• Non ci sono risultati.

Il problema dello scopo della tortura

Al termine di questa lunga rassegna dei tipi di condotta presi in esame nell'ambito della prassi applicativa della Convenzione qua­ li eventuali violazioni dell'articolo 3, e prima di formulare al­ cune osservazioni conclusive, è necessario vedere brevemente l'altro elemento che emerge dalla definizione del caso Grecia. quello dello s c o p o.

La "tortura", secondo la ricordata definizione, deve avere uno scopo specifico, quale l'ottenimento di confessioni o informa­ zioni o l'inflizione di una punizione. E' questo il secondo ele­ mento, oltre alla gravità della sofferenza inflitta, che distin­ gue la fattispecie della "tortura" da quella dei "trattamenti i- numani". In realtà, anche quelle condotte che, per la minore gra­ vità della sofferenza inflitta vengono qualificate come "tratta­ menti inumani" hanno spesso, di fatto, uno scopo fra quelli la cui presenza è ritenuta condizione perchè vi sia "tortura".

L'indicazione dello scopo di ottenere informazioni o confes­ sioni o di quello di infliggere una punizione è esemplificativa. Ciò comporta che anche la presenza di finalità diverse da quelle indicate può essere sufficiente affinchè si concretizzi la fatti­ specie della tortura. L'espressione "such as" potrebbe però fare ritenere che occorre la presenza di un elemento in comune con i fini resi espliciti a titolo di esempio. In ogni caso, se si fa

riferimento alla definizione nel caso Grecia. sembra che si debba escludere dall'ambito della nozione giuridica di tortura la tor­ tura "gratuita", ossia il male fine a se stesso, inflitto senza alcuno scopo ulteriore.

Di fatto, la presenza dell'elemento dello scopo è stata accer­ tata sia nel caso Grecia sia nel caso Irlanda. Nel primo, la Com­ missione ha accertato che la tortura e i maltrattamenti inflitti nell'ambito di interrogatori dalla Polizia di Sicurezza di Atene avevano come fine

"...thè extraction of information, including confessions concer- ning thè politicai activities and associations of thè victims and

1 ? o other persons considered to be subversive"14U.

Nel caso Irlanda. la presenza di uno degli scopi indicati come condizione per poter andare oltre la qualifica di "trattamento i- numano" non è mai messa in discussione dalle parti o dalla Corte.

In occasione del caso Irlanda. tuttavia, il giudice Fitzmauri- ce, sia pure in posizione nettamente minoritaria, ha ritenuto che si dovesse escludere, nella elaborazione della nozione complessi­ va di "tortura", ogni rilevanza dell'elemento teleologico. Egli ha sostenuto infatti che

'•Torture is torture whatever its object may be, or even if it has none, other than to cause pain, provided it is inflicted by for­ ce"121 .

Non è semplice formulare una conclusione in merito. La scarsezza di prassi in tema di "tortura" in senso stretto, nonché la rela­ tiva assenza di problematicità presentata nei casi esaminati dall'elemento dello scopo, non consentono un'analisi approfondi­ ta. L'unico elemento a disposizione, la definizione elaborata dalla Commissione in occasione del ricorso contro la Grecia, pre­ vede che la tortura debba necessariamente avere uno scopo deter­ minato. Ma l'opinione in questione risale a molti anni fa e, ben­ ché abbia posto le fondamenta di tutta prassi applicativa dell'articolo 3, è stata soggetta ad ulteriori elaborazione e precisazioni. Nel caso Irlanda. poi, la maggioranza della Corte non si è espressa in maniera chiara su questo punto. E' quindi incerto se ci si debba ancora rifare in toto al caso Grecia per quanto concerne la questione degli scopi.

Si tenga poi conto delle conseguenze che potrebbe avere, sul piano pratico della efficacia della proibizione, l'accoglimento della tesi per cui determinate forme di maltrattamento sarebbero escluse dall'ambito di applicazione della norma, in quanto fina­ lizzate a scopi non vietati. Il carattere di assolutezza della

proibizione risulterebbe gravemente compromesso.

