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1.- La centralità della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ed i problemi di recpimento interno

Un problema di particolare importanza ai fini della trattazione è quello relativo all’applicazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo firmata a Roma nel 1950, ratificata nel 1955 nonché sottoposta ad una serie di modifiche dovute alla ratifica dei numerosi Protocolli che si sono succeduti nel tempo, all’interno del nostro ordinamento: com’è noto non ha efficacia diretta nel nostro sistema giuridico. A differenza del diritto comunitario, originario e derivato, il cui fondamento costituzionale è rintracciabile nell’art. 11 Cost., la C.e.d.u. è pacificamente annoverata nell’ambito del diritto internazionale pattizio e come tale sconta la sola applicazione dell’art. 117 della Costituzione nella parte in cui, al primo comma, è previsto che “la potestà legislativa è esercitata [...] nel rispetto dei

vincoli derivanti dagli obblighi internazionali”. In termini pratici, mentre in caso di

contrasto tra la normativa nazionale ed il diritto comunitario, stante la supremazia di quest’ultimo, si è arrivati ad affermare il dovere per il giudice nazionale di disapplicazione della norma interna confliggente per dare attuazione alla normativa comunitaria, viceversa qualora si verifichi un contrasto tra la norma nazionale ed una disposizione della C.e.d.u., il giudice nazionale non potrà seguire il medesimo procedimento.

Tuttavia con il passare degli anni si è avvertita, in dottrina e giurisprudenza, l’esigenza di tracciare una rotta che potesse dirimere le incertezze derivanti dall’applicazioni di diritti “multidimensionali”242, auspicando un vero e proprio

dialogo tra le Corti interne ed internazionali oltre che un intervento legislativo243.

Interpellata più volte, la Corte Costituzionale con l’emanazione delle c.d. “sentenze

242 RIDOLA, Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, Torino, 2005, 257. 243 Cfr. GAITO A. Procedura penale e garanzie europee, Torino, 2006, 24.

gemelle” del 2007 ha cercato in un certo senso di trovare un punto d’equilibrio tale

da cristallizzare i rapporti tra la Convenzione e l’ordinamento interno: le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, definite appunto gemelle ma in parte differenti per premesse e conclusioni, sono considerate l’approdo di un lungo ragionamento della Corte. La Convenzione (in realtà la sua legge di esecuzione), secondo la sentenza n. 348/2007, non è assimilabile ad una norma internazionale in grado di limitare la sovranità nazionale, non consistendo infatti in un vero e proprio ordinamento bensì in una serie di obblighi per gli Stati aderenti. Secondo i giudici della Consulta, infatti, le norme della C.e.d.u. «pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano

e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto[. . . ]; il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, co. 1, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi»244.

In secondo luogo, con la sentenza n. 349/2007, la Corte riafferma il valore del “sistema C.e.d.u.”, come in precedenza, aggiungendo poi come tale sistema si basi sull’interpretazione della Convenzione data dalla stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Più precisamente «al giudice comune spetta interpretare la norma

interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale “interposta”, egli deve investire [la Corte costituzionale] della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, co. 1»245.

Si comprende allora il peso di tali conclusioni: se con la prima sentenza la Corte costituzionale ribadisce l’importanza assoluta della Convenzione all’interno

244 Corte cost., 3 luglio 2007, n. 348, in www.giurcost.org, 14. 245 Corte cost., 31 ottobre 2007, n. 349, in www.giurcost.org, 11.

dell’ordinamento, è con la susseguente sentenza n. 349/2007, di stampo marcatamente allargato, che essa arriva ad innovazioni maggiormente rilevanti considerando la C.e.d.u. qualcosa di più di una somma di diritti e obblighi reciproci tra Stati, ovvero una “realtà giuridica, funzionale ed istituzionale”246. Tornando

quindi all’esempio pratico, qualora il giudice riscontri un contrasto tra la statuizione che dà esecuzione alla Convenzione ed un’altra statale confliggente non potrà né applicare la norma nazionale contraria a Costituzione, per violazione dell’art. 117 comma 1 Cost., né disapplicare la norma nazionale confliggente in favore della norma C.e.d.u., priva di efficacia diretta; egli potrà solo tentare un’interpretazione della norma nazionale conforme a Convenzione, così come quest’ultima vive nella giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo247.

