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La protezione del dichiarante vulnerabile dal processo: disciplina e ricadute problematiche.

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

La protezione del dichiarante vulnerabile dal processo:

disciplina e ricadute problematiche.

Relatore:

Prof. ssa Valentina Bonini

Candidato:

Vasco Agostini

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1

INDICE

1 INTRODUZIONE ... 4

2 EVOLUZIONE STORICA DELLA FIGURA DEL DICHIARANTE VULNERABILE ... 7

2.1. Il minore archetipo della categoria dei soggetti vulnerabili. ... 7

2.1.1 Le dichiarazioni del minore, nello specifico la testimonianza, dalla legislazione pre-unitaria al codice del 1930. ... 9

2.1.2 Il punto di arrivo nel XX secolo, il minore come dichiarante “vulnerabile”. ... 14

2.2 L’infermo di mente, dichiarante vulnerabile molto spesso “soggetto dimenticato”. ... 18

2.3 Dalla riscoperta della vittima alla super-vittima quale nuovo dichiarante vulnerabile nel processo. ... 20

2.3.1 Le super-vittime. ... 23

3 LE FONTI RIGUARDANTI IL DICHIARANTE VULNERABILE ... 27

Introduzione ... 27

3.1 Il primo nucleo di fonti internazionali riguardanti il minore: la vulnerabilita’ delle sue dichiarazioni. ... 30

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2

3.2 Secondo nucleo di fonti internazionali: il dichiarante

vulnerabile. ... 34 3.3 Direttiva 2012/29/UE. La nuova vittima vulnerabile. ... 48

3.4 La giurisprudenza sovranazionale intorno al dichiarante

vulnerabile ... 52 3.5 Il dichiarante vulnerabile nel codice di procedura penale in relazione alla recente modifica introdotta con il d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212. ... 58

4. LE DICHIARAZIONI DEL DICHIARANTE VULNERABILE. ... 71 Introduzione ... 71 4.1 Le dichiarazioni extra-dibattimentali del vulnerabile: le

indagini preliminari. ... 74 4.2 L’incidente probatorio. ... 81

4.2.1 Modalità di ascolto del vulnerabile in incidente

probatorio. ... 91 4.3 Lo scudo-filtro previsto dall’art. 190 bis c.p.p. ... 98 4.4 Le dichiarazioni dibattimentali: la testimonianza del minore.

... 104

4.4.1 La testimonianza del vulnerabile non minore. ... 112

5 PRASSI E PROTOCOLLI NELL’ACQUISIZIONE DELLE DICHIARAZIONI DEL VULNERABILE ... 120

(4)

3

5.1 Metodologie applicabili nelle indagini preliminari per la

raccolta delle sommarie informazioni testimoniali (SIT) ... 127 5.2 Metodologie applicabili per l’acquisizione delle dichiarazioni del vulnerabile in contraddittorio. ... 134

6. LA VALUTAZIONE DI IDONEITA’ E ATTENDIBILITA’ DELLE

DICHIARAZIONI DEL VULNERABILE ... 142

7. CONCLUSIONI ... 152

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4

1 INTRODUZIONE

Il seguente lavoro si propone di trattare la specifica tematica del dichiarante cosiddetto vulnerabile nel processo e delle conseguenti misure di protezione dal processo finalizzate ad evitare che il vulnerabile possa subire quella che viene definita una “vittimizzazione secondaria”. Tematica che nel corso degli anni, dall’introduzione dell’attuale codice di rito, ha subito notevoli e ragguardevoli modifiche, non solamente prevedendo l’introduzione di nuove misure che potessero rendere effettive la tutela del vulnerabile, ma anche con l’estensione delle misure così individuate verso soggetti non considerati deboli, in quella che attualmente viene ritenuta una valutazione della vulnerabilità sul caso concreto (individual assessment), dunque a prescindere delle caratteristiche intrinseche del dichiarante. Naturalmente l’evoluzione che si è venuta a delineare è stata progressiva ed è stata resa possibile solamente grazie alle fonti sovranazionali di matrice europea che hanno richiesto comunque adeguamenti sul piano della legislazione nazionale, la quale ha dovuto essere sempre più attenta a dare risposte concrete, a quelle necessità di tutela del vulnerabile individuate dall’Europa, cercando, al contempo, di preservare quel sistema di processo accusatorio introdotto con il codice di procedura del 1988 e con le riforme costituzionali tese all’adeguamento al giusto processo richiesto dall’art. 6 CEDU. L’ultimo ed incisivo intervento a riguardo è stato quello introdotto con il d. Lgs. 212/2015 che ha portato importanti e notevoli novità nel nostro ordinamento, andando ad ampliare definitivamente quello che è il concetto di vulnerabile, non più categoria aprioristicamente individuata ma ora individuabile nel caso concerto, tramite la considerazione di specifici criteri abbastanza ampi e quindi aperti alla flessibilità del case by case giudiziale. Naturalmente questo adattamento del processo accusatorio alle specifiche esigenza di tutela del vulnerabile ha portato problematiche non indifferenti sul piano del bilanciamento dei diritti di difesa con le esigenze dell’accusa, questione

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5 di fondamentale importanza per non ricadere nelle caratteristiche del processo inquisitorio, poiché per salvaguardare il vulnerabile si è dovuti andare a derogare ad alcune specifiche del contraddittorio e dunque anche questa sarà tematica approfondita nella trattazione.

Il seguente lavoro esaminerà questa evoluzione, inquadrata in quello che è stato il cambiamento di pensiero riguardo il ruolo della vittima nel processo, andando ad analizzare in primo luogo la situazione dei soggetti deboli all’interno del processo in una dimensione storica-giuridica e come da questi soggetti, inizialmente ritenuti prove dichiarative deboli più che dichiaranti deboli, si sia passati ad includere altri soggetti oltre il minore (soggetto debole per eccellenza) all’interno delle dinamiche di protezione riguardante il vulnerabile. Dunque in prima battuta si tratteranno i cosiddetti personaggi a cui la disciplina va ascritta, per poi passare ad indagare il sistema delle fonti che ha permesso il passaggio all’ampliamento dell’attuale categoria (di fatto una “non categoria”) di coloro che vengono considerati vulnerabili, con una forte attenzione nei riguardi di quelle che sono le fonti sovranazionali, essenziali per il cambiamento venuto ad essere, fino ad arrivare al nostro codice di rito e all’adeguamento introdotto da ultimo con il D. Lgs. 212/2015, a cui seguirà una sommaria valutazione dei cambiamenti letterali incorsi nel codice.

Successivamente verranno trattati nel dettaglio tutti gli aspetti dinamici della disciplina contemplata dal codice, avendo particolare cura di quello che viene previsto a favore del vulnerabile sia nella fase pre-dibattimentale che nella fase pre-dibattimentale del procedimento penale, mettendo in luce quei meccanismi che consento l’utilizzo della capsula incidentale per la raccolta in maniera anticipata della prova dichiarativa proveniente dal vulnerabile previsti dall’art. 392 c.p.p e dall’art. 398 c.p.p. e quei meccanismi che invece vengono ad operare sul piano prettamente dibattimentale disciplinati dall’art. 498 c.p.p., i quali collettivamente costituiscono le modalità protette di audizione del

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6 vulnerabile. Durante l’esame di tali istituti sarà colta l’occasione anche per trattare delle criticità che essi, nonostante le consistenti riforme, ancora presentano.

Infine verranno approfondite quelle che sono le concrete tecniche di audizione del vulnerabile a fronte delle previste misure di protezione, cioè come si vengono a raccogliere le dichiarazioni per non provocare un danno nella psiche del teste a causa della “vittimizzazione secondaria”, che fanno riferimento a protocolli non vincolanti ma seguiti per questioni di opportunità e nei quali gli elementi giuridici si fondano con gli elementi scientifici riguardanti lo specifico campo della psiche umana, fino ad arrivare a quello che è il modo di procedere nella valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni di soggetti molto spesso non solamente infra-quattordicenni ma anche vittime e quindi interessati in prima persona a quelle che saranno le risultanze del processo. Mentre nelle conclusioni saranno trattate le ipotetiche evoluzioni future della disciplina a fronte delle possibili necessità di aggiustamenti in ragione di un contraddittorio che presenta deroghe eccessivamente sbilanciate a favore della tutela del vulnerabile e a discapito del diritto di difesa dell’indagato/imputato, che in linea di massima non produce il minor aggravio possibile nella compressione dei suoi diritti potendoci essere, potenzialmente, vie meno invasive per garantire contemporaneamente l’effettiva protezione del vulnerabile dal processo.

