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Il primo nucleo di fonti internazionali riguardanti il minore: la

Prima di arrivare al concetto di dichiarante vulnerabile come attualmente sviluppato, comprensivo di soggetti determinabili come vulnerabili in considerazione del caso singolo, vi era l’idea che l’unico soggetto vulnerabile dovesse essere il minore, in quanto soggetto debole. Tale stato di cose, del riconoscimento e della creazione di diritti nei confronti del minore che era perlopiù soggetto passivo, venne a crearsi alla fine della prima guerra mondiale, in quel clima di necessità di rinascita a seguito della catastrofe (rinascita anche giuridica), momento in cui si iniziarono a porre le basi per il diritto internazionale contemporaneo. Infatti furono proprio le fonti internazionali a porre attenzione sulla categoria dei minori35: quali soggetti che necessitavano di peculiari riconoscimenti in virtù della loro debolezza. Da quelle basi ci si mosse andando verso contesti normativi più maturi che garantirono l’introduzione nel processo di particolari meccanismi, derogatori rispetto ai procedimenti previsti in generale per tutti gli altri soggetti del processo, in grado di potersi adattare alle specificità ormai riconosciute al minore, soprattutto in ambito delle dichiarazioni rilasciate dallo stesso all’interno del processo.

Questa prima fase di normazione sovranazionale, che interessò il periodo intercorrente dagli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale fino ad arrivare agli anni ‘80, può essere considerata

34 S. Aceto, Op. Cit.

35 Quali La Convenzione sull’età minima del 1919 e La Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1924.

31 quale periodo riguardante l’introduzione del primo vero e proprio nucleo attinente alla figura del dichiarante debole minorenne; naturalmente, essendo gli anni di differenza, tra inizio di questa fase e fine della stessa molti, all’interno dello stesso nucleo la progressione dei diritti e delle conquiste succedutesi nel tempo è molto variegata. Però la suggestione che vuole le fonti internazionali (che si andrà a trattare) legate da un unico fil rouge è data dal fatto che esse sembrano far parte di un unico sillogismo in cui la premessa iniziale abbia portato al predicato maggiore conclusivo. Infatti se le prime convenzioni internazionali hanno mirato all’introduzione di una capacità a testimoniare del minore pur nella diffidenza delle sue dichiarazioni, in quanto proveniente da un soggetto a livello psichico non maturo, le successive convenzioni poste negli anni 80 sono arrivate a sviluppare ulteriormente tali fonti iniziali introducendo nel processo principi a garanzia del minore dichiarante, che sono in linea con la necessità di garantire il processo rispetto a tale dichiarazioni, tendenzialmente poco attendibili o comunque sommariamente valutabili. Anzi la prima finalità di garanzia del minore dal processo sembra soggiacere alla seconda, la garanzia del processo dalle dichiarazioni dello stesso prevale sulla tutela del minore. Proprio per questo il primo nucleo di fonti internazionali che andremo ad analizzare sembra riferirsi alla vulnerabilità delle dichiarazioni del minore nel processo penale e non, più propriamente, alle dichiarazioni del minore in quanto vulnerabile, che riguardano invece il secondo nucleo di fonti internazionali.

Il primo atto internazionale, che inizia a dotare il minore di diritti peculiari, è in assoluto La Convenzione sull’età minima, adottata dalla Conferenza internazionale del lavoro nel 1919: tale atto, dotando il minore di diritti minimi in ambito lavorativo è quello che crea, per la prima volta, i diritti legati all’infanzia e che quindi inizia a porre le basi per il riconoscimento della soggettività del minore dinnanzi al diritto.

32 Successivamente, invece, il primo atto internazionale che affronta la problematica del riconoscimento di una tutela del minore in quanto tale è la Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 24 settembre 1924, proclamata a Ginevra dalla Società delle Nazioni. In tale documento il minore diventa titolare di diritti passivi miranti alla salvaguardia e allo sviluppo futuro della sua personalità: questi diritti sono perlopiù mossi da intenti idealistici che pragmatici, non venendo stabiliti obblighi di riconoscimento, dei diritti, ai singoli Stati; bensì venendo chiamata in causa l’intera umanità affinché protegga i minori. L’impianto di tale dichiarazione è essenzialmente assistenzialista, tendente ad affermare le necessità materiali ed affettive dei minori.