Qualora il conflitto non sia componibile in tali termini, il giudice nazionale non potrà esimersi, per evitare l’empasse, dal sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma nazionale, per violazione dell’art. 117 comma 1 Cost., in relazione alla norma C.e.d.u. contrastante, quale norma interposta. Senza forse arrivare, come sostiene parte della dottrina, ad un riconoscimento ed all’introduzione di un mini sistema di common law all’interno del nostro ordinamento248, le sentenze citate comunque hanno sicuramente avuto il merito di

porre nuovamente sotto i riflettori i problemi di adattamento e di interpretazione tra C.e.d.u. e legge interna affermando l’importanza assoluta della Convenzione, attribuendole, per così dire, un tono di semicostituzionalità.

In attesa di un incisivo intervento che riformi quelle concezioni e quei meccanismi che alla luce delle innovazioni di stampo europeistico appaiano oggi obsoleti, i problemi di adattamento sono stati affrontati soprattutto dalle varie Corti: l’esigenza di non veder frustrate, per ragioni puramente formali, le garanzie e i diritti sostanziali ha fatto da ideale filo conduttore tra le varie pronunce.

246 ROMOLI, Sistema europeo ed ordinamento interno nell’elaborazione della Corte costituzionale,

in www.archiviopenale.it, 2011, 14.

247 Corte Cost., 31 ottobre 2007, n. 349.

248 IACOVIELLO, Il quarto grado di giurisdizione: La Corte europea dei diritti dell’uomo, in Cass. Pen., 2011, 794.

Nel corso degli ultimi anni, come detto, si sono susseguiti gli interventi della Consulta relativi all’applicazione della Convenzione nel nostro diritto interno: uno dei temi affrontati è stato anche quello delle conseguenze di una presunta “comunitarizzazione” della C.e.d.u. all’indomani dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona249. Il previgente art. 6 T.U.E. disponeva come “L’Unione rispetta i diritti

fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma nel 1950 e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni dagli Stati membri, in quanto principi del diritto comunitario” ed il pensiero della Corte Costituzionale era quello per cui la

C.e.d.u., così come le tradizioni costituzionali comuni, rappresentasse indubbiamente il patrimonio genetico dei diritti fondamentali senza, tuttavia, entrare a far parte dell’ordinamento comunitario; la differenza tra le norme della C.e.d.u. rispetto a quelle comunitarie sarebbe consistita nella ritenuta prevalenza delle sole ultime ai fini dell’ordinamento nazionale. Il novellato articolo 6 del Trattato dell’Unione Europea, così modificato a seguito della “trattatizzazione” della Carta di Nizza, prevedendo come “L'Unione aderisce alla Convenzione

europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell'Unione definite nei trattati. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali”, aveva generato l’idea di una possibile applicazione diretta della

Convenzione con conseguente disapplicazione automatica della norma interna contrastante, come nel caso del diritto comunitario; il timore, di parte della dottrina, era quello di dover nuovamente riqualificare la C.e.d.u., sovvertendo l’impianto costruito dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007. La Corte Costituzionale ha però confermato il precedente orientamento derivante dalle sentenze “gemelle” assicurando, con la sentenza n. 317 del 2009, che «Il contrasto di una norma

nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in

una violazione dell'art. 117, primo comma, Cost.. Il giudice nazionale ha il compito di applicare le norme della CEDU, nell'interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo, e, laddove profili un contrasto tra la norma interna e quella della Convenzione, deve procedere ad una interpretazione della prima conforme alla seconda. Laddove ciò non sia possibile, egli, non potendo applicare la norma della CEDU in luogo di quella interna, né potendo applicare la norma nazionale che abbia ritenuto in contrasto con quella convenzionale (e, pertanto, con la Costituzione), deve sollevare la questione di costituzionalità ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost.»250.