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7

2 EVOLUZIONE STORICA DELLA FIGURA DEL

DICHIARANTE VULNERABILE

2.1. Il minore archetipo della categoria dei soggetti vulnerabili. Dichiarante vulnerabile primigenio è il soggetto minore ed è dunque da tale categoria che si dipana quella che è l’attuale disciplina prevista a tutela dei dichiaranti cosiddetti vulnerabili; ragione per cui appare consono affrontare quella che è ed è stata a livello storico-giuridico l’evoluzione della disciplina delle dichiarazioni del soggetto minorenne all’interno del processo penale. Seppur con il termine “dichiarazioni” del minorenne ci si può riferire, lato sensu, a mezzi processuali quali anche l’interrogatorio, l’audizione o la confessione rilasciata dal minorenne, l’aspetto più rilevante della questione riguarda le dichiarazioni poste nell’ottica della testimonianza, che hanno maggiormente interessato il lavoro normativo risalente e di conseguenza hanno focalizzato maggiormente l’attenzione degli studiosi circa un’indagine più puntuale delle sue peculiarità storiche. Questa visione riguardante un interesse più sbilanciato verso le dichiarazioni raccolte tramite il mezzo processuale della testimonianza, quindi quella species di dichiarazione riguardante specificatamente la ricostruzione di un fatto storico, è dovuta sicuramente al fatto che anche nelle forme più antiche e rudimentali di processo la testimonianza era ampiamente utilizzata; mentre altre species di dichiarazione quali quelle provenienti dall’imputato iniziano ad essere utilizzate con l’introduzione delle “quaestiones” e quindi nella fase storica del processo di mezzo.

Più nel dettaglio, addentrandoci in quella che era storicamente la posizione del minore in merito alle sue dichiarazioni testimoniali, è importante notare come le limitazioni o più radicalmente le esclusioni di tali dichiarazioni nel processo non vengono poste a tutela della

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8 vulnerabilità del minore bensì nella sola direzione della tutela del processo stesso, in quanto fondamentalmente non si riteneva il minore una fonte dichiarativa affidabile; d’altronde, come vedremo, si avrà solo nel XX secolo una considerazione di una disciplina ad hoc per il minorenne, riguardo le sue dichiarazione, dettata in ragione della sua vulnerabilità (resa possibile dalla collaborazione multi-disciplinare positivista). In ogni caso da quegli stessi modelli processuali risalenti nel tempo si verrà a creare l’orma che seppur adeguatamente modulata verrà a servire da base normativa successiva, si verranno a creare quindi principi basilari imprescindibili. Al riguardo possiamo distinguere principalmente due modelli processuali contrapposti: quello accusatorio tipico del processo romano e quello inquisitorio tipico, invece, del processo penale barbarico. Nel processo romano penale vi era una capacità a testimoniare basata sull’età variamente modulata: vi era infatti l’incapacità totale alla testimonianza dell’impubere, quindi colui che non aveva raggiunto la maturità sessuale, in quanto l’infima aetas, nella quale la forza della natura per caliginem cernitur, sembrava la meno adatta a raccogliere e trasmettere precise percezioni e sicure rievocazioni1; ma accanto all’impubere testes inhabiles vi era anche il

testes suspectus, rappresentato da quei soggetti che non avevano

compiuto ancora venti anni, che, avendo una limitata capacità di testimonianza, dovevano essere valutati dal giudice circa il loro grado di affidabilità della deposizione.

Con l’avvento del sistema processualistico barbarico invece assistiamo all’instaurarsi di un modello di processo inquisitorio che porterà al mutamento di alcune regole del processo romano, essendoci un aumento

1 G. Pugliese, La prova nel processo romano classico, in Jus, 1960, p.408, a proposito

dell’incapacità ad essere teste, fa una sottile distinzione tra i testes agli atti solenni e i testes giudiziari e avverte come solo ai primi si riferiscano le disposizioni più antiche che escludevano dalla testimonianza, tra gli altri, gli impuberes. Cause di incapacità relative ai testi cd. giudiziari cominciarono ad essere introdotte nel periodo delle

quaestiones, anche se, probabilmente, quelle dovute alla pubertas avevano una

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9 delle norme legali sul valore della prova testimoniale, per natura del processo inquisitorio. In tale sistematica processualistica vi è una più forte impronta formalistica riflesso della volontà divina ordalica di quanto fosse in realtà presente nel modello romano in ossequio alla concordia deorum primordiale. L’estremo formalismo comportava che il sistema probatorio della testimonianza fosse posto tramite solenni affermazioni, ragion per cui l’incapacità del fanciullo a rendere testimonianza è legata all’inettitudine processuale di questo soggetto a prestare giuramento2. Questa macroscopica differenza di incapacità del minore non più legata all’incapacità a riferire e percepire con esattezza gli accadimenti, come nel processo romano, porterà ad un passo in avanti significativo nell’evoluzione della disciplina dell’incapacità della testimonianza, in quanto si passa da una esclusione dalla testimonianza per “incapacità naturale” ad una esclusione per “incapacità giuridica”.

2.1.1 Le dichiarazioni del minore, nello specifico la testimonianza, dalla legislazione pre-unitaria al codice del 1930.

Nella legislazione pre-unitaria, invece, si comincia a scorgere quello che sarà l’orientamento europeo riguardo a un generale superamento degli assiomi indimostrabili di talune prove legali, che avevano contraddistinto la ricerca del processo di mezzo, in favore di un meccanismo contraddistinto dal libero convincimento del giudice circa l’utilizzabilità di una determinata prova. Questo stato di cose generale si andò a riflettere, naturalmente, anche in seno a quelle che sono le dichiarazioni del minore che progressivamente verranno estromesse dalla logica della predeterminazione tipiche dello schema della prova legale, andando a indirizzarsi verso la logica del libero convincimento del giudice, tramite il quale tali dichiarazioni possono essere elevate al rango di prova.

2 V.A. CERRETTA, voce Giuramento nel diritto processuale penale, in Dig. Disc. Pen., vol. V, Torino, 1991.

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10 Questo processo di cambiamento fu certo progressivo e le legislazioni di fine XVIII e inizio XIX secolo negli Stati italiani lo dimostrano, avendo esse stesse dei residui degli assiomi riguardanti la prova legale, tipici del processo di mezzo. Il “Regolamento Galiziano” promulgato da Francesco II nel Regno Lombardo Veneto ne è un chiaro esempio: dato che il considerare assolutamente inabili ad assumere la veste di testimone gli impuberi di età inferiore ai 14 anni rappresenta una chiara incrostazione dell’assetto assiomatico della prova legale, seppur accompagnata allo stesso tempo dall’originale evoluzione dell’ammissione al giuramento e alla conseguente deposizione dell’impubere qualora la parte avversa vi avesse data apposita adesione a ciò3. Mentre altri Stati pre-unitari, quali nello specifico il Granducato

di Toscana e il Regno delle due Sicilie, non risolvevano la problematica delle dichiarazioni del minore nel processo penale in maniera esplicita ma badavano a risolverla di volta in volta sul caso concreto in via di interpretazione, tramite la giurisprudenza4, nel senso di una valutazione delle dichiarazioni del minore sulla base del libero convincimento del giudice.

In ogni caso questa impostazione implicitamente prevista all’interno dei processi penali degli Stati italiani pre-unitari era il frutto di una forte influenza che il diritto francese aveva all’interno di essi e più nello specifico del forte impatto e dell’ampia diffusione che ha avuto a seguito delle conquiste napoleoniche. Articolo di sicuro rilievo, nel discorso della testimonianza del minore è l’art. 79 del code d’instruction

3 Così prevedeva il par. 204 del “Regolamento Galiziano” promulgato nel 1796 nella

Galizia occidentale. Cfr., in questo senso, B. PELLEGRINI, Testimonio e voce

testimoniale, Torino, 1915, p. 1089.