Mentre di diversa portata, anche se mantenente l’ordine di indirizzo della convenzione posta in essere dalla Società delle Nazioni, è la Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959, proveniente, stavolta, dal consesso dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Di diversa portata poiché i diritti passivi riferiti al minore questa volta vengono posti in una dimensione di effettività rispetto alla loro esistenza e dunque in maniera più pragmatica; in quanto i destinatari del compimento di tale opera programmatica sono le nazioni, che si impegnano a rendere effettive le linee guida della Carta. In ogni caso il contenuto della convenzione del 1959 non è un contenuto vincolante per le nazioni firmatarie, ma, ponendosi su piano di accordi tra nazioni, al contrario delle precedenti Dichiarazioni, quale quella ricordata del 1924, getta le basi per quelli che saranno le future Convenzioni aventi natura di norme giuridiche vincolanti.

I principi inseriti con l’adozione della convenzione del 1959 spaziano in vari campi e si orientano nella direzione del minore quale soggetto debole; più specificatamente nell’ambito processualistico si riconosce il principio di non discriminazione nei confronti del minore e quello di una sua adeguata tutela giuridica, sin dalla sua nascita, così da poter permettere una crescita psichica dello stesso, informata alla

33 comprensione, alla pace e alla tolleranza; criteri della crescita psichica allineati ai crescenti studi multi-disciplinari, che hanno iniziato efficacemente ad unire studi sociologici, psicologici e giuridici e via dicendo e che hanno permesso di considerare il minore quale soggetto non da anteporre agli interessi degli adulti.

Successivamente si è arrivati alle cosiddette Regole di Pechino, approvate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1985, che fissano una serie di regole minimi ed uniformi per minori che nello specifico infrangono la legge penale36. La ratio di tali regole è creare un sistema di repressione penale verso i reati compiuti dal minore che sia improntato al recupero dello stesso e non invece alla creazione di un retroterra che faccia germogliare la propensione a reiterare la condotta penalmente rilevante, vista la criminalizzazione che potrebbe subire da un processo avente l’unico scopo di punire. Le linee guida per il raggiungimento dello scopo sono la messa in opera di condizioni, nello svolgimento del processo, che facciano deporre per un clima il più sereno possibile, per quanto plausibile, permettendo la libera espressione e partecipazione dell’imputato minorenne.

Nonostante tutto, in questa prima fase di internazionalizzazione della questione della tutela del minore dinnanzi al processo e più in generale della problematica della salvaguardia della fragilità psico-fisica del minore, tali fonti non riescono a dare una risposta convincente circa una vera e propria innovazione in seno alle modalità procedimentali in concreto svolte dai vari paesi. In Italia è molto forte il pregiudizio che viene ad aversi circa le dichiarazioni poste nel processo dal minore, retaggio di un’atavica concezione di inaffidabilità verso chi ancora deve sviluppare coscienza critica: quindi anche le varie proposte di riforma, poi culminate con il codice di rito del 1988, tese ad armonizzare il processo con la dimensione sovranazionale nascente, risentono di questa

36 FADIGA L., Le Regole di Pechino e la giustizia minorile, in, Giustizia e Costituzione,

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forma mentis. Infatti inizialmente le deroghe al contraddittorio in

presenza di un testimone debole minorenne vengono introdotte in maniera abbastanza blanda, in ossequio alle reminiscenze del codice del 1930 che era improntato alla ricerca della verità processuale ad ogni costo, anche a discapito del benessere del minore. Sicuramente vi è un progresso non indifferente rispetto al passato, ma pur sempre vi è una generale diffidenza nei confronti del minore, che porta ad un codice che si sbilancia a favore della necessità di sondare, comunque, in contraddittorio, seppur mediato, la valutabilità delle dichiarazioni vulnerabili e questo anche a discapito della serenità del dichiarante vulnerabile, ancor di più se vittima.

Non a caso con la seconda stagione di convenzioni internazionali provenienti dal Consiglio d’Europa e dall’ Unione Europea, che introducono il concetto di vittima vulnerabile (la supervittima) e più in generale rafforzano la posizione della vittima a discapito della ricostruzione dei fatti e quindi del concetto di accertamento della verità processuale come valore preminente rispetto a tutti gli altri, il codice andrà incontro a numerose adeguamenti e modifiche, abbandonando gradualmente l’intervento nell’area dell’attendibilità della prova dichiarativa debole per sbilanciarsi in favore della tutela del dichiarante minorenne dal processo tout court (anche a discapito dell’attendibilità); come vedremo nel prosieguo della trattazione.

