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Problemi di genere: I ponti di Schwerin

Nella sua introduzione a I ponti di Schwerin, Francesco De Nicola commenta come

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‘È ingenuo, assurdo e storicamente falso che un sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le assimila a sé, e ciò tanto piú quanto piú esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica o morale.’ Si veda Primo Levi, I sommersi e i salvati, in

Opere, vol.1 (Torino: Einaudi, 1997), p. 677.

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il romanzo di Liana Millu non appartiene – come viene indicato erroneamente nella Bibliografia della deportazione nei campi nazisti, a cura di Teo Ducci – alla memorialistica e solo ad una frettolosa lettura può apparire una sorta di autobiografia romanzata, documento di una sconvolgente esperienza storica arricchito dai ricordi della protagonista Elmina, come potrebbe far supporre l’accenno al ritrovamento da parte sua di un diario dalle pagine ancora tutte bianche e di una primitiva matita (una scheggia di specchio) con la quale la reduce da Birkenau aveva cominciato a registrare le tappe del suo cammino verso la libertà.5

Effettivamente, la sommaria categorizzazione con la quale sono stati accorpati gli scritti dei sopravvissuti, risultato di una ‘frettolosa lettura’ di alcuni testi, costituisce un impedimento ad una loro più accurata catalogazione. L’inserimento dei diversi testi relativi alla Shoah in un corpus di genere, un esercizio tassonomico in cui situare i tipi di scrittura generati dalla memoria scritta dell’evento, costituisce un problema proprio per quel continuo oscillare della materia tra auto e fictio, dove l’inganno risiede nella frequente coincidenza fra auto e fictio. L’ambiguità deriva in massima parte da discrimini critici che, a posteriori, e proprio per via della complessità creata dalla fusione dell’elemento memoriale con quello più propriamente letterario che spesso denota questi testi, decretano la loro appartenenza in modo indiscriminato ad un impreciso e vago genere

testimoniale. Tale assimilazione si compie senza valutare appieno né il

giustificato prevalere di momenti più nettamente documentari ed effettivamente autobiografici delle memorie, né la necessità estetica di una trasfigurazione narrativa che colmi alcuni vuoti, un’operazione che nel tempo diventa sempre più complessa. L’accumulazione di leerstellen non si giustifica soltanto per via dei gap mnemonici da parte dei singoli individui ed autori dei testi, quanto, a volte, per un’incerta volontà d’interrogazione ed un comprensibile desiderio di rimozione. Esiste allora un altro tipo di trasfigurazione su un piano narrativo avente intenti etici ed estetici su cui le autrici spostano la loro esperienza di vita: la scelta per sé di uno statuto nettamente finzionale e creativo nel romanzo, nel racconto, oppure nella poesia. L’impianto creativo non presume l’infedeltà al vero: semmai lo commenta. L’elemento autobiografico6 – sempre dichiarato, e mai rifiutato – dei memoriali composti al rientro dai campi permette al disegno, alla trama della storia personale, o ‘storia di vita’ (utilizzando

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Francesco De Nicola, ‘Introduzione’, in Liana Millu, Ibid., p. 18. Il corsivo è nostro.

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Per meglio dire, la ‘sovrapposizione tra verità e finzione, o meglio lo svelamento della verità come finzione.’ Franco D’Intino, L’autobiografia moderna. Storia,

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l’espressione degli storici orali) di riemergere nella sua unicità in un testo il cui impianto non si presenta più soltanto in quanto memoriale. Questo ha già subìto trasformazioni tali che la sua inserzione deve avvenire in un altro genere di scrittura meno limitativa nel suo codice. Resta da fare un’altra considerazione: mentre le testimonianze e le storie di vita vengono spesso sollecitate da domande poste da altri, ed in generale avvengono in un momento cronologico che fissiamo a metà fra la produzione memorialistica trattata nel capitolo precedente e quella più vicina ai giorni nostri, il testo finzionale risponde alle necessità autoriali di una investigazione voluta del proprio vissuto, quindi spontanea e non richiesta. Questa scelta di genere di scrittura, una produzione ibrida che talvolta fatica a rientrare persino nella definizione di romanzo o di racconto, fa fede adesso ad una maggiore consapevolezza e comprensione dell’io autoriale, coinvolto di nuovo nel suo stesso passato, pubblico e privato, questo foss’anche solo per evitare il rischio di manipolazione per il soggetto ricordante-scrivente, per evitare le scosse offensive di quelle correnti negazioniste e riduttive del cosiddetto revisionismo storico. La lettura della propria esistenza à rebours trova spazio per rimemorazioni quindi anche precedenti al campo e non soltanto ad esso coincidenti.