4 Per una completa e critica esposizione della procedura penale toscana cfr. A.

ADEMOLLO, Il giudizio criminale in Toscana secondo la Riforma Leopoldina del 1838, Firenze, 1840, in particolare p. 191 ss. E 348 ss. Il quale, enunciando le regole e i principi di procedura penale dei giudizi criminali introdotti con il Motu proprio del 2 agosto 1838, commentava che «trattandosi di testimoni fanciulli», questi dovevano essere sentiti «per modo di dichiarazione senza prestazione del giuramento», spettando, poi, al giudice istruttore valutare «la fede dovuta a un deposto che l’imperfezione dell’età può dettare».

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criminelle, esso prevedeva una deroga al principio generale per il quale

tutti i testimoni erano sottoposti alla formalità di prestare giuramento; eccetto, appunto, i fanciulli al di sotto dei quindici anni i quali, tuttavia, dovevano essere sentiti par forme de declaration5.Nondimeno, poi, tali

dichiarazioni, pur se «non fatte sotto la fede di un giuramento», venivano considerate come elemento legale di decisione, spettando al giudice «il potere di apprezzarle sovranamente»6. Quindi il diritto napoleonico viene a rappresentare un vero e proprio punto di rottura con il passato processuale, fatto, come sappiamo, dei rigorosi ed assiomatici meccanismi della prova legale, introducendo la dinamica del libero convincimento del giudice, anche nella tematica della valutabilità al rango di prova delle semplici dichiarazioni del minore che non può prestare giuramento, «secondoché costoro si mostreranno più o meno atti a valutarne tutta l’importanza delle loro deposizioni»7.

E’ da questa base che prende ispirazione anche la legislazione sabauda che darà vita al codice di procedura criminale emanato da Carlo Alberto per gli Stati Sardi nel 1847 e soprattutto darà vita al primo codice di procedura penale d’Italia nel 1865, che introdusse con l’art. 258 la regola generale per cui ad ogni cittadino indistintamente era riconosciuta la capacità di deporre in un giudizio penale: fatta eccezione per chi aveva perduto la capacità di deporre in giudizio e il non aver compiuto quattordici anni. Qui la limitazione nei confronti del minore sembra dettata non tanto per la presunta minorata attitudine a percepire i fatti su cui dovrebbe deporre ma sull’incapacità di capire la solennità del momento e l’importanza del giuramento: tant’è che tale quattordicesimo anno si riferiva al momento della deposizione e non al momento in cui il minore aveva assistito ai fatti. Questo stato di cose sembra dunque un

5 Così F. HELIE, Trattato della istruzione criminale o teoria del codice di istruzione criminale, trad. ital., Palermo, vol. III, 1865, p. 473. Si v., altresì, C.G.A. MITTERMAIER, Teoria della prova, Milano, 1858., p.390.

6 Così F. HELIE, Op. cit., vol III, p. 473. 7 Cfr. F. HELIE, Op. e loc. ult. Cit.

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12 passo indietro rispetto a quanto previsto nel diritto francese nel periodo napoleonico, poiché il minore infra-quattordicenne che testimoniava, dovendo prestare giuramento per farlo, nel prestarlo causava la nullità della deposizione; quindi il minore di anni quattordici poteva essere ascoltato in giudizio per «semplici indicazioni o schiarimenti», spettando al giudice la facoltà di «farne elemento di sua convinzione insieme ad altre piene prove»8.

Successivamente, invece, con il codice di procedura penale del 1913 e con il successivo codice di procedura penale del 1930 vi è un ritorno a quell’idea di eliminazione della prova legale e dei suoi formalismi a favore della libera valutazione della prova da parte del giudice e a discapito delle presunzioni che inficiano l’utilizzabilità probatoria di certe dichiarazioni ai fini decisori. Tale superamento del sistema delle prove legali, in seno alla prova dichiarativa, si ha con la previsione della capacità per qualunque persona fisica ad essere teste, ragion per cui i minori di quattordici anni vengono semplicemente esonerati dal prestare giuramento, senza che questo venire meno del giuramento porti ad una limitazione del valore probatorio della testimonianza (come invece precedentemente previsto nel codice del 1865 nell’ art. 258), ma anzi possa esser parimenti valutata nel suo valore da una attenta, critica ma libera valutazione del giudice9. Quindi il minore di anni quattordici, pur avendo l’obbligo di dire la verità circa la sua testimonianza e essendo applicabili nei suoi confronti i provvedimenti previsti per la falsa testimonianza, è sottratto dall’istituto del giuramento poiché il soggetto viene ritenuto inidoneo a maturare «quella interiore consapevolezza» sulla quale il legislatore del 1930 aveva fatto leva per rafforzare le

8 «Non ut probent, saltem ut prosint ad veritatem», ed in tal caso non prestavano

giuramento (art. 258). V.P. TUOZZI, Principi del procedimento penale italiano, Napoli,

1909. Nel senso che le deposizioni del minore di quattordici anni debbano essere

considerate alla stregua di semplici «indicazioni e non di prove», dovendosi da queste trarre «argomento per intraprendere indagini»: C. CIVOLI, Procedura penale, Milano, 1904, p. 271.

9 Così C. PANSINI, le dichiarazioni del minore nel processo penale, Padova, 2001, pag.

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13 garanzie di veridicità delle deposizioni (per tutti gli altri soggetti fisici)10. Questo cambiamento delle cose è dovuto alla rinnovata mentalità giuspositivista di inizio XX secolo e ad un maggiore collaborazione multi-disciplinare tra gli studiosi di varie branche della scienza che permettono di dare risposte più puntali e precise circa il perenne interrogativo intorno all’attendibilità o meno della deposizione dei minori. Sicché, la valutazione dell’immaturità fisiologica e morale – tra le quali si riteneva oscillasse la cognizione della verità nella mente del fanciullo11- divenne prodromico parametro del convincimento del giudice in ordine alla attendibilità delle deposizioni dei minori12 13. Fu proprio questa nuova direzione presa dal diritto all’interno del processo, che decise di abbandonare i formalismi dogmatici fatti di astrusi assiomi tipici del modello della prova legale per abbracciare nuove visioni provenienti da differenti scienze al di fuori di essa, che si venne a creare il vero e proprio germe di quella che sarà la categoria dei soggetti vulnerabili, poiché tale vulnerabilità viene ad avere connotati afferenti la psiche dell’individuo ed il diritto senza l’ausilio delle scienze che studiano la mente dell’uomo non avrebbe potuto capire la complessità del fenomeno. In sostanza da questa fase in poi si comincia a concepire il minore quale soggetto vulnerabile, dal momento in cui ci si inizia ad interrogare sulla validità delle sue dichiarazioni e di conseguenza sulla fragilità della sua psiche.

10Così M. PISANI, voce Giuramento, in Noviss. Dig. It., vol. VII, Torino, 1961, p. 961. 11 G. DONA’, La testimonianza nel fatto comune, Torino, 1923, p. 50.

12 Così C. PANSINI, le dichiarazioni del minore nel processo penale, Padova, 2001,

pag.18.

13Relativamente ai risultati degli studi psicologici sull’esame del minore nel processo

penale cfr. V.A. BERARDI; G. DONA’. Dei suggerimenti in ordine alla metodologia dell’esame del minore si trovano solo in: A. SACERDOTE, Sull’attendibilità delle

testimonianze dei fanciulli nei processi per reati sessuali, in Scuola pos., 1959, p. 440

che, tuttavia, conclude ammonendo i giudici di tener sempre presente, nel valutare la testimonianza dei fanciulli, quanto scrisse il RENAN che il «più grande errore della giustizia è di credere nelle testimonianze dei fanciulli»

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2.1.2 Il punto di arrivo nel XX secolo, il minore come dichiarante “vulnerabile”.