In breve, l'indicazione relativa all'elemento dello scopo, co­ me quella relativa alla c.d. "ingiustificabilità", rappresenta, a nostro avviso, uno degli elementi meno felici della definizione nel caso Grecia. A differenza, però, di quanto è avvenuto rispet­ to alla "ingiustificabilità", la questione non è più stata af­ frontata in termini generali. Il problema, dunque, resta aperto,

e va riconsiderato e risolto in maniera tale da non fare venire meno l'assolutezza, e dunque l'efficacia, della proibizione122.

14. Osservazioni conclusive

E' giunto il momento di formulare alcune conclusioni sui vari a- spetti presi in esame.

La tortura è un'inflizione intenzionale di sofferenza particolar­ mente grave. E' incerto, al momento, se debba essere sempre qua­

122. Sull'elemento dello scopo cfr. Duffy, c it.. p.317, secondo cui "...now that the degree of suffering required has been resta­ ted and raised (il riferimento è al giudizio della Corte nel caso Irlanda), it seems an unduly restrictive interpretation to requi­ re a systematic purpose in addition to "deliberate inhuman treat­ ment causing very serious and cruel suffering". Nonetheless, on the existing case law the point is open. It may well remain so for, when ill treatment of sufficient seriousness occurs, it is usually inflicted for some obvious purpose. When exceptionally this is not so, one might alternatively argue that "purpose" should be liberally interpreted".

lificata dalla presenza di uno scopo determinato. La sofferenza inflitta può essere sia di tipo fisico sia di tipo mentale o psi­ cologico. La nozione di inflizione di sofferenza è risultata però

insufficiente di fronte all'uso di tecniche di privazione senso­ riale, ossia di forme di maltrattamento tecnologicamente "raffi­ nate". L'emergere di queste ultime ha dato luogo infatti a due diverse interpretazioni. La prima, avanzata dalla Commissione e da una parte dei giudici della Corte nel caso Irlanda. tende ad ampliare la nozione in esame sino a ricomprendervi ogni grave at­ tacco all'integrità psico-fisica dell'individuo. In tal modo si arriva a superare il riferimento alla stessa nozione di sofferen­ za, per quanto estensivamente intesa. La seconda interpretazione, propria della maggioranza della Corte nel caso Irlanda. tende in­ vece ad applicare a tali forme, qualitativamente diverse, di mal- trattamento i criteri di valutazione propri dei maltrattamenti "tradiz ionali".

La prassi europea in materia di vera e propria "tortura" è scarsa e fa riferimento unicamente a maltrattamenti inflitti nel corso di interrogatori. Ciò non comporta che si escluda a priori qualsiasi altra ipotesi di tortura, anche se non è facile che si giunga ad accertare una violazione dell'articolo 3 nella forma più grave. Dalla scarsezza della prassi applicativa deriva, fra l'altro, l'assenza di elementi certi in relazione alla prevalenza dell'una o dell'altra fra le due nozioni della condotta in cui dovrà consistere la tortura che abbiamo potuto individuare. Il

fatto che l'ipotesi della "tortura" non sia mai stata presa in seria considerazione nell'ambito dei numerosi ricorsi individuali porta a ritenere che si sia voluto riservare tale qualifica uni­ camente a situazioni di una gravità estrema. E' questa l'esigenza che ha ispirato la decisione della Corte nel caso Irlanda. Mentre tale esigenza appare comprensibile, è da auspicare che essa non risulti più in-quella distorsione in base alla quale vengono con­ siderate meno gravi forme di maltrattamento che, invece, sono semplicemente diverse, e assai gravi se valutate per quello che realmente sono. Per quanto riguarda il tipo dei trattamenti con­ siderati è, purtroppo, l'ingegno di coloro che praticano la tor­ tura ad imporre un orientamento di tipo evolutivo.

La questione del grado di sofferenza inflitta si è rivelata di difficile risoluzione sia in relazione all'individuazione delle ipotesi di tortura che in relazione alle altre forme di violazio­ ne dell'articolo 3. In entrambi i casi la valutazione dovrà esse­ re in una certa misura relativa al contesto storico-politico e alle circostanze specifiche del caso.

