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Le prime manifestazioni della compensazione c.d impropria tra la fine del 1800 e la

CAPITOLO III – Italia: la compensazione impropria

III.1. Osservazioni introduttive e storico-giuridiche

III.1.1. Le prime manifestazioni della compensazione c.d impropria tra la fine del 1800 e la

Rinviando, dunque, all’introduzione di questo lavoro per i confronti con il diritto romano, il quale prevedeva come unica forma di compensazione proprio quella tra obbligazioni derivanti ex eadem causa, vogliamo qui cercare di individuare quali siano state le ragioni, le condizioni, le fattispecie da cui è nata l’affermazione – a prima vista assolutamente opposta a quanto previsto dal diritto romano – secondo cui per aversi compensazione è necessaria l’autonomia dei rapporti.

In questo senso, le origini dell’istituto della compensazione c.d. impropria o atecnica devono essere individuate quando ancora essa non veniva così identificata.

A tal fine è necessario rivolgere un breve sguardo al sistema normativo italiano tra la fine del secolo XIX° (a seguito dell’emanazione dei codici civile del 1865 e commerciale del 1882) e i primi quarant’anni del secolo XX° (prima della riforma del codice civile, che ingloba in sé la disciplina prima demandata al codice del commercio e lascia a sé stante unicamente la legge fallimentare).

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Il codice civile del 1865 disciplina, al pari di quello francese, esclusivamente la compensazione legale (artt. 1285 ss.), la quale presuppone, per il suo operare, la presenza di reciproci debiti omogenei, liquidi ed esigibili.

Non è estranea, tuttavia, alla prassi l’esigenza di addivenire alla reciproca elisione delle pretese anche quando i crediti non presentano tutti questi requisiti poiché, nel caso, non sono ancora determinati nel loro ammontare ovvero sono sottoposti ad un termine ancora non scaduto.

Questa esigenza, per il vero, si esprime con maggiore evidenza quando questi reciproci debiti, non ancora liquidi o esigibili, nascono dal medesimo rapporto o dal medesimo contratto.

È in quest’ottica, pertanto, che l’esistenza di questi crediti viene sovente presentata all’attenzione del giudice in forma di eccezione o domanda riconvenzionale, quando la parte contrattuale che viene chiamata in giudizio per l’adempimento dell’obbligazione nascente dal contratto che grava su di essa ritiene di poter opporre una pretesa creditoria anch’essa nascente dall’esecuzione o dall’inesatta esecuzione del medesimo contratto. Ed è proprio in accoglimento di questa esigenza che l’autorità giudiziaria dichiara, ad esempio, la compensazione tra il debito da controprestazione e il credito a titolo di risarcimento dei danni da inesatto adempimento320 oppure compensa quanto dovuto al lavoratore per indennità di licenziamento e quanto versato dal datore di lavoro al dipendente a titolo di mutuo321, ritenendo che questo, occasionato dal rapporto di lavoro, non rappresi nient’altro che un anticipo sul futuro compenso, ovvero ancora opera l’elisione tra il credito per il residuo prezzo della cessione di un’attività commerciale e il risarcimento per il danno per inosservanza di clausola contrattuale322.

320 C. Regno, 30 maggio 1928, Soc. Gallinari c. Albert, in Rep. Foro it., 1928, v. Compensazione, n. 13. 321 T. Catanzaro, 13 maggio 1930, Zilli c. Ciardi, in Giur. Lav., 1930, 698.