A seguito dell’evoluzione della disciplina delle dichiarazioni poste dal minore si è assistito ad una maturazione di pensiero che ha portato il minore a non essere solamente oggetto di definizione riguardo il suo ruolo nel processo ma anche ad esser inteso come soggetto peculiare che data la sua fragilità necessita di particolare misure, anche all’interno del processo. Il problema nel corso del XX secolo si è spostato dalla salvaguardia del processo dalle dichiarazioni del minore, potenzialmente inattendibili, alla salvaguardia del minore rispetto ai meccanismi del processo, potenzialmente lesivi della sua fragilità e quindi si è andato a confrontare con la necessaria tutela richiesta per quello che andrà a definirsi come soggetto vulnerabile, appunto il minore.

Tale evoluzione epocale è giunta, come premesso, in maniera graduale:

in primis tramite le convenzioni internazionali, siano state esse

programmatiche oppure precettive, e in un secondo momento, in maniera più matura, tramite la Costituzione: da tali fonti sono poi discese le norme di rango primario andate a formalizzarsi in quello che è l’attuale codice di procedura penale, nel 1988. E’ appunto stabilito all’interno della legge delega 16 febbraio 1987 n. 81 (per l’emanazione del nuovo codice di procedure penale), nello specifico all’art. 2, che il legislatore debba operare nella redazione del codice attuando i principi della Costituzione e adeguandosi alle norme delle convenzioni internazionali, ratificate dall’Italia, relative ai diritti della persona e al processo penale.

Elementi di partenza per l’individuazione della figura del minore quale soggetto meritevole di tutela sono ravvisabili inizialmente negli accordi internazionali: in questo senso la Convenzione di Ginevra del 1924, inserendo il riconoscimento del diritto al bambino alla propria integrità

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15 fisica ed a un processo formativo normale, introduceva uno speciale regime di protezione per il fanciullo e di conseguenza ne enuclea la sua fragilità14. Erede spirituale della Convenzione di Ginevra del 1924 sarà poi, sul tema, la Dichiarazione dei diritti del fanciullo15.

Questa nuova realtà di diritti previsti esclusivamente per il minore troverà, in ambito internazionale, la sua esternalizzazione all’interno dei meccanismi processuali tramite le cosiddette Regole di Pechino, poste in essere nel VII congresso ONU nel 29 novembre 1985: dove veniva esplicato come obiettivo della giustizia minorile il riconoscimento della «tutela del giovane», che doveva essere raggiunto tramite un potere discrezionale ma responsabile degli Organi Giudiziari (per poter meglio considerare le specifiche esigenze del minore), tramite particolari garanzie procedurali e attraverso un “primo contatto” tra il giovane e gli organi dell’amministrazione giudiziaria il meno traumatico possibile. In seguito troverà adeguamenti ed aggiunte, tale stato di cose, in ulteriori convenzioni internazionali successive come la Convenzione di Lanzarote che tratterà lo specifico tema delle garanzie processuali nei confronti del minore coinvolto in reati sessuali. Quindi possiamo dire che il sistema di regole processuali previste per il minore come soggetto vulnerabile operi sia se esso è imputato del processo, sia se esso è persona offesa o terzo informato e quindi più in generale vanno ad essere dirette alle dichiarazioni del minore, in quanto soggetto vulnerabile, tout

court. «Cosicché, la ineliminabile valutazione della personalità del

minore, la preoccupazione di non pregiudicare la sua crescita psichica e il suo futuro nel sociale – che devono dirigere i comportamenti del giudice -, la necessità di una adeguata preparazione professionale per gli interlocutori del minore, sono tutti corollari del principio di necessaria tutela del supremo interesse del minore che diffusamente emerge dagli

14 Ampiamente in A.C. MORO, il bambino è un cittadino, Milano, 1991.

15 Approvata dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite con Risoluzione 1386-XIV

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16 atti e dichiarazioni internazionali»16, pur dovendo essere valutati anche altre esigenze processuali con tale principio confliggenti.

Parallelamente alle convenzioni internazionali un ruolo di primo piano nella definizione dei diritti del minore, che come abbiamo visto hanno poi generato quelle particolari necessità processuali atte a non ledere la sua vulnerabilità e quindi hanno funzionato da antecedente logico necessario per la creazione di una normativa ad hoc per il dichiarante vulnerabile, è stato quello esplicato dalla nostra carta costituzionale. Infatti la Costituzione ha affrontato in maniera, per molti aspetti, originale ed innovativa la tematica aperta dalla creazione di diritti specifici per i minori: come nella previsione del diritto a maturare ed esplicare la propria personalità, del diritto all’eguaglianza sostanziale pur nel rispetto della propria diversità, o ancora verso il diritto ad un’educazione che tenga conto delle inclinazioni del minore e verso una generica protezione dell’infanzia posta tramite appositi istituti. D’altronde la Costituzione ha introdotto ufficialmente quel superamento dello Stato modello ottocentesco, in cui l’ente statale era superiore alle necessità delle persone, portando invece una logica di Stato funzionale alla necessità di tutela delle singole persone. Questa dimensione costituzionale però in molti campi non era armonica con la normativa primaria, proveniente invece, in molti casi, da un passato che contemplava una differente visione: questo veniva a verificarsi anche nel campo del processo e nello specifico per la nostra indagine nel campo del processo riguardante il minore. Infatti né la normativa degli anni trenta che accoglieva un generale favor nei confronti del processo che coinvolgeva il minore, non del tutto allineato con la necessità di salvaguardia più concreta e specifica dei diritti del minore in ambito processuale, né la normativa successiva, per molti versi disomogenea a riguardo (finché non si è arrivati ad adottare il codice di rito nel 1989),

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17 non riusciva a garantire di per sé i principi costituzionali17 che andavano a formare quei diritti previsti appositamente per i minori. Organo imprescindibile per il reale svolgimento delle tutele nei confronti del soggetto vulnerabile è stato dunque la Corte Costituzionale, che con le sue pronunce è stata un punto di riferimento circa la via da seguire per essere in linea con il dettato costituzionale. Tale suo ruolo è stato svolto con l’emissione di pronunce atte ad armonizzare il processo riguardante minori con la Costituzione stessa: ricordiamo qui tra le altre la pronuncia che ha posto come elemento prioritario del processo nei confronti del minore il suo recupero rispetto alla pretesa punitiva18; la pronuncia che ha derogato alla necessaria pubblicità del dibattimento, dato l’interesse pubblico, onde preservare la tutela della gioventù19; o ancora la

pronuncia che ha dichiarato illegittima la norma che distraeva dalla competenza del tribunale minorile il processo in cui il minore era coimputato con un maggiorenne, pronuncia che quindi ha ritenuto la tutela del minore più rilevante rispetto all’interesse di evitare un conflitto tra giudicati20.

In sintesi possiamo dire che il lavoro della Corte Costituzionale è stato essenziale e naturalmente preso in alta considerazione nella successiva redazione del codice di procedura del 1988 che ha tentato di dare una forma più univoca alla disciplina prevista per il dichiarante vulnerabile e che andremo ad analizzare nel prosieguo della trattazione. Per ora bisogna aggiungere che dal codice di rito viene ad emergere sì una rafforzata tutela del minore nel processo ma allo stesso tempo essa è accompagnata da una maggiore responsabilizzazione dello stesso,

17 art. 3, secondo comma, della Costituzione, il quale, nell’affermare il principio di

eguaglianza sostanziale, stabilisce che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». L’art. 31, il cui secondo comma pone il principio in virtù del quale la Repubblica «protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo».

18 Corte cost, 28 luglio 1983, n. 222, in Giur. Cost. 1983 p. 1319 19 Corte cost. 10 febbraio 1981, n. 16, in Giur. Cost. 1981, I, p.83

20 Corte cost. 28 luglio 1984 n. 222, p- 1319, nella parte in cui ha dichiarato illegittimo

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18 affinché il minore possa capire il significato del processo, ma pur sempre inquadrata nella logica di riduzione al minimo di “ogni stimolazione negativa” che possa derivargli dal suo contatto con l’apparato giudiziario.