Al funzionamento del criterio della relatività al contesto ge­ nerale e specifico del caso è stata collegata, in maniera a no­ stro avviso artificiosa, la problematica della "ingiustificabili- t à " . E' avvenuto, infatti, che mentre è stato riaffermato il ca­ r a t t e r e assoluto della proibizione, si è por tata avanti allo stesso tempo una operazione di "relativizzazione" del contenuto della norma, ovvero del significato delle espressioni "tortura",

"trattamento inumano", "trattamento degradante". Ma le pretese cause di giustificazione, invocate in più occasioni al fine di e- scludere o di rendere meno grave la violazione, non possono con­ siderarsi alla stregua di elementi relativi al contesto di un de­ terminato caso, da tenere in considerazione nel valutare il grado di sofferenza inflitta. E' inammissibile eludere in tal modo il carattere inderogabile della proibizione.

I trattamenti inumani (e le punizioni inumane) consistono nella inflizione intenzionale di sofferenza grave, ma non necessaria­ mente della gravità prevista per il caso della tortura. La soffe­ renza inflitta dovrà comunque oltrepassare la c.d. "soglia mini­ ma" al di sotto della quale potrà eventualmente esservi solo ciò che la Commissione definisce "roughness of treatment". L'accerta­ mento va effettuato, anche in questa ipotesi, tenendo conto del contesto sia storico-politico che specifico al caso concreto.

Ab biam o preso in esame la prassi applicativa della norma sui trattamenti inumani in relazione alle condizioni di detenzione di prigionieri politici e ai provvedimenti di estradizione o espul­ sione .

Per quanto riguarda la prima ipotesi, benché sia sempre l'in­ sieme delle condizioni in cui versa il detenuto a costituire og­ getto di valutazione ai sensi dell'articolo 3, un rilievo parti­ colare viene assunto dall'isolamento. L'ipotesi estrema, quasi a­

stratta, dell'"isolamento sociale e sensoriale completo" costi­ tuisce una forma di trattamento inumano in senso oggettivo, in quanto l'applicazione del criterio "relativo" non è ritenuta ne­ cessaria al raggiungimento della conclusione che trattamento inu­ mano vi è stato. L'ipotesi, per le sue caratteristiche intrinse­ che e per il disegno che la ispira, è tale da provocare sicura­ mente gravi danni all'integrità psico-fisica di chi la subisce.

L ' "isolamento sociale e sensoriale completo" assomiglia, anche se il contesto in cui è stato preso in esame è diverso, alle tec­ niche di privazione sensoriale oggetto del ricorso Irlanda c. Re­ gno U n i t o . A differenza di queste, però, la valutazione si fonda sulla nozione di trattamento inumano e non su quella di tortura e, inoltre, non viene riproposta la nozione fatta propria dalla maggioranza della Corte in quell'occasione, bensì accolta la no­ zione più ampia, che prende in considerazione ogni attacco grave all'integrità psico-fisica dell'individuo. Rispetto al trattamen­ to inumano, sembra che non vi siano, dunque, le stesse esitazioni incontrate nel qualificare una certa condotta come tortura.

Quanto al grado di sofferenza inflitta mediante l'isolamento, se si esclude l'ipotesi estrema, ritorna ad essere utilizzato il criterio "relativo". I parametri di riferimento più usati sono la durata, gli effetti sul prigioniero (rispetto a cui assume rilie­ vo anche l'elemento del controllo medico) e le finalità del trat­ tamento.

regime carcerario disposto nei confronti di un prigioniero poli­ tico ha in genere il fine di garantire la sicurezza collettiva. Ma, come si è già detto a proposito della "tortura", non è cor­ retto considerare tale elemento, di fatto, alla stregua di una causa di giustificazione e, attraverso il riferimento al criterio della "relatività al contesto", condizionare ad esso la valuta­

zione della gravità dell'elemento materiale della fattispecie, li­ na volta stabilito che determinati trattamenti sono proibiti in modo assoluto, non si possono ritenere meno gravi o valutare con minore severità in quanto inflitti al fine di realizzare un'esi­ genza particolarmente importante. La sofferenza della vittima è certamente la stessa.

Si è considerata inoltre l'ipotesi della attuazione di provvedi­ menti di espulsione o estradizione allorché questi conducano a gravi violazioni dei diritti umani della persona espulsa o estra­ data nello Stato di arrivo. L'elaborazione da parte della Commis­ sione e della Corte di questa ipotesi, piuttosto anomala, si è resa necessaria per la mancata previsione nell'ambito della Con­ venzione Europea di specifici obblighi di non refoulment o di non estradizione. Tale interpretazione dinamica, anche se ormai con­ solidata, dell'articolo 3, trova qualche difficoltà di armonizza­ zione con l'elemento dell'intenzionalità. Sembra infatti che, più che di "intenzionalità" si debba parlare, in questo caso, di "consapevolezza" della sofferenza a cui la vittima può andare in­

contro per effetto del provvedimento in questione.