I ‘mirabili strumenti [...] specifici del genere umano, il linguaggio ed il pensiero concettuale’ che secondo Levi servono a semplificare le cose, ‘a ridurre il conoscibile a schema’7 svelano la loro utilità nella prassi analitica legata all’entità dell’evento a cui si è partecipato contro la propria volontà. Contro la drammatica filigrana della Shoah, le cose, i fatti vissuti, trovano poi molteplici modi espressivi scavando nei diversi generi. Se la novella nasconde sempre al fondo il proprio intento geneticamente stabilito, quello di una certa didattica, dell’exemplum da fornire a chi la sta leggendo, il romanzo si fa partecipe per sua stessa genesi delle emozioni dei personaggi, empatizza con loro ed evidenzia per i lettori l’inimmaginabilità della situazione dell’orrore quotidiano senza dare lezioni né proporre soluzioni o morali, secondo il compito che si prepone invece il genere della novella.8 La scrittura, qualunque sia il suo esito generico, manifesta comunque quello che la voce cessa di voler dire, manifesta quello che si cela dietro l’afasia. Al tempo stesso, per poter partecipare del racconto dell’autore, il testo letterario deve poter beneficiare della conoscenza dei fatti dell’autore il quale si fa storico di se stesso come del proprio viaggio di conoscenza. Il racconto si fonda quindi inevitabilmente sulla prospettiva storica di chi va raccontando questi fatti.

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Primo Levi, I sommersi e i salvati (1997), p. 674.

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Diversa dal racconto, la novella per sua stessa tradizione rivela spesso e volentieri il substrato moraleggiante del racconto che sta proponendo.

Anzi, quel linguaggio e quel pensiero concettuale diventano ancora più necessari per ‘orientarci e decidere le nostre azioni’9 future proprio nell’iter obbligato della scrittura, cioè negli intenti consapevoli o meno di chi autorizza il testo, e grazie alla quale si pongono in prospettiva gli eventi più importanti del passato della propria esistenza precedente alla Shoah. Dalla memoria immediata dell’evento emerge, infatti – per taluni – anche il desiderio di compiere un proprio viaggio personale in termini etici ed estetici dell’evento. L’impatto di quest’ultimo non va misurato soltanto rispetto all’immediatezza delle conseguenze, ma anche rispetto a cosa costituiva l’esistenza dell’autore prima e dopo tale evento. Lo scrivere finzionale dell’Olocausto comporta una trasgressione anche rispetto al ruolo canonico dell’autore, a cui generalmente sono concesse creazioni del tutto personali rispetto ai fatti. Per Lawrence Langer, quindi, quando si parla della Holocaust fiction ‘si tende a chiudere e limitare la finzione, rinchiudendo il lettore entro un’area ancora più limitata di associazione dove la storia e l’arte stanno a guardia dei rispettivi territori, consapevoli degli abusi che possono compiere reciprocamente.’10 Il tragitto compiuto dai testi delle superstiti non segue un percorso lineare, questo quasi a testimoniare la consapevolezza delle difficoltà espressive di testi generati da un evento traumatico realmente accaduto agli autori, i cui toni non sono a volte lontani dal surreale come dall’onirico. Mentre la letteratura tende a universalizzare l’esperienza umana, la letteratura che loro possono offrire e comporre sulla Shoah insiste invece proprio sulla singolarità degli eventi che si cerca di raccontare. L’autrice è una testimone, e la duplicità del suo ruolo, in quanto artista ed in quanto testimone assolve di necessità sia all’atto creativo che a quello di restituzione di un evento realmente accaduto. La finzione dev’essere fattuale, a tutti i costi.

Una forte distanza temporale consentiva invece il processo di decantazione di quei ricordi, di quella testimonianza di cui Millu era stata così generosa sin dal suo rientro nel 1945. Come spesso accade in presenza di un evento storico a cui ha partecipato il protagonista ed io narrante, il romanzo scandisce il proprio tempo fra l’anamnesi e la cronaca dettagliata del presente. Del resto, non potrebbe essere altrimenti. In mezzo esiste la profonda ruga, la spaccatura creata dal fatto, in cui si inseriscono frammenti di vita offerti ai lettori con grande amarezza e impassibilità. Nel racconto finzionale del rientro dei superstiti verso la vita civile ritorna puntuale il paragone con il tempo precedente alla partenza, ed in cui il presente non

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Primo Levi, I sommersi e i salvati (1997), p. 674.

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Lawrence Langer, ‘Fictional Facts and Factual Fictions: History in Holocaust Literature’, in Reflections of the Holocaust in Art and Literature, ed. by Randolph L. Braham (New York: Columbia UP, 1990), pp. 118-19.