2.2 L’infermo di mente, dichiarante vulnerabile molto spesso “soggetto dimenticato”.

L’infermo di mente è stato nel recente passato un soggetto escluso dalla specifica disciplina prevista per il dichiarante vulnerabile posta dal codice di rito, seppur la sua natura di infermità mentale ben si abbinerebbe ad una simile necessità di tutela. Più dettagliatamente l’infermità, come l’età, risulta essere una caratteristica soggettivamente rilevante, tant’è che con i successivi ampliamenti della disciplina applicata al dichiarante vulnerabile anche all’infermo di mente maggiorenne ci si è solitamente riferiti al minorenne e contemporaneamente al maggiorenne infermo come parte dello stesso fenomeno, andando a configurarsi come un unicum, mentre nei maggiorenni tout court l’esistenza della situazione di vulnerabilità deve essere rapportata, per forza di cose, al caso concreto (non essendoci caratteri presuntivi di vulnerabilità). Ma cosa si intende con l’espressione: “l’infermo di mente, soggetto debole dimenticato”? Si intende che il riconoscimento della debolezza dell’infermo maggiorenne e la sua conseguente protezione “dal processo” è stata omessa dal codice di rito e solamente una successiva sentenza della Corte Costituzionale ha aperto la strada a tale riconoscimento.

La sentenza della Corte cost. n. 283/1997, che sancisce l’illegittimità dell’art. 498, comma 4, c.p.p. nella parte in cui non consente che il presidente conduca direttamente l’esame del testimone maggiorenne infermo di mente, su domande e contestazioni proposte dalle parti, rappresenta, in questo senso il primo riconoscimento dell’infermo

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19 maggiorenne quale soggetto vulnerabile nel processo21. Successivamente, affinché nella pratica si potessero instaurare le stesse dinamiche processuali inerenti alla testimonianza previste per il minore, è intervenuta la sentenza d’illegittimità n. 63/2005, che estende i limiti soggettivi delle modalità di audizione protetta − originariamente introdotte per i soli minori di sedici anni nell’incidente probatorio − ai maggiorenni infermi di mente, testimoni o vittime di reato22. Con tale pronuncia, viene dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 398, comma 5-bis, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice possa disporre l’assunzione della prova con le tecniche ivi previste, quando fra le persone interessate ad essa vi sia un maggiorenne infermo di mente e le esigenze di questi lo rendano necessario od opportuno. La declaratoria d’illegittimità costituzionale investe, altresì, l’art. 498, comma 4-ter, c.p.p., nella parte in cui non prevede che l’esame dibattimentale del maggiorenne infermo di mente vittima del reato sia effettuato, su richiesta sua o del difensore, mediante l’uso di un vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico interno23.

Quindi, appare chiaro che si è corretta una irrazionale diversificazione di trattamento tra due tipologie di soggetti, il minorenne e l’infermo di mente maggiorenne, egualmente bisognosi di protezione dai meccanismi del processo, poiché egualmente vulnerabili. Lo si è fatto correggendo la posizione dell’infermo nel processo, nel momento in cui esso è offeso e/o testimone, ponendo l’acquisizione della prova testimoniale dell’infermo di mente dichiarante all’interno di quella che

21 Corte cost., 30 luglio 1997, n. 283, in Giur. cost., 1997, p. 2564 ss., con note di G. Di

Chiara, Testimonianza dei “soggetti deboli” e limiti all’esame incrociato, p. 2569 ss., di L. Scomparin, Infermità di mente e testimonianza dibattimentale, p. 2989 ss., e di L. Muzzioli, La sentenza n. 283 del 1997: un caso di «analogia» e non di «omogeneità»; ambiguità della distinzione e sue conseguenze, p. 2998 ss.

22Corte cost., 29 gennaio 2005, n. 63, in Cass. pen., 2006, p. 445, con nota di A.

Famiglietti, Minori, infermi di mente e modalità di audizione protetta: equiparazione

di soggetti deboli nel processo penale, e in Dir. e giustizia, 2005, n. 10, p. 54 ss., con il

commento di M. Minniti e F. Minniti, p. 52.

23 A. FAMIGLIETTI, Persona offesa e modalità di audizione protetta: verso lo statuto del testimone vulnerabile. P. 144.

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20 è la disciplina prevista per il dichiarante minore, prediligendo quindi la tutela della personalità dello stesso alle ordinarie modalità di acquisizione: modellando, così, tali modalità sulle peculiari esigenze del vulnerabile.

2.3 Dalla riscoperta della vittima alla super-vittima quale nuovo dichiarante vulnerabile nel processo.

La vittima all’interno del processo penale non ha mai avuto, storicamente parlando, un ruolo rilevante: poiché a priori non vi era un riconoscimento di importanza alla matrice emotiva del soggetto offeso nella scienza penale, che badava esclusivamente a configurare un sistema di repressione dei reati basato sulla mera considerazione dell’agente, tralasciando, quindi, le dinamiche più prettamente afferenti la sfera del soggetto che subisce la condotta illecita. E’ solo nel recente passato che, invece, vi è un riconoscimento delle sofferenze della vittima sul piano giuridico e ciò si è andato a tradurre verso appositi meccanismi creati all’interno del processo per permettere la partecipazione della vittima allo stesso in maniera più incisiva.

Tale riscoperta del ruolo della vittima all’interno della giustizia penale si ha, in Europa, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale con il processo di Norimberga in cui imputati sono i criminali di guerra nazisti, mentre le persone offese sono intere etnie o categorie di minoranze che hanno subito l’olocausto. In questa nuova dimensione proiettata dal processo di Norimberga fu sicuramente più facile poter dare ai soggetti offesi il ruolo vero e proprio di vittima, in quanto la loro sofferenza si rese tangibile e si concretizzò in maniera estremamente fisica agli occhi del mondo. Si capì quindi che il processo non doveva essere rivolto solamente ed esclusivamente alla ricerca della punizione nei confronti del carnefice, bensì esso doveva assumere contorni più pregnanti anche per la tutela degli interessi della vittima e proprio per

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21 questo, la vittima in questione, non può rimanere ai margini del processo ma deve avere un ruolo centrale nello stesso. Tale intuizione però tardò a concretizzarsi nella giustizia penale occidentale, tant’è che altri eventi, quali le lotte culturali, furono a loro volta essenziali per produrre un cambiamento circa la reale considerazione della vittima all’interno del processo. Tali lotte, quali quella del femminismo o ancora quella dell’antirazzismo, che videro il loro acme negli anni 60/70 del XX secolo, furono legate alla richiesta di diritti civili che lo Stato di fatto negava: quindi in questi casi le vittime di tali reati odiosi erano vittime dello Stato che si ritrovava ad esser carnefice; dato questo che rese necessaria una razionalizzazione, a seguito del riconoscimento di tali diritti e dell’azione vittoriosa di tali lotte, del sistema giustizia e più nello specifico del processo penale, di modo che si potesse venir a creare un processo, appunto, più attento alle esigenze dell’offeso, che poteva essere vittimizzato, in caso contrario, anche dal sistema giustizia promanante dall’ordinamento statale.

Questa salvaguardia della vittima viene ad essere posta da una diversificata azione normativa che a seconda degli Stati fu più o meno imponente ma di certo non fu molto armonica all’interno della tradizione giuridica occidentale. C’è da dire, però, che essa tendeva a due direttrici comuni: «Favorire la vittima nell’accesso alla giustizia, offrendole supporto legale e materiale nel corso delle indagini e del processo; riconoscere alla vittima un ruolo effettivo nella risoluzione del conflitto sociale che spesso sta alla base di alcune fattispecie criminose»24. Con il tempo, soprattutto grazie al diritto europeo, si è andati verso una sempre più imponente armonizzazione cha ha posto gli assetti normativi di entrambe le direttrici verso una più uniforme dimensione e ha garantito che Stati europei, meno attenti alla rilevanza della vittima all’interno del processo25, si potessero innalzare ad un

24 S. ALLEGREZZA, Lo scudo e la spada, Torino, 2012 pag. 3.

25 Quali l’Italia, che si è sempre mostrata in fondo alla classifica, in Europa, per quanto

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22 contesto più maturo riguardo la concezione della vittima all’interno del processo penale, non solamente basato su astratti concetti “fissati su carta”.