322 Corte d’Appello di Torino, 28 febbraio 1941, Musso c. Musso, in Rep. Foro it. 1941, v.

Compensazione, n. 20, secondo cui l’eccezione con la quale il convenuto per il pagamento del residuo

prezzo per la cessione di un panificio chiede all’attore il risarcimento dei danni per inosservanza della clausola contrattuale vietantegli l’apertura entro una determinata zona di altro panificio in concorrenza con quello ceduto, è riconvenzionale in compensazione fra i due opposti crediti di residuo prezzo e di danni, tendente tuttavia a ristabilire l’equilibrio nelle obbligazioni derivanti alla parti da quel contratto, e non eccezione d’inadempimento, con la conseguenza che in tal caso non è ammissibile uno jus

107 La compensazione, in questi casi, è ricondotta alla categoria della compensazione giudiziale, la quale, sebbene non codificata, prendeva forma nelle costruzioni dottrinali e giurisprudenziali323, al fine di evitare l’ingiustizia connessa ad una condanna che non tenesse conto delle contrapposte ragioni del convenuto.

Da questa giurisprudenza si può evincere, pertanto, che la compensazione cd. giudiziale non veniva assolutamente esclusa per il solo fatto che i rispettivi crediti e debiti fossero originati dalla medesima fonte, ma anzi proprio per le esigenze connesse a questa circostanza si ammetteva questa forma di compensazione di origine extracodicistica324. Con ancor più nitidezza, tuttavia, l’idea della compensazione impropria inizia a formarsi nell’ambito del diritto fallimentare.

Anche qui il sistema italiano emula quello francese, escludendo la compensazione nel caso di fallimento di uno dei soggetti interessati, a meno che i rispettivi debiti e crediti non presentassero già prima della dichiarazione di fallimento i requisiti richiesti per

323 Su cui v., per una ricostruzione complessiva, CUTURI, Trattato delle compensazioni nel diritto privato

italiano, Milano, 1909, p. 350ss. Sottolinea GIORGI, Teoria delle obbligazioni, VIII, Firenze, 1888, che “predomina tra gli scrittori moderni, unanimi nel riconoscere l’istituto della compensazione giudiziale, l’indirizzo di considerarla sotto il rispetto della procedura, e di confonderla con la domanda riconvenzionale” (p. 151). La “processualità” dell’istituto derivava dalla mancata contemplazione nel codice civile, ma al contempo alla previsione nell’art. 102 Codice di Procedura civile del Regno d’Italia del 1965 che “i conciliatori e i pretori conoscono della compensazione proposta contro la domanda dell’attore se il valore del credito non ecceda i limiti della loro competenza, o se la compensazione si desuma da credito non impugnato.

Quando il credito opposto in compensazione sia impugnato ed ecceda i limiti della competenza, essi devono rinviare le parti davanti l’autorità giudiziaria competente per l’azione principale e per la compensazione.

Se l’azione principale sia fondata su atto pubblico o giudiziale, scrittura riconosciuta o confessione giudiziale, i conciliatori e i pretori possono ritenere la causa principale e rimettere le parti davanti l’autorità giudiziaria competente per la decisione della controversia sul credito opposto in compensazione, e possono ordinare che la sentenza sia eseguita con cauzione”.

Rilevava, a proposito, Giorgi che “assai importante parrebbe la ricerca degli estremi sostanziali, che richiede siffatta compensazione; ma poiché essa dipende dal potere discrezionale del giudice, bisogna contentarsi di segnarne i confini, e notarne la applicazioni principali” (p. 152). Venendo alle applicazioni principali, sottolineava Giorgi come “il caso più frequente di compensazione giudiziale sarà quello di credito illiquido opposto al credito liquido” (p. 153). Ritiene, invece, che le disposizioni contenute nel Codice di procedura civile fossero dettate unicamente per la compensazione legale REDENTI, La

compensazione dei debiti nei nuovi codici, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1947, p. 39.

324 Preminenza data alla “connessione” delle questioni che si evince, ad es., dalla massima secondo cui “Non può farsi luogo a compensazione fra due crediti che derivano da titoli diversi quando l’uno sia liquido e l’altro richieda laboriose indagini”, Corte d’Appello di Milano, 13 dicembre 1934, Marchetto c. Centrale latte Como, in Foro lomb., 1934, p. 346.

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l’operare della compensazione legale (e, quindi, le obbligazioni fossero in realtà già estinte, in ossequio alla dottrina dell’ipso iure).

