thoscani, libro

primo curata da Dionigi Atanagi (Venezia, Avanzi 1565). Infine, all’interno delle Rime del Commendatore Annibal Caro (Venezia, Manuzio 1569) si trova il sonetto Lingua d’atro venen tutta cospersa, mentre nelle Rime di M. Giovan Girolamo de’ Rossi

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Rime di M. Giacomo Marmitta parmeggiano (Parma, Viotti 1564)

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I

Chiunque al vero è volto et ha nel core Quel sole impresso et le bellezze eterne, Et di qua quanto mira et quanto scerne

Un sogno stima, un’ombra, un freddo horrore, 5 Cura non ponga al mio grave dolore,

Ned a i sospir che da le parti interne

M’escono ogni hor: che pro notitia haverne A lui ch’acceso è del divino amore?

A voi scopro i miei mali et con voi parlo, 10 Che di vane speranze il cor nodrite,

Cui rode dentro l’amoroso tarlo: Qual è il mio stato dico, Amanti, udite,

Poscia che pur a voi son di spiegarlo Queste mie basse e incolte rime ardite.

Con il sonetto proemiale il poeta si rivolge e individua il destinatario del suo canzoniere: l’amante. Egli è colui che, prigioniero del vortice della passione terrena, vive l’amore come esperienza tanto esclusiva e totalizzante, quanto tragica, tormentata poiché lontana da quella logica religiosa che, al contrario, renderebbe liberante tale sentimento. La bipartizione strutturale di questo componimento è emblematica: le terzine infatti rendono esplicito il destinatario dell’opera al contrario delle quartine, che lo definiscono in negativo. Si realizza così una biplanarità, una dicotomia manicheista tra coloro che sono rivolti a Dio e coloro che invece guardano esclusivamente alla realtà terrena, tra un amore profano, classico-pagano, e uno sacro e gravitante nell’orbita del Cristo. Ovviamente il doppio livello semantico di questo testo ricorda anche la divisione in due parti del canzoniere stesso: la prima chiamata a delineare l’angoscia dell’amore terreno, la seconda la santità liberante di quello divino. L’incontro liberante con Dio è il movente del canzoniere e della sua vocazione pubblicitaria, volta a sponsorizzare la pace e la libertà che solo l’incontro con il Risorto può conferire all’uomo. Nel comporre questo testo Marmitta si sente dunque dalla parte di coloro che sono, per parafrasare il testo, volti al Vero (a Dio) e dunque possono (anzi vogliono e devono) testimoniare la Sua gioia e tentare di far alzare gli occhi a tutti coloro che permangono, con lo sguardo a terra, ad essere invischiati nelle paludi mondane.

Il sonetto è probabilmente uno degli ultimi composti dal poeta in vista della “costruzione” del canzoniere, e perciò va ascritto agli anni (romani) che seguono l’incontro con san Filippo Neri. Questo testo testimonia infatti, oltre che l’acquisizione da parte del poeta di una profonda spiritualità, anche la volontà di dare all’insieme delle sue rime un testo-manifesto che coordini lo sforzo dottrinale del poeta. La presenza e la

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