Ritornando allo specifico argomento della vittima “vulnerabile”, possiamo dire che questa categoria viene a prendere forma, principalmente, proprio tramite il diritto sovranazionale di matrice europea e rappresenta sicuramente il punto più maturo dell’intera questione riguardante il genus vittima del reato. Infatti quando parliamo di vittima vulnerabile parliamo di un soggetto che deve essere appositamente individuato tra le vittime del reato e come tale va a costituire una species del più ampio genus della vittima. Una volta individuato il soggetto come componente di tale species, ad esso si va ad applicare la più pregnante e specifica disciplina applicabile al dichiarante vulnerabile all’interno del processo.

Abbiamo, dunque, una tutela personalizzata cucita sul soggetto vulnerabile vittima che deve tenere in debito delle specifiche caratteristiche del soggetto leso per considerarlo in quanto tale: l’individualizzazione della tutela si può avere in presenza di determinati criteri, definiti dalle direttive europee. Essi sono a) le caratteristiche personali della vittima; b) il tipo o la natura del reato; e c) le circostanze del reato26. Questa nuova concezione ha creato la categoria delle cosiddette “supervittime”, nella quale naturalmente sono entrati a far parte anche soggetti già parzialmente tutelati dal processo, circa l’apprensione delle loro dichiarazioni, i minorenni e gli infermi di mente; ma a questi si sono aggiunti altri soggetti precedentemente non considerati vulnerabili e quindi non tutelati dal processo. In sostanza l’introduzione dei criteri di identificazione delle “supervittime” ha

appositi che potessero fornire tale servizio; ed ha sempre mostrato ritrosia a porre l’offeso come terzo soggetto del processo penale, data la sua non essenzialità: non avendo questo facoltà di esercizio dell’azione penale.

26 AA.VV. (a cura di L. LUPARIA), Lo Statuto europeo delle vittime del reato, Milano,

2015, contributo a di S. ALLEGREZZA, Il ruolo della vittima nella direttiva 2012/29/UE, pag. 18.

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23 portato ad un ampliamento dei dichiaranti vulnerabili, specificatamente vittime, non sempre facilmente ed agevolmente individuabili.

2.3.1 Le super-vittime.

Dunque è proprio grazie alle fonti internazionali provenienti sia dalla grande Europa (Consiglio d’Europa), che dalla piccola Europa (Unione Europea), che si arriva all’identificazione di nuovi diritti processuali spettanti alle vittime e oltre questi si arriva ad ancora più specifici diritti processuali spettanti alle vittime vulnerabili, le supervittime. Sicuramente per quest’ultimo aspetto un ruolo di maggiore importanza lo ha svolto l’Unione Europea con la direttiva 2012/29/UE che «istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione

delle vittime di reato», poi recepita con Decreto Legislativo 15 dicembre

2015, n. 212 dal nostro ordinamento nazionale e che è andata ad integrare, potenziandoli, i diritti che sulla stessa tematica erano stati introdotti dalla precedente decisione quadro 2001/220/GAI.

La direttiva in questione è stata l’atto che, tra le altre cose, ha anche ufficialmente inserito quella che è la figura della supervittima, una vittima vulnerabile non più racchiusa all’interno della figura del minorenne o del maggiorenne infermo di mente, bensì una vittima vulnerabile che valica i confini precedentemente concepiti dal nostro ordinamento e si allarga anche ad eventuali vittime vulnerabili maggiorenni. E’ stato quell’atto, dunque, che si è prefissato la considerazione della vittima in quanto vulnerabile non su modelli presuntivi bensì su una considerazione della stessa su base personalistica: la strada posta dall’Europa tramite questa direttiva è una strada che esclude il ricorso a meccanismi ciecamente automatici o presuntivi, indirizzandosi verso l’individuazione e valorizzazione delle specificità della vittima. Certo, in questo discorso potrebbe fare difetto il fatto che il minorenne sia per definizione accertabile come vittima

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24 vulnerabile visto che il dato che lo pone nella schiera della supervittime, l’età, è un dato rilevabile in maniera automatica, senza necessità di ulteriori indagini; in realtà anche il minore, seppur intrinsecamente vulnerabile, «deve comunque essere sottoposto ad un’analisi individuale che ne individui le caratteristiche specifiche e ne tari la “debolezza” anche con riferimento al percorso processuale che dovrà affrontare.»27. Appare evidente, da queste premesse, che l’approccio generale del legislatore europeo è quello di una ricerca della vittima vulnerabile che si basa sulla flessibilità propria del case by case giudiziale, capace di assicurare alla vittima una tutela effettiva, calibrandola sulle specifiche esigenze della singola vicenda giudiziaria28. Infatti il precedente approccio fatto dalla predisposizione di cataloghi comprendente i soggetti vulnerabili, aveva fallito. Questo fallimento era stato evidenziato dalla continua necessità di aggiornamenti del catalogo in questione ogni volta che il caso in concreto lo richiedeva, essendo il soggetto coinvolto nel processo non catalogato come vulnerabile ma ritenendolo tale le circostanze, onde rispettare i principi costituzionali e sovranazionali. Il caso “Pupino” è una vicenda che ha molto da insegnare a riguardo29, o ancora la pronuncia della Corte Costituzionale n.63/2005 precedentemente trattata, insomma quella giurisprudenza avente l’obiettivo dell’allargamento di suddetti cataloghi. E d’altronde le lacune codicistiche che inevitabilmente venivano ad aprirsi nella considerazione dei casi concreti, riguardanti soggetti che seppur non

27 S. Recchione, La prova dichiarativa del minore: formazione e valutazione, Torino,

2015.

28 F. Cassibba, Oltre Lanzarote: la frastagliata classificazione dei dichiaranti vulnerabili, 2014, www.penalecontemporaneo.it, 2014, pag.3

29 Nel caso in questione la signora Pupino era una insegnante di asilo che aveva commesso il reato di abuso di mezzi correzionali nei confronti di bambini di 5-6 anni. Il p.m., in attuazione della suddetta decisione quadro, richiedeva l'incidente probatorio, a norma degli artt. 392 ss., ritenendo i minori meritevoli di tutela. I casi nei quali può essere richiesto l'incidente probatorio sono tassativamente quelli previsti dall'art. 392: nel comma 1 bis viene ammessa tale richiesta in caso di reati di violenza sessuale aventi come vittime minori, ma non è previsto il caso in questione. La corte di giustizia, adita dal G.I.P. del procedimento, afferma l'obbligo degli organi statali di interpretare le disposizioni nazionali, conformemente a quelle comunitarie.

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25 ritenuti vulnerabili “sulla carta” affrontavano comunque il possibile danno da “vittimizzazione secondaria”, non potevano essere colmate dal giudice: dato il principio di legalità processuale che non gli potrebbe permettere di adeguare in via analogica determinate norme che vanno a comprimere, in malam partem, i diritti processuali, costituzionalmente garantiti, di una delle parti del processo.

Sulla scorta di tali considerazioni «sembra si possa definire la vittima vulnerabile come quella che, per le sue caratteristiche soggettive o per la natura o le circostanze del reato, risulta esposta a un concreto pericolo di vittimizzazione secondaria o ripetuta», ma pur, per la determinazione della vulnerabilità di una vittima, «si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile a criminalità organizzata, terrorismo o tratta degli esseri umani, se ha finalità di discriminazione e se la vittima è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato.»30. Questo pone l’individuazione della vittima vulnerabile sul duplice piano dell’esistenza o di un requisito soggettivo oppure oggettivo o di entrambi per poter di conseguenza considerare il soggetto offeso implicato nel processo quale vulnerabile e poter più agevolmente modulare la risposta alla personalizzazione, basata su tale concezione “on the case”, dell’esistenza o meno nel processo di una vittima vulnerabile: stante pur sempre l’extrema ratio della comunque presente possibilità di “vittimizzazione secondaria”, a prescindere, che assurge in definitiva a vero e proprio parametro di definizione della vulnerabilità: la quale va intesa come fragilità rispetto ai pericoli che derivano dal procedimento penale, dai suoi dispositivi e dai soggetti che vi sono coinvolti31.