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riesce a ricucirsi al passato per via di quello ‘strappo’ culturale ed esistenziale che ormai si è creato. L’isolamento è totale anche dopo il campo: ‘Ero sola e andavo al ponte di Schwerin perché italiana. Che venissi da un lager, mi sembrava chiaro.’11 Il senso del romanzo più potente di Millu può riassumersi in questa frase. Chi era questa donna che stava rientrando nel proprio paese? Cos’era rimasto di questa giovane insegnante elementare dalle ambizioni letterarie mentre compie il passo faticoso del ritorno alla vita civile dopo Auschwitz? Quella settimana attualmente impiegata a compiere la strada del rientro viene dilatata a dismisura nel tempo del racconto del romanzo come metafora di un tempo interiore che, per ognuno di noi, segna le ore in modo diverso da quello che altri intendono. Quella settimana nel romanzo si espande sino a diventare quasi eterna. Eterna perché serve alla protagonista, Elmina, per esaminare a fronte alta l’ultimo ponte, quel metaforico ponte che bisogna attraversare fra la vita di Auschwitz e quella a venire. La vita a venire: un’esistenza senza sogni, senza famiglia come si è detto, senza alcuna speranza, abbandonata già nel lager, e la donna, questo, lo sa bene. È in questo senso allora che Millu costruisce, secondo i criteri di Philippe Lejeune, un romanzo di stampo autobiografico ed affida alla protagonista Elmina il compito di ripercorrere un passato che credeva ormai sepolto e che, invece, rivisita le esperienze più traumatiche registrate dall’autrice.

Il viaggio in cui seguiamo Elmina dura uno spazio eterno: dal suo viaggio da Malchow, ultimo campo di prigionia, sino a Schwerin, zona in cui poteva consegnarsi agli alleati che avrebbero provveduto allo smistamento dei displaced. Schwerin è un luogo che non dispone neppure di uno dei due ponti indicati nel titolo. Dopo la fisicità estrema esperita nel lager, qui non esiste nulla di fisico da oltrepassare, da scavalcare: il confine fra la vita nel lager e quella civile è solo psicologico. Due sono gli spazi intercettati dal viaggio di Elmina: il suo diventa quindi un duplice viaggio, quello verso il ponte di Schwerin, il primo ponte-che-non-c’è ed un altro ben più doloroso, che si alterna in capitoli al primo. Dolori di un tempo vicino si alternano ad analessi sofferte e pure necessarie. Si scava a fondo e a ritroso nel tempo dell’esistenza. Elmina cerca un punto d’arrivo che sia marcato fisicamente, un ponte. Il ponte è per sua stessa natura un elemento di collegamento, di sostegno, di controllo di elementi, di perizia ed intelligenza umana che devono bilanciare le forze della natura. Il ponte è un punto d’arrivo a cui però non si può giungere salvo tramite la riabilitazione da se stessi e dal proprio passato. Soltanto in questo modo Elmina, dotata come dice il nome stesso di un elmo da guerriera, giovane

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Atena indomita e pronta alla lotta per la propria sopravvivenza, può guardare al secondo ponte verso il proprio destino dal rientro in Italia in poi. Un ponte che sarà, infatti, essenzialmente di natura psicologica: riabituarsi alla lotta quotidiana dopo aver vissuto in un luogo, il campo, dove la lotta era necessaria e così era decretato da tutti gli oggetti che occupavano quel campo, persino dagli oggetti umani.

Il romanzo si struttura quindi in due parti generali, l’adesso e l’allora, tempi contrapposti in un ritmo rapsodico, tempi che, come in un cross-