Per quanto riguarda poi la questione della gravità della sof­ ferenza, la valutazione è resa complessa perchè occorre accertare preliminarmente quanto sia elevato ("oggettivo") il rischio che questa sia realmente inflitta al ricorrente. Ma i due aspetti, 1'oggettività del rischio e il grado dell'eventuale sofferenza, vanno tenuti sempre distinti. Una volta stabilito che il rischio è elevato, quel margine di incertezza che comunque rimane circa l'effettiva violazione dei diritti del ricorrente nello Stato terzo non può avere l'effetto di fare ritenere meno grave la sof­ ferenza a cui questi presumibilmente andrebbe incontro.

La prassi esaminata mostra come, fra le ipotesi di trattamento che il ricorrente rischia di subire nello Stato di arrivo, vi siano la tortura, la persecuzione politica (che può assumere in concreto forme diverse) o le circostanze che di norma accompagna­ no una condanna a morte e la relativa esecuzione. Perchè il prov­ vedimento di espulsione o estradizione sia qualificabile come trattamento inumano, dunque, il trattamento che si prevede venga inflitto nello Stato di arrivo non dovrà consistere a sua volta necessariamente in tortura, trattamenti inumani o trattamenti de­ gradanti: la "persecuzione politica" nelle sue varie forme, ad e- sempio, non rientra necessariamente fra questi ultimi.

Il trattamento degradante (e la punizione degradante) è un trat­ tamento umiliante o che conduce ad agire in maniera contraria al­

la propria volontà o coscienza. Non si traduce quindi in infli­ zione di sofferenza fisica, bensì in violazioni dell'integrità psichica e morale dell'individuo. Le tipologie di condotta valu­ tate alla luce della nozione di trattamento degradante dagli or­ gani di Strasburgo comprendono le punizioni corporali, le condi­ zioni di detenzione fin particolare dei detenuti comuni) e i provvedimenti amministrativi a carattere discriminatorio.

Per il trattamento degradante non è previsto il requisito della intenzionalità. La Commissione ha, infatti, chiarito che un regi­ me carcerario può costituire una forma di trattamento degradante

in violazione dell'articolo 3 anche se non è finalizzato alla in­ flizione di sofferenza o alla umiliazione del prigioniero in que­ stione .

Per quanto riguarda la gravità del trattamento o il grado di umi­ liazione, anche rispetto al trattamento degradante si applica in linea di massima il criterio "relativo". Nel caso delle condizio­ ni di detenzione dei prigionieri comuni il principale parametro di riferimento è dato dagli effetti sul prigioniero (che si trat­ ti di effetti ordinari e prevedibili o invece del tutto anomali a causa della personalità della vittima). Nel caso delle punizioni corporali, invece, la "soglia minima" è stata superata per effet­ to della cosiddetta "violenza istituzionalizzata" sull'individuo, considerata alla luce degli standards degli stati europei in ma­

teria penale. Il contesto generale è dunque, in questa ipotesi, dato dalla civiltà giuridica degli Stati parti della Convenzione e dalla concezione comune dei diritti dell'uomo che li ispira.

L 'um i l i a z i o n e non deve necessariamente essere inflitta di fronte ad altri, potendo al contrario essere anche umiliazione dinanzi a sè stessi. In questo secondo caso, però, la considera­ zione della sensibilità propria di ciascuna vittima dovrà essere in qualche modo contemperata con una valutazione fondata sul modo di sentire comune.

Infine, anche nell'ambito proprio dei trattamenti degradanti si è realizzata una ipotesi di tutela in qualche modo anomala. I provvedimenti basati sulla discriminazione razziale, pur violando in primo luogo diritti non tutelati dalla Convenzione Europea, possono nondimeno violare anche l'articolo 3, nella forma del trattamento degradante, qualora conducano alla grave umiliazione dei loro destinatari.

La tortura e i trattamenti o le punizioni crudeli, inumani o de­ gradanti nel Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e nella prassi di applicazione

15. L'impostazione generale della proibizione di cui all'articolo