Finora si è cercato di inquadrare quello che è il ruolo ed il valore della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo all’interno del nostro sistema di diritto; quello che però è necessario rilevare, per una trattazione il più completa possibile, è la questione relativa alle condanne pronunciate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ed i relativi principi di diritto elaborati in seguito all’accertamento della violazione delle norme della Convenzione. Il problema, di non poco conto, trova il suo nodo cruciale in un intuitivo processo logico. Per una piena ed appagante tutela dei diritti riconosciuti dalla Convenzione è necessaria la presenza di un organo di garanzia in grado di segnalare la violazione delle norme ed intervenire prontamente; è, tuttavia, fondamentale ragionare come di piena tutela si possa ragionevolmente parlare solo nel caso in cui le pronunce siano effettivamente in grado di vincolare l’operato degli Stati membri: una condanna pronunciata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che però non ha seguito nell’ordinamento interno dello Stato non riesce ad essere strumento di garanzia ed anzi, si potrebbe notare, tale prassi condurrebbe, di conseguenza, ad uno svilimento della Convenzione, rendendo vuote le prescrizioni contenute nella stessa. La necessità di rendere effettivo e non “puramente simbolico”251 il risultato di chi ricorre alla Corte di Strasburgo è

un’assoluta esigenza di legalità.

250 Corte Cost., 30 novembre 2009, n. 317, in www.giurcost.org.

251 ROMOLI, Spazio giudiziario europeo (profili comparati), in Dig. disc. pen., VI, Aggiornamento,

Il tema di fondo risulta essere sempre il problema dei rapporti tra la giurisdizione esecutiva interna e la giurisdizione europea: esattamente si fa riferimento all’adeguamento del giudicato interno alle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che accertano la celebrazione di un processo “non equo” in danno del condannato, ovvero svoltosi in violazione delle garanzie difensive riconosciute dall’art. 6 della Convenzione. Intorno al suddetto fondamentale articolo, all’articolo 46, che prevede l’obbligo per gli stati di “conformarsi alle sentenze

definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti”, e all’articolo 41,

che prevede che nel caso in cui la Corte dichiari che “vi è stata violazione della

Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”,

sono ruotate le sentenze di maggiore importanza negli ultimi anni.

L’art. 6 C.e.d.u. è ormai unanimemente riconosciuto come baluardo della legalità dei processi: stabilisce infatti tutti quei requisiti che devono essere propri di un procedimento perché si possa parlare ragionevolmente di giustizia. La cristallizzazione di un metodo è garanzia di un risultato se non specifico, quanto meno generale: un processo viziato, carente dal punto di vista delle garanzie non potrà mai essere seguito da un provvedimento giusto, corretto, esente da vizi. La giustizia di una pronuncia, astraendo dal suo contenuto, potrà quindi essere desunta solamente nel rispetto delle regole procedurali sancite dall’art.6 e fatte proprie dagli Stati aderenti252.

L’art. 46 C.e.d.u., in ordine all’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo, oltre all’obbligo di esecuzione gravante sugli Stati, nulla dispone circa le modalità ed i tempi di attuazione delle stesse: gli Stati, dunque, sono liberi di adottare le misure che ritengono più opportune, anche in ragione della peculiarità dei loro ordinamenti interni. C’è da aggiungere come il paragrafo 4 del suddetto articolo prevede che “se il Comitato dei Ministri ritiene che un’Alta Parte contraente rifiuti

di conformarsi a una sentenza definitiva in una controversia cui essa è parte, può,

dopo aver messo in mora tale Parte (…) adire la Corte sulla questione dell’adempimento degli obblighi assunti dalla Parte ai sensi del par. 1”.