cutting cinematografico alternano il racconto fra il presente, nei capitoli in

cui Elmina descrive quello che rappresenta per lei il momento del ritorno dal campo, ed il passato, nei capitoli che tracciano sin dalla nascita della protagonista momenti traumatici anteriori al campo che la scrittura contrappone a quelli convenzionalmente legati alla testimonianza. Per capire l’insolubile mistero del proprio io si deve imparare a costruire su quei mattoni, pesanti come il piombo, sviluppare quello che Millu definisce ‘il complesso della carriola’: quella ‘reazione orgogliosa, cioè, alla violenza maligna che voleva vederci implorare grazie piangendo.’12 Con orgoglio e fierezza si devono collegare sofferti momenti del passato a quell’esperienza recentissima che adesso la nascita stessa del romanzo esige da noi perché la filiazione acquisti un valore. Certo, ‘per camminare regolarmente nella vita è necessaria la zavorra di un certo buon senso. Ma quando manca sembra di poter volare, anzi, si vola addirittura.’13 La mancanza di buon senso consente ad Elmina di riconoscere oggi il peso della propria impavida giovinezza senza per questo farsene una colpa. Anzi. Un sentiero di conoscenza collega i due momenti per chi scrive ed i suoi lettori. Anche per Millu, come già per Bruk, l’esperienza di Auschwitz diventa una ‘infinita gravidanza’, ma ad essa non si accompagnano le forme caratteristiche del dolore psicosomatizzato. Accenti di puro stoicismo scandiscono la rete di racconti, di concordanze esperienziali di cui parla Elmina in prima persona oppure la sua narratrice onnisciente in un originale sguardo prospettico nei confronti della donna vittima di tali eventi. Lo sdoppiamento ha quindi luogo su vari livelli, non ultimo quello della voce narrativa che ci consente di apprezzare il tentativo autoriale di porre un margine, una filiera di motivi fra sé e la propria protagonista, evitando, come già aveva fatto per i racconti del Fumo in cui l’autrice Millu non coincide con la protagonista delle narrazioni, l’io troppo ovvio e ripetuto degli scritti memoriali. Dopo un mondo disumanizzato dal Lager che stabilisce quell’aporia etica per cui

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Liana Millu, ‘All’ombra dei crematori’, in Monaco, L. (ed.), La deportazione

femminile nei lager nazisti (Milano: F. Angeli, 1995), p. 130.

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Auschwitz diviene ‘il luogo in cui non è decente restare decenti, in cui coloro che hanno creduto di conservare dignità e rispetto di sé provano vergogna rispetto a coloro che li hanno subito perduti,’14 nasce in Elmina la speranza di un’empatia che si manifesti dopo il lager, se non come vittima, almeno riguardo al proprio essere donna-individuo in questo mondo. È alla ‘mancanza del buon senso,’ da intendersi come senso comune e passiva obbedienza a schemi e precetti di vita, che Elmina deve la sua emancipazione prima del lager, che deve quel cammino irregolare che ne caratterizza l’esistenza, questo prima e dopo il lager.

L’esperienza educativa del lager, un posto che nonostante se stessa continua ad angosciarla nella vita civile, catalizza anche quello che più importa nel presente del ritorno: capire la propria identità e conquistarsi libertà ed indipendenza qualunque sia il prezzo. Per Elmina tale operazione può avere luogo soltanto guardando attraverso la lente del lager a ritroso nella propria vita. Tornare a casa per molti reduci significava il ritorno alla vita evitando ricordi che, persino in famiglia, non volevano essere ascoltati. Per Liana Millu, una donna sola nel dopoguerra italiano, l’atto di tornare a Genova pone la questione ‘Dove, e a che cosa sto ritornando?’. Il suo personaggio, Elmina, ritorna anche lei ad un non- luogo: senza affetti, senza una casa, senza lavoro, e l’incertezza rispetto all’onestà futura del proprio paese, un paese che accusa soltanto nel suo diario postumo Tagebuch. Persino la violenza sessuale viene letta in una luce diversa da quella che emerge da altri scritti di donne. Nella mappa disegnata nel suo romanzo, Millu conferma come per le donne sia sempre la guerra, prima e dopo il lager. Come donna e come ebrea appartenente ad un paese come l’Italia che, in quella specifica congiuntura storica, non poteva vantare alcun atto morale in positivo se non mediante i racconti di generosità singola e della Resistenza, il destino di Elmina-Millu si annuncia complesso. Anziché assicurarle un rientro sereno, un paese come l’Italia sembra conferire davvero poco spazio a questa donna la cui identità non rientra entro nessun canone. La speranza, uscendo dal lager, di trovare un paese diverso, non sembra realizzarsi. L’abbandono delle regole, della pratica del senso comune, libera comunque l’artista dalle convinzioni che avrebbero impedito il suo cammino verso la libertà, compresa quella di scrivere.

Il dovere di testimoniare rappresentato come ultimo ‘invivibile masochistico dovere’ rende evidente il paradosso eterno del testimone: dire, continuare a dire, per far sì che tutti sappiano. Zachòr – raccontare –

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Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone (Torino: Bollati Boringhieri, 1998), p. 55.

rappresenta un dovere. Come tale, raccontare non può e non deve essere un’azione dettata da altro se non da un senso etico della parola; da quel ‘temere per i vivi’ che la Signora Auschwitz sente quale reale urgenza del suo raccontare.15

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‘Chi è passato nel campo, tanto se è stato sommerso quanto se è sopravvissuto, ha sopportato tutto ciò che poteva sopportare – anche ciò che non avrebbe voluto o dovuto