Il codice del commercio del 1882, infatti, perpetuamdo l’assimilazione tra compensazione e pagamento, dichiara nulli i pagamenti di debiti non scaduti fatti dopo la dichiarazione di fallimento, tanto se eseguiti “col mezzo di denaro, quanto per via di trapasso, vendita, compensazione o altrimenti”325.

È vero che tale disposizione sembra riguardare, in particolare, la compensazione volontaria326, ma l’impossibilità di addivenire alla compensazione legale è fatta comunque discendere dalla generale clausola di equivalenza tra compensazione e pagamento, da cui al divieto dell’uno corrisponde il divieto dell’altra327.

Il principio, tuttavia, viene scardinato dalla giurisprudenza in diverse occasioni, nelle quali esigenze di equità richiedevano un diverso trattamento.

Con ragionamento analogo a quello che verrà poi fatto proprio dalla pronuncia succitata in tema di compensazione tra credito del lavoratore e debito dello stesso per restituzione di somma ricevuta a titolo di mutuo, la Corte di cassazione di Roma nel 1890328 ammette, nonostante il fallimento del locatore, la compensazione tra quanto dovuto dal conduttore a causa di canoni non pagati e quanto questi dovrebbe ottenere per la restituzione del deposito versato all’inizio della locazione al locatore329.

325 Art. 707 Codice del commercio del regno d’Italia del 1882. Diversamente, peraltro, da quanto prevedevano gli usi mercantili antecedenti alla codificazione, se è vero che non solo la compensazione era ammessa nel momento in uno dei due commercianti fosse in stato di decozione o fallimento, ma addirittura essa avveniva in queste ipotesi di diritto, anche qualora gli stessi l’avessero esclusa nella fase fisiologica del rapporto: v. CUTURI, op. cit., p. 139, spec. n. 4 ed ivi ulteriore bibliografia.

326 V. CUZZERI, sub art. 707 Codice del Commercio, in BOLAFFIO – VIVANTE, Il codice del commercio

commentato, Del fallimento, Torino, 1927, p. 206. Ritiene, invece, che discenda da tale disposizione

anche il divieto dell’operare della compensazione legale CARAVELLI, Teoria della compensazione, Pisa, 1930, p. 169.

327 Al riguardo v., ex multis, BONELLI, Del fallimento, Milano, 1938, p. 543 e p. 488 ove affermava che “conseguenza diretta della indisponibilità attiva e passiva prodotta dal fallimento è l’impossibilità della compensazione così convenzionale che legale dopo la sentenza dichiarativa”.

328 Cass. Roma 15 gennaio 1890, Argema c. Fall.to Matteini, in Foro it. 1891, c. 539 con nota di BOLAFFIO.

329 Il principio è confermato anche in tempi più recenti, si v. ad es. T. Nola, 21 settembre 2011, in DeJure, che ha condannato il conduttore a versare al locatore un importo corrispondente alla differenza tra le mensilità insolute e quanto attribuito a quest’ultimo a titolo di deposito cauzionale proprio “operata la compensazione tra le reciproche poste di dare ed avere, in virtù del meccanismo della compensazione impropria”.

109 Affermare che fu ammessa la compensazione costituisce, a onor del vero, una non corretta rappresentazione delle motivazioni addotte a sostegno della decisione: la Corte, infatti, affermava che il conduttore non pretendeva di compensare con il suo credito un debito derivante da altro titolo, bensì voleva che fosse riconosciuto che con la somma depositata si dovevano intendere soddisfatti i canoni mensili non pagati fino alla concorrenza dell’importo suddetto. Di conseguenza, secondo la Corte, non aveva luogo una compensazione tra debito e credito che avessero titoli diversi, ma semplicemente soddisfazione del debito per mezzo di un anticipato versamento di una somma di denaro destinato a soddisfare il locatore nell’ipotesi di ritardato pagamento dei canoni dovuti. Ciò che si afferma, in sostanza, è che in caso di fallimento la compensazione non può operare se non tra crediti e debiti già anteriormente scaduti, ma ciò non si verifica nel caso in cui debito e credito derivino dallo stesso titolo e il debito debba imputarsi al credito330.