L’art. 41 pone qualche riflessione ulteriore: ferma restando, quindi, la discrezionalità delle “Alte Parti contraenti” sulle modalità di attuazione delle sentenze della Corte Europea, la Convenzione dichiara tra le righe una netta prevalenza per quelle misure in grado di far conseguire una riparazione, verrebbe da dire, in forma “specifica” dei danni da violazione delle norme C.e.d.u; l’indennizzo economico, infatti, è misura sussidiaria e comunque meramente integrativa, non certo alternativo-sostitutiva. In altri termini gli Stati sarebbero tenuti ad adottare sempre delle misure atte ad eliminare in forma specifica i danni da violazione della C.e.d.u e solo nel caso in cui queste consentano una riparazione solo parziale, “in modo imperfetto” dice la norma, sarebbe ammessa in via suppletiva l’equa soddisfazione attraverso il conseguimento di una somma di denaro. Il ristoro economico, dunque, sarebbe la soluzione da adottare solo in quei casi in cui le conseguenze di un processo “non giusto” non siano completamente rimovibili: possono sorgere, infatti, impossibilità materiali e giuridiche tali da impedire una piena restitutio in integrum (ad es. la perdita di chances)253.

Nello specifico il problema che ci si pone quando la Corte accerta una violazione da parte di uno Stato è quello di riparare le conseguenze di detta violazione. La questione si presenta meno semplice di quanto possa apparire, passando da un primo stadio in cui alla correzione dell’ingiustizia accertata devono e possono provvedere solo le autorità nazionali ai sensi dell’art. 46 C.e.d.u, ad un secondo in cui viene corrisposta un’equa soddisfazione accordata dalla Corte E.d.u. in virtù dell’art. 41, e cioè quando vi sia l’impossibilità per il ricorrente di ottenerla dallo Stato condannato. In questo caso la Corte gode di un potere sussidiario che opera solo in via residuale, qualora il diritto interno dello Stato convenuto non consenta la completa eliminazione delle conseguenze della decisione ai sensi dell’art. 46. Si capisce la difficoltà nell’individuare le situazioni in cui lo Stato si trovi nell’impossibilità di rimuovere le conseguenze negative della decisione ritenuta

iniqua dalla Corte. Alla mancanza di criteri normativi ha supplito la giurisprudenza, la quale, inizialmente disorientata ha poi imboccato strade atte a garantire ed agevolare, il più possibile, il ricorrente.

Nel regime di incertezza legislativa vissuto dal nostro ordinamento sul punto in questione, la giurisprudenza interna si è dovuta adoperare più volte negli ultimi anni arrivando, per certi versi, a sostituirsi al legislatore ed incidendo quindi per quanto riguarda i risultati raggiunti. I ripetuti interventi succedutisi nel tempo sono stati necessari per cercare di conformarsi a quanto veniva prescritto, sempre più insistentemente, a livello sovranazionale: in una tale situazione, sottolineando la mancanza di un principio generale ed astratto passibile di applicazione in una molteplicità di casi, si comprendono allora le difficoltà incontrate dalle Corti interne nello svolgere vere e proprie “funzioni di vicariato del legislatore”254. Il mutato

clima culturale ha portato la Cassazione e la Corte costituzionale a pronunciare una serie di decisioni, che, al di là del merito di aver risolto spinose questioni giudiziarie, rappresentano il simbolo dell’effettiva penetrazione della cultura europea nell’ordinamento giudiziario italiano a testimonianza del fatto che si è imboccata una nuova via che deve passare dalla rivisitazione di alcuni istituti, come quello del giudicato, che fino ad oggi parevano dei punti fermi e che, invece, rappresentano la base per un percorso volto a garantire, di fatto, il rimedio alla violazione di un diritto proclamata dalla Corte E.d.u.255.

254 GIUNCHEDI, La tutela dei diritti fondamentali previsti dalla CEDU: la Corte europea dei diritti dell’uomo come giudice di quarta istanza?, in Archivio penale, 2013, 1, 12.