In sintesi quella della vittima vulnerabile appare ormai,oggi, una categoria non categoria, poiché aperta all’introduzione di molteplici

30 Art. 90 CPP quater: condizioni di particolari vulnerabilità.

31 M. Gialuz, Lo scudo e la spada, Lo statuto europeo delle vittime vulnerabili, Torino,

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26 soggetti, anche maggiorenni, considerati vulnerabili nelle dinamiche del caso concreto e quindi assoggettabili alla peculiare disciplina del dichiarante vulnerabile qualora le loro dichiarazioni debbano essere assunte come mezzo di prova.

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27

3 LE FONTI RIGUARDANTI IL DICHIARANTE

VULNERABILE

Introduzione

Dunque tale termine “vulnerabile” appare ormai come termine ambiguo, poiché, almeno ab origine, sembrava riferirsi allo stato in cui veniva a trovarsi il minore nel momento in cui doveva rilasciare dichiarazioni processualmente rilevanti, a prescindere del suo essere mero testimone o anche allo stesso tempo vittima; mentre in un secondo momento è sembrato riferirsi esclusivamente alla vittima, anche maggiorenne, che, appunto, si viene a trovare in uno stato di particolare vulnerabilità quando si ritrova a dover lasciare dichiarazioni all’interno del processo. Nella materia giuridica il termine “vulnerabile” lo troviamo ad esempio all’interno della Convenzione di Lanzarote del 2007, e più nello specifico viene riportata la dicitura: “particolarmente vulnerabili”. Seppur il concetto espresso con la dizione “particolarmente vulnerabili” non viene definito in maniera puntuale nella sua dimensione concettuale, è pur chiaro che i soggetti “particolarmente vulnerabili” sono le vittime, in questo caso minori che hanno subito violenze sessuali, e non i testimoni, intrinsecamente vulnerabili, quali appunto i minori a prescindere dall’essere vittima, coinvolti nel processo penale32:

quindi tale ufficialità non dovrebbe lasciare dubbi sul fatto che il vulnerabile sia per forza di cose vittima.

In realtà così non sembra essere, infatti nonostante non vi sia una vera e propria definizione esposta nella Convenzione del 2007, l’uso del rafforzativo “particolarmente” sembrerebbe portare alla creazione di un soggetto, vittima, necessitante di ancor più tutela rispetto al semplice

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28 dichiarante vulnerabile, non vittima, racchiudile nella figura del minore

tout court. D’altronde tale termine, “vulnerabile”, risulta ampiamente

preso in prestito dalla letteratura scientifica non giuridica, ma più propriamente riguardante il settore che studia la psiche umana, scienza che definisce il minorenne quale soggetto intrinsecamente vulnerabile, anzi uno dei più vulnerabili tra quelli considerati tali dalla letteratura scientifica33. Non solo la letteratura scientifica, ma anche la prassi giudiziaria dimostrano che la vulnerabilità del minore in quanto tale viene a riprodursi su un duplice piano all’interno del processo: da un lato la necessità di rievocare e di ricordare in una condizione di particolare stress indotta dal fattore ambientale dell’aula del tribunale, carico di esacerbante tensione, dall’altro il riportare alla memoria e quindi il rivivere determinate scene viste o vissute, quando si è anche vittima, sulla propria pelle. Queste situazioni possono portare a conseguenze imprevedibili sulla psiche del minore: il cosiddetto trauma da processo, che genera la “vittimizzazione secondaria”.

Quindi, seppure, soprattutto in ambito sovranazionale e di conseguenza all’interno del nostro ordinamento, la questione della vulnerabilità sembra essersi spostata nella considerazione della particolare vulnerabilità di certe vittime, anche maggiorenni, che abbiamo definito precedentemente supervittime, in realtà non si deve dimenticare di comprendere nei soggetti vulnerabili anche i minorenni e gli infermi di mente, ad essi equiparati, anche se non offesi, qualora essi si vengano a ritrovare in ingranaggi processuali che possano ledere la loro integrità psichica, ivi compresi quelli riguardanti, appunto, le modalità di escussione della loro testimonianza. In sostanza sono vulnerabili anche i soggetti che tradizionalmente, nel codice di rito, venivano definiti semplicemente come dichiaranti deboli: ragion per cui il dichiarante debole coincide con la figura del vulnerabile, ma il vulnerabile non

33 S. Aceto, L’audizione del minore nel processo penale, Giappichelli, Torino, 2016,

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29 coincide per forza di cose con il dichiarante debole. Tant’è, infatti, che la donna quando si trova ad essere vittima particolarmente vulnerabile non lo è per la sua intrinseca debolezza ma lo è per la circostanza della violenza che l’ha resa vulnerabile, non essendo la donna, al contrario del minore, per sua natura debole: così come traspare dalla Convenzione di Istanbul del 2012. In definitiva non vi è un rapporto osmotico tra l’essere vittima particolarmente vulnerabile e l’essere soggetto debole, dato che le due cose potrebbero non venirsi a verificare contemporaneamente, ma al contrario vi è un rapporto simbiotico tra l’essere debole e vulnerabile. Questo stato di cose sul piano della normativa, nazionale e internazionale, riguardante il dichiarante vulnerabile, origina una tipologia di tutela che potremo definire fatta di cerchi concentrici, dove nel punto più esterno viene ad essere posto il dichiarante vulnerabile non offeso, mentre andando verso il centro abbiamo la presenza di una tutela più pregnante e consistente per la vittima particolarmente vulnerabile. Sul piano delle fonti ciò si traduce nella presenza di un mosaico di difficile composizione, che proprio per tale sua caratteristica necessita di uno studio delle fonti che possa sommariamente abbracciare anche le origini della formazione della “categoria” del soggetto vulnerabile e dunque un’analisi che almeno apparentemente potrebbe sembrare volersi allontanare dalla specifica disciplina del dichiarante vulnerabile, ma che, proprio per capirne la sua eziologia, si affaccia sugli archetipi normativi che stanno alla base di tale disciplina concentrica. D’altronde tale modalità di trattazione delle fonti si rende necessaria anche perché nella recentissima novella del 2015, che si sarebbe potuta porre l’ambizioso progetto di unificare la disciplina, ci si è limitati a strutturare un corpus organico, in materia di dichiarante vulnerabile, riguardante i parametri su cui fondare il giudizio di vulnerabilità della sola vittima. Non ci si è spinti invece, ad introdurre un vero e proprio statuto del

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30 soggetto vulnerabile: dove tra i soggetti vulnerabili sarebbe potuto essere ricompreso espressamente anche il mero testimone debole34.

3.1 Il primo nucleo di fonti internazionali riguardanti il minore: la vulnerabilita’ delle sue dichiarazioni.

Prima di arrivare al concetto di dichiarante vulnerabile come attualmente sviluppato, comprensivo di soggetti determinabili come vulnerabili in considerazione del caso singolo, vi era l’idea che l’unico soggetto vulnerabile dovesse essere il minore, in quanto soggetto debole. Tale stato di cose, del riconoscimento e della creazione di diritti nei confronti del minore che era perlopiù soggetto passivo, venne a crearsi alla fine della prima guerra mondiale, in quel clima di necessità di rinascita a seguito della catastrofe (rinascita anche giuridica), momento in cui si iniziarono a porre le basi per il diritto internazionale contemporaneo. Infatti furono proprio le fonti internazionali a porre attenzione sulla categoria dei minori35: quali soggetti che necessitavano di peculiari riconoscimenti in virtù della loro debolezza. Da quelle basi ci si mosse andando verso contesti normativi più maturi che garantirono l’introduzione nel processo di particolari meccanismi, derogatori rispetto ai procedimenti previsti in generale per tutti gli altri soggetti del processo, in grado di potersi adattare alle specificità ormai riconosciute al minore, soprattutto in ambito delle dichiarazioni rilasciate dallo stesso all’interno del processo.

Questa prima fase di normazione sovranazionale, che interessò il periodo intercorrente dagli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale fino ad arrivare agli anni ‘80, può essere considerata

34 S. Aceto, Op. Cit.

35 Quali La Convenzione sull’età minima del 1919 e La Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1924.

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31 quale periodo riguardante l’introduzione del primo vero e proprio nucleo attinente alla figura del dichiarante debole minorenne; naturalmente, essendo gli anni di differenza, tra inizio di questa fase e fine della stessa molti, all’interno dello stesso nucleo la progressione dei diritti e delle conquiste succedutesi nel tempo è molto variegata. Però la suggestione che vuole le fonti internazionali (che si andrà a trattare) legate da un unico fil rouge è data dal fatto che esse sembrano far parte di un unico sillogismo in cui la premessa iniziale abbia portato al predicato maggiore conclusivo. Infatti se le prime convenzioni internazionali hanno mirato all’introduzione di una capacità a testimoniare del minore pur nella diffidenza delle sue dichiarazioni, in quanto proveniente da un soggetto a livello psichico non maturo, le successive convenzioni poste negli anni 80 sono arrivate a sviluppare ulteriormente tali fonti iniziali introducendo nel processo principi a garanzia del minore dichiarante, che sono in linea con la necessità di garantire il processo rispetto a tale dichiarazioni, tendenzialmente poco attendibili o comunque sommariamente valutabili. Anzi la prima finalità di garanzia del minore dal processo sembra soggiacere alla seconda, la garanzia del processo dalle dichiarazioni dello stesso prevale sulla tutela del minore. Proprio per questo il primo nucleo di fonti internazionali che andremo ad analizzare sembra riferirsi alla vulnerabilità delle dichiarazioni del minore nel processo penale e non, più propriamente, alle dichiarazioni del minore in quanto vulnerabile, che riguardano invece il secondo nucleo di fonti internazionali.

Il primo atto internazionale, che inizia a dotare il minore di diritti peculiari, è in assoluto La Convenzione sull’età minima, adottata dalla Conferenza internazionale del lavoro nel 1919: tale atto, dotando il minore di diritti minimi in ambito lavorativo è quello che crea, per la prima volta, i diritti legati all’infanzia e che quindi inizia a porre le basi per il riconoscimento della soggettività del minore dinnanzi al diritto.

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32 Successivamente, invece, il primo atto internazionale che affronta la problematica del riconoscimento di una tutela del minore in quanto tale è la Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 24 settembre 1924, proclamata a Ginevra dalla Società delle Nazioni. In tale documento il minore diventa titolare di diritti passivi miranti alla salvaguardia e allo sviluppo futuro della sua personalità: questi diritti sono perlopiù mossi da intenti idealistici che pragmatici, non venendo stabiliti obblighi di riconoscimento, dei diritti, ai singoli Stati; bensì venendo chiamata in causa l’intera umanità affinché protegga i minori. L’impianto di tale dichiarazione è essenzialmente assistenzialista, tendente ad affermare le necessità materiali ed affettive dei minori.

Mentre di diversa portata, anche se mantenente l’ordine di indirizzo della convenzione posta in essere dalla Società delle Nazioni, è la Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959, proveniente, stavolta, dal consesso dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Di diversa portata poiché i diritti passivi riferiti al minore questa volta vengono posti in una dimensione di effettività rispetto alla loro esistenza e dunque in maniera più pragmatica; in quanto i destinatari del compimento di tale opera programmatica sono le nazioni, che si impegnano a rendere effettive le linee guida della Carta. In ogni caso il contenuto della convenzione del 1959 non è un contenuto vincolante per le nazioni firmatarie, ma, ponendosi su piano di accordi tra nazioni, al contrario delle precedenti Dichiarazioni, quale quella ricordata del 1924, getta le basi per quelli che saranno le future Convenzioni aventi natura di norme giuridiche vincolanti.

I principi inseriti con l’adozione della convenzione del 1959 spaziano in vari campi e si orientano nella direzione del minore quale soggetto debole; più specificatamente nell’ambito processualistico si riconosce il principio di non discriminazione nei confronti del minore e quello di una sua adeguata tutela giuridica, sin dalla sua nascita, così da poter permettere una crescita psichica dello stesso, informata alla

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33 comprensione, alla pace e alla tolleranza; criteri della crescita psichica allineati ai crescenti studi multi-disciplinari, che hanno iniziato efficacemente ad unire studi sociologici, psicologici e giuridici e via dicendo e che hanno permesso di considerare il minore quale soggetto non da anteporre agli interessi degli adulti.

Successivamente si è arrivati alle cosiddette Regole di Pechino, approvate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1985, che fissano una serie di regole minimi ed uniformi per minori che nello specifico infrangono la legge penale36. La ratio di tali regole è creare un sistema di repressione penale verso i reati compiuti dal minore che sia improntato al recupero dello stesso e non invece alla creazione di un retroterra che faccia germogliare la propensione a reiterare la condotta penalmente rilevante, vista la criminalizzazione che potrebbe subire da un processo avente l’unico scopo di punire. Le linee guida per il raggiungimento dello scopo sono la messa in opera di condizioni, nello svolgimento del processo, che facciano deporre per un clima il più sereno possibile, per quanto plausibile, permettendo la libera espressione e partecipazione dell’imputato minorenne.

Nonostante tutto, in questa prima fase di internazionalizzazione della questione della tutela del minore dinnanzi al processo e più in generale della problematica della salvaguardia della fragilità psico-fisica del minore, tali fonti non riescono a dare una risposta convincente circa una vera e propria innovazione in seno alle modalità procedimentali in concreto svolte dai vari paesi. In Italia è molto forte il pregiudizio che viene ad aversi circa le dichiarazioni poste nel processo dal minore, retaggio di un’atavica concezione di inaffidabilità verso chi ancora deve sviluppare coscienza critica: quindi anche le varie proposte di riforma, poi culminate con il codice di rito del 1988, tese ad armonizzare il processo con la dimensione sovranazionale nascente, risentono di questa

36 FADIGA L., Le Regole di Pechino e la giustizia minorile, in, Giustizia e Costituzione,

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34

forma mentis. Infatti inizialmente le deroghe al contraddittorio in

presenza di un testimone debole minorenne vengono introdotte in maniera abbastanza blanda, in ossequio alle reminiscenze del codice del 1930 che era improntato alla ricerca della verità processuale ad ogni costo, anche a discapito del benessere del minore. Sicuramente vi è un progresso non indifferente rispetto al passato, ma pur sempre vi è una generale diffidenza nei confronti del minore, che porta ad un codice che si sbilancia a favore della necessità di sondare, comunque, in contraddittorio, seppur mediato, la valutabilità delle dichiarazioni vulnerabili e questo anche a discapito della serenità del dichiarante vulnerabile, ancor di più se vittima.

Non a caso con la seconda stagione di convenzioni internazionali provenienti dal Consiglio d’Europa e dall’ Unione Europea, che introducono il concetto di vittima vulnerabile (la supervittima) e più in generale rafforzano la posizione della vittima a discapito della ricostruzione dei fatti e quindi del concetto di accertamento della verità processuale come valore preminente rispetto a tutti gli altri, il codice andrà incontro a numerose adeguamenti e modifiche, abbandonando gradualmente l’intervento nell’area dell’attendibilità della prova dichiarativa debole per sbilanciarsi in favore della tutela del dichiarante minorenne dal processo tout court (anche a discapito dell’attendibilità); come vedremo nel prosieguo della trattazione.

3.2 Secondo nucleo di fonti internazionali: il dichiarante vulnerabile.

Il nuovo solco del secondo nucleo delle fonti internazionali si apre con la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, stipulata nel 20 novembre 1989 e ratificata in Italia con legge n. 176 del 1991. Tale convenzione, nata in seno all’Assemblea delle Nazioni Unite, porta interessanti novità circa la considerazione di quello che fino a questo

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