Si delinea, in questi termini, un filone giurisprudenziale che ammette la “compensazione” in altri casi in cui, per volontà delle parti o per l’intrinseca natura del negozio, si debba ritenere equa e imprescindibile la reciproca estinzione delle pretese. L’oggetto delle pronunce e delle riflessioni più rilevanti del tempo, in materia, è costituito dalla figura del pegno irregolare.

Le questioni si pongono perlopiù con riferimento all’ipotesi in cui fallisca il debitore di un istituto di credito, il quale prima di fallire avesse consegnato allo stesso somme di denaro a garanzia dello sconto di titoli o titoli a garanzia del debito derivante da mutuo. Dall’analisi delle diverse pronunce e dai contributi dottrinali emerge che, se il fine perseguito è sempre quello – ritenuto conforme ad equità – di consentire alla banca di trattenere le somme ricevute fino a concorrenza del credito, le motivazioni addotte dagli interpreti e dalla giurisprudenza al riguardo risultano, tuttavia, molto diverse. Possono essere indicate almeno tre linee interpretative che si caratterizzano, l’una, per dare

330 La scelta è fortemente criticata dal Bolaffio in sede di nota alla stessa: i profili critici risiedono nella lesione di quell’uguaglianza che è “fondamento e ragione del giudizio di fallimento”, lesione causata dalla possibilità data al creditore che non è titolare di una causa legittima di prelazione di soddisfarsi per intero, per mezzo della compensazione, in violazione della par condicio creditorum.

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accesso alla compensazione, l’altra, per far discendere la trattenuta delle somme dallo schema contrattuale del pegno irregolare, l’altra ancora, che si concentra sulle modalità di esercizio della garanzia.

La prima di queste opzioni dà, dunque, accesso alla compensazione anche dopo il fallimento in forza della connessione tra i crediti, i quali sorgono dal medesimo rapporto331.

Il richiamo alla compensazione di debiti connessi è indotto dall’osservazione che nel pegno irregolare il creditore si trova nell’impossibilità di esercitare quelle difese che avrebbe potuto attivare ove oggetto del pegno fosse stata una cosa infungibile, specialmente il diritto di rivendicarla nei confronti della massa fallimentare. Tuttavia, proprio in considerazione della natura fungibile del denaro egli può attuare la propria garanzia per mezzo di quella “difesa sussidiaria” che è rappresentata dalla compensazione332.

Con riferimento, invece, alla seconda opzione interpretativa, essa si basa sulla costruzione giuridica per cui, al momento della conclusione della convenzione costitutiva del pegno irregolare, sorgerebbe l’obbligazione a carico del creditore di restituire i beni fungibili costituiti in garanzia – e di cui è divenuto immediatamente proprietario – al momento dell’avvenuto pagamento, obbligazione da ritenersi però sospensivamente condizionata al verificarsi dell’evento futuro e incerto del pagamento del credito garantito.

Non si dovrebbe, pertanto, seguendo tale opzione interpretativa, dar corso ad una (impossibile) compensazione poiché, dato che l’obbligo di restituzione da parte del

331 È la soluzione più filo-francese, quella che infatti mutua l’idea della compensazione di debiti connessi per derogare al divieto di compensazione nel fallimento.