3.2 Secondo nucleo di fonti internazionali: il dichiarante vulnerabile.

Il nuovo solco del secondo nucleo delle fonti internazionali si apre con la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, stipulata nel 20 novembre 1989 e ratificata in Italia con legge n. 176 del 1991. Tale convenzione, nata in seno all’Assemblea delle Nazioni Unite, porta interessanti novità circa la considerazione di quello che fino a questo

35 momento è stato chiamato “minore”; infatti questo è il primo documento in cui il termine “minore”, riflettente uno stereotipo culturale di un bambino che è incompleto sotto il punto di vista personale e giuridico viene sostituito con il termine “fanciullo”, che nell’art. 1 della suddetta convenzione viene a riferirsi ad ogni essere umano avente un’età inferiore ai diciott’anni. Infatti si stabilisce nell'art. 12 che, “gli Stati parti garantiscono al fanciullo che è capace di discernimento, il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessi, dovendo essere prese in considerazione, le opinioni del fanciullo con riguardo alla sua età ed al suo grado di maturità”. Altro problema evidenziato dall’art. 12 della Convenzione di New York è proprio il valore probatorio delle dichiarazioni del minore. Alle dichiarazioni rese dal testimone minore nel processo deve essere attribuito, tenuto conto di età e maturità del soggetto che le ha rese, adeguato peso. Questo deve avvenire, sia nel caso in cui testimoniare risponda ai desideri ed all’interesse del fanciullo, sia quando il soggetto venga chiamato a deporre nell’interesse della difesa o della amministrazione della giustizia37. Nel valutare le dichiarazioni del minore è necessario tener conto che il fanciullo, già di per sé solo parzialmente maturo e comunque psicologicamente vulnerabile e bisognoso di protezione, viene chiamato a testimoniare nel processo penale, dopo aver assistito a fatti traumatici o, evenienza peggiore, essendone vittima.

La partecipazione al processo rischia di rappresentare per il minore un’ulteriore fonte di sofferenze, e di influire negativamente sia sullo sviluppo della sua personalità, sia sulla sua capacità di rendere una testimonianza coerente ed attendibile. Per tale motivo, in sede penale, è necessario che i minori chiamati a deporre siano sentiti con modalità di audizione che garantiscano, per quanto possibile, attendibilità,

37 United Nations Economic and Social Council, risoluzione n. 2005/20, 22 luglio 2005,

contenente le ”United Nations Guidelines on justice in matters involving child victims

36 completezza e genuinità della deposizione pur badando contestualmente alle loro peculiari caratteristiche38.

Continuando lungo la linea tracciata dalla convenzione in questione abbiamo le fonti europee che riprendono il contenuto della stessa: la Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei minori (Strasburgo 1996) ratificata con legge n. 77 del 2003 che, in linea con i principi generali, ha posto l’attenzione sul diritto del soggetto, anche in difficoltà, di poter esprimere la propria opinione in tutti i procedimenti giudiziari in cui è coinvolto, prevedendo, in particolare, il diritto del minore di essere informato ed ascoltato nei procedimenti che lo riguardano39. E ancora la Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea (c.d. “Carta di Nizza”) pubblicata nella G.U.C.E 2000/C 364/01. L’art. 24 n. 1 statuisce: “I bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere. Essi possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità”.

Questa nuova considerazione delle opinioni del fanciullo, espressa in particolare dalle convenzioni sopracitate, più alta, rispetto al passato, ha fatto sì che il processo nei riguardi del minore si adattasse maggiormente all’apprensione delle loro dichiarazioni, deflettendo ancor di più il diritto della controparte al contraddittorio, in quanto la controparte veniva a vedersi opposti procedimenti speciali applicabili al vulnerabile, derogatori alla disciplina ordinaria, onde garantire l’effettività del rilascio delle dichiarazioni del vulnerabile (data la raggiunta importanza), ancor più quando il vulnerabile testimone era al contempo vittima del reato in oggetto al processo.