2.- Inquadramento del principio di ne bis in idem in chiave europea: cenni di una giurisdizione…senza barriere

Come si è intuito anche attraverso l’analisi comparata effettuata nel capitolo precedente, nonostante il principio del ne bis in idem rientri il più delle volte nel novero dei diritti fondamentali dell’individuo questo assume differenti ambiti applicativi e di tutela a seconda dell’ordinamento nazionale europeo in cui si trovi ad operare, nonché in relazione al “peso specifico” riservato alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed alla sua interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo.

Prendendo in considerazione i Paesi, tra quelli passati in rassegna, che hanno provveduto alla ratifica del Protocollo n. 7 C.e.d.u -impegnandosi dunque a mantenere un confronto costante con la giurisprudenza sovranazionale (e in particolare quella di Strasburgo) sul tema in esame- si può notare come l’approccio e l’integrazione del ne bis in idem convenzionale non abbia comunque seguito percorsi analoghi: così, in Francia e in Spagna, nonostante sia possibile riscontrare una omogeneità di fondo nell’evoluzione normativa e giurisprudenziale (rivolta, in entrambi i Paesi, nel senso di un allineamento con le posizioni sovranazionali), differenti sono state le modalità e le tempistiche con cui i relativi ordinamenti hanno accolto le istanze della Corte Europea256.

Allo stesso modo, tra i Paesi che non hanno invece ratificato il Protocollo, soluzioni differenti possono cogliersi in Germania e in Inghilterra.

Nel primo caso, la mancata ratifica, nonostante abbia fatto sì che la giurisprudenza tedesca restasse per lo più indifferente agli approdi raggiunti dalla Corte di Strasburgo in materia di ne bis in idem, non ha comunque costituito un vulnus alla protezione che viene assegnata al principio all’interno dell’ordinamento nazionale: la portata della garanzia è stata infatti complessivamente equiparata a quella offerta a livello comunitario (in primis dall’art. 50 C.D.F.U.E.), considerata l’importanza

256 Cfr. PASSAGLIA, Il principio del ne bis in idem (servizio studi Corte Costituzionale), cit., 10:

l’Autore evidenzia infatti come per la Spagna la tendenza all’allineamento dei confronti delle posizioni sovranazionali abbia addirittura preceduto la ratifica del Protocollo, mentre in Francia tale tendenza sia indubbiamente più lenta, tanto da non essere ancora giunta a conclusione.

e il valore normativo che la Carta dei diritti fondamentali dell’UE assume nel diritto interno257.

Discorso a parte va fatto per l’Inghilterra, che comunque vive una situazione particolarmente complessa dato il travagliato processo di uscita dall’Unione europea, e dove le istanze di tutela del ne bis in idem (o, per meglio dire, del divieto di double jeopardy), considerato principio dall’importanza storica ed insito nel diritto britannico fin dalle origini, sono state affrontate mediante un sistema più legato alla tradizione dell’ordinamento nazionale, con tutte le sue peculiarità: la protezione offerta al principio non ha dunque seguito le logiche sovranazionali, nonostante si riscontri nei fatti una tutela del divieto di double jeopardy particolarmente significativa258.

Alla luce di quanto osservato, appare evidente che la strada da percorrere per giungere ad un’applicazione uniforme del principio -che abbia le medesime caratteristiche, la stessa rilevanza e che produca analoghi effetti nei confronti degli ordinamenti e dei sistemi sanzionatori nazionali- perlomeno all’interno degli Stati membri dell’Unione Europea, sembi ancora lunga e dipenda molto anche dale rispettive applicazioni della normative sovranazionale: tuttavia, è pur vero che, ognuno da par suo, i menzionati Stati sono riusciti a garantire una tutela effettiva al divieto di bis in idem.

Come già anticipato, parte della dottrina ha sostenuto, quale miglior percorso possibile, la diretta applicazione della Carta da parte dei giudici penali nazionali: qualora si scegliesse di mettere effettivamente in pratica l’assunto per cui l’art. 50

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