332 VIVANTE, Trattato di diritto commerciale, IV - Le obbligazioni: contratti e prescrizione, Milano, 1926, p. 290, il quale nota anche che “un senso operoso di equità ha indotto la giurisprudenza a riparare, entro i limiti della somma reciprocamente dovuta, alla lacuna del Codice” il quale, ex art. 707, vieta la compensazione successiva al fallimento. Si badi che questa soluzione è tuttora accolta nella giurisprudenza che si occupa del pegno irregolare nell’ambito del fallimento, v. ad es. Cass. civ., sez. I, 12 settembre 2011, n. 18597, in Rep. Foro it., v. Fallimento, n. 410 la quale ha affermato che “il creditore assistito da pegno regolare è tenuto a insinuarsi nel passivo fallimentare, ai sensi dell'art. 53 l. fall., per il soddisfacimento del proprio credito, dovendosi escludere la compensazione, che opera invece nel pegno irregolare come modalità tipica di esercizio della prelazione”, su cui amplius infra.

111 contraente che ha ricevuto la garanzia è sottoposto a condizione consistente nell’evento futuro e incerto che l’altra parte adempirà l’obbligazione garantita, non essendo stata adempiuta tale obbligazione non è sorta neppure quella di restituzione.

Non vi sarebbero pertanto due distinti rapporti giuridici, dei quali sia vietata la compensazione, ma un solo eventuale credito risultante dalla differenza tra quanto dato a titolo di mutuo e il valore di quanto ricevuto in pegno333.

Questa soluzione si basa sull’assunto per cui, essendo il denaro entrato a far parte del patrimonio del creditore, non si potrebbe far valere la garanzia nelle forme ordinarie mediante individuazione del bene oggetto della garanzia nel patrimonio del debitore. Se il bene, infatti, è già di proprietà del creditore, allora trattasi semplicemente di titolarità condizionata, cui discende, una volta intervenuto il fallimento, solo l’obbligazione di restituire quanto di più eventualmente ricevuto rispetto al dovuto in forza del contratto di pegno.

L’assunto, tuttavia, viene da altri negato, sulla base della considerazione opposta che i beni fungibili oggetto del pegno irregolare ritornino nel patrimonio del debitore non appena scade il termine per il pagamento dell’obbligazione garantita, con la conseguenza che ben si potrebbe allora far valere il privilegio: il creditore dovrebbe, infatti, esibire di regola il tantundem sul quale, tuttavia, potrebbe rivalersi con precedenza rispetto agli altri creditori in forza della causa legittima di prelazione334. Il problema può porsi, invero, anche nel caso inverso, ove oggetto del pegno irregolare siano titoli dati in garanzia della restituzione della somma ricevuta a mutuo, nel caso in cui sia il mutuante a fallire. Il curatore, in questa ipotesi, non può pretendere la restituzione per intero della somma data a mutuo verso il pagamento solo in moneta

333 Corte d’Appello di Milano, 14 gennaio 1913, Fall.to Pisati e De Grandi c. Banca Santagostino, in Riv.

Dir. Comm., 1913, II, p. 523, con nota adesiva di NAVARRINI il quale espressamente esclude cha la giustificazione del principio di diritto affermato possa riscontrarsi nell’opinione secondo cui i debiti reciproci ex eadem causa si elidano nonostante la dichiarazione di fallimento, poiché i principi dominanti la disciplina delle procedure concorsuali “non tollerano in nessun modo che si distingua se i debiti o crediti compensabili derivino o non derivino dalla stessa causa”. La decisione è confermata da Corte di Cassazione di Torino, 16 ottobre 1913, Fall.to Pisati e De Grandi c. Banca Santagostino, in Riv. Dir.

Comm. 1914, II, p. 509.

334 LA LUMIA, Pegno irregolare e sconto, nota a Corte di Cassazione di Torino, 16 ottobre 1913, Fall.to Pisati e De Grandi c. Banca Santagostino, in Riv. Dir. Comm., 1914, II, p. 518.

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fallimentare del valore dei titoli ricevuti in pegno. In questo caso, infatti, “i crediti si elidono sino alla rispettiva concorrenza e, se il valore dei titoli supera la somma mutuata, è solo la differenza che deve subire la falcidia fallimentare”335. Il rapporto infatti, in questi casi, si unifica nella risultante differenziale delle due prestazioni336.

III.1.2. Le prime manifestazione della compensazione c.d. impropria nei decenni