38 A. FINOCCHIARIO, L’ audizione del minore e la convenzione sui diritti del fanciullo, 1991, pag. 834 e ss.; L’ascolto del minore tra Convenzioni Internazionali e normativa interna in Fam. Dir., 2001 pag. 675 e ss.

39 Sull’ascolto nella Convenzione di Strasburgo, cfr. G. MAGNO, Il minore come soggetto processuale, cit. pag. 24 e ss.

37 Questa necessità di rendere effettiva l’importanza delle dichiarazioni del minore si è andata a scontrare con la realtà del testimone minorenne al contempo vittima, che è più portato ad essere reticente avendo un recondito metus interiore nei confronti dell’imputato ed è più portato ad alterare i suoi ricordi in virtù di una rielaborazione post-traumatica che tende all’oblio mnesico. Questo stato di cose ha portato le fonti internazionali e nello specifico quelle dell’Unione Europa40 verso una

nuova evoluzione circa il concepire l’esistenza di una vittima tra le vittime, ossia la vittima vulnerabile: tale situazione di vulnerabilità, dell’essere contemporaneamente vittima e vulnerabile, era necessitante di un adeguato riconoscimento e di apposita disciplina derogatoria, ancor più radicale, delle modalità di escussione della testimonianza. Proprio per questo successivamente le fonti europee41 hanno individuato

particolari categorie di soggetti tra i già intrinsecamente vulnerabili vittime, quali il minore e l’infermo di mente, che per la qualità e la tipologia di reato che avevano subito, legato alla tipologia di bene giuridico violato, necessitavano di ulteriore e specifica garanzia dal processo. Nel corso degli anni gli inserimenti nella categoria dei soggetti cosiddette supervittime sono stati sempre maggiori: infatti si è passati nel ricomprendere in tale categoria i minori vittime di determinati reati sessuali, fino all’inserimento nella stessa di ulteriori reati qualitativamente rilevanti per la concreta possibilità di lesione della psiche di essi e di conseguenza di “vittimizzazione secondaria”, ed infine si è arrivati a ricomprendere, tra le vittime particolarmente vulnerabili soggetti non intrinsecamente vulnerabili, poiché non “deboli”, ma valutabili in quanto tali; dunque vittime ulteriori rispetto al minore e all’infermo di mente, che per le circostanze e la qualità del reato vengono comunque a ricadere nella condizione di vulnerabilità.

40 Con in prima battuta la Decisione quadro 2001/220/GAI

41 In seconda battuta il Consiglio d’Europa con la Convenzione di Lanzarote del 2007

38 La Decisione quadro 2001/220/GAI appare come la prima e vera normazione in ambito dell’Unione Europea riguardante le vittime particolarmente vulnerabili e la particolare tutela processuale che gli Stati membri dovrebbero avere nei loro confronti; più in generale tale decisione, approvata dal Consiglio dei Ministri dell’Unione il 15 marzo 2001, individua uno standard minimo di diritti che ogni Stato membro deve garantire alle vittime di reati, portatrici di istanze autonome cui l'ordinamento deve dare spazio e riconoscimento riservando loro un trattamento rispettoso della dignità personale durante il corso di tutto il procedimento penale (art. 2). Non a caso tale decisione appare come uno dei più importanti e compiuti tentativi di armonizzazione del diritto in ambito processuale; seppure gli Stati membri dell’Unione non hanno recepito prontamente i contenuti esposti dalla decisione42. Per quanto

riguarda la linea seguita da tale decisione per la tutela della vittima vulnerabile in merito alle sue dichiarazioni rilasciate nel processo, tale linea si muove verso due direttrici: 1) la possibilità di rendere testimonianza in condizioni protette e diverse dall’audizione pubblica (art. 8), 2) la garanzia che i contatti tra vittima vulnerabile ed autore del reato vengano evitati con la predisposizione di strutture apposite che non permettano l’incontro (art. 8,3).

La decisione in questione, attuata nella sua interezza con estremo ritardo da parte dell’Italia43, mette in luce la necessità di istituire particolari

tutele nei confronti di vittime contraddistinte dalla vulnerabilità, fisica, morale o psicologica ricevuta a seguito della lesione, onde poterle salvaguardare “dal” processo44, al fine di evitare che il soggetto

vulnerabile in questione possa incorrere in un pregiudizio ulteriore,

42 S. ALLEGREZZA, La riscoperta della vittima nella giustizia penale europea, in Lo

scudo e la spada, cit., p. 9.

43 Con l’art. 53 della legge 4 Giugno 2010 n.96: Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea.

44 G. CANZIO, T. RAFARACI, S. RECCHIONE, La tutela della vittima nel sistema penale delle garanzie, nella parte a cura di S. RECCHIONE, in Criminalia 2010, p. 259.

39 rispetto quello subito ed in oggetto al processo, rappresentato dalla cosiddetta “vittimizzazione secondaria”.

Per evitare tale vittimizzazione l’obbligo posto verso gli Stati dalla Decisione 2001/220/GAI è quello di garantire alle vittime vulnerabili un trattamento specifico, che risponda in modo ottimale alla loro situazione; tale trattamento peculiare assume contorni ancor più importanti in sede di prova dichiarativa dove l’esigenza di protezione del vulnerabile deve essere soddisfatta con particolare cura (art. 8). Pur tuttavia manca una vera e propria definizione di vittima vulnerabile, volutamente omessa dalla decisione, in quanto la volontà è quella di mantenere le caratteristiche proprie di ogni ordinamento dei singoli Stati membri riguardo la concezione di chi è vittima vulnerabile o meno, in modo tale da incoraggiare l’attuazione della decisione da parte degli Stati membri nel minor tempo possibile e rendere possibile la messa in opera dell’interesse maggiore, rispetto alla completa armonizzazione, rappresentato dalla specifica tutela dal processo del soggetto vulnerabile. Quindi, ad esempio, in Italia, almeno prima della direttiva 2012/29/UE, i criteri di individuazione della vulnerabilità della vittima erano informati all’aspetto soggettivo della vittima, quali l’età o la condizione di incapacità psico-patologica (minore, infermo).

Questa ratio era pur sempre rispettosa delle deroghe alla normativa nazionale, rispetto alle specifiche categorie di vulnerabili e i loro criteri di individuazione, introdotte da eventuali normative sovranazionali che individuavano apposite ed ulteriori categorie di vittime vulnerabili45. Ed è proprio a seguito della decisione appena affrontata che vengono a nascere le fonti europee a “carattere particolare”, riguardanti l’individuazione della vulnerabilità delle vittime sulla base dell’aver subito specifici reati.

45 L. LUPARIA, Linee guida per la tutela processuale delle vittime vulnerabili,

40 A questo proposito abbiamo la Decisione quadro 2002/475/GAI, sulla lotta al terrorismo. Tale decisione (poi modificata dalla Decisione quadro 2008/919/GAI) inserisce nella categoria delle vittime vulnerabili altri soggetti, oltre quelli presuntivamente considerati dalle loro caratteristiche soggettive, quali i soggetti che hanno subito le conseguenze di reati terroristici e, dato tale aspetto, le vittime in questione necessitano di misure specifiche che li riguardino. La decisone, dunque, oltre ad introdurre la necessità di misure coercitive più dure sul piano penalistico sostanziale, atte a prevenire il verificarsi di reati di stampo terroristico, considera i soggetti vittime di tali reati meritevoli di introduzione di appositi ed ulteriori strumenti di tutela, oltre quelli previsti, sul piano processual-penalistico, nelle modalità di rilascio delle prove dichiarative da essi provenienti: in questo senso viene lasciata agli Stati membri la facoltà di introduzione di tali strumenti.

Poi abbiamo la Decisione quadro 2002/629/GAI, riguardante la lotta alla tratta degli esseri umani, dove la vittima, “a carattere particolare”, particolarmente vulnerabile è definita tale «quando non ha raggiunto l’età della maturità sessuale ai sensi della legislazione nazionale e quando il reato è stato commesso a fini di sfruttamento della prostituzione altrui o di altre forme di sfruttamento sessuale, anche nell’ambito della pornografia», come cita l’art. 3 comma 2 lett.B. Per questi soggetti, così individuati, viene prevista una tutela che agisce non solamente sul piano sostanziale, ma anche sul piano processuale in merito alle dichiarazioni provenienti da tali soggetti: viene prescritta l’adozione di cautele nel corso del procedimento penale e la predisposizione di un’adeguata assistenza a favore della famiglia (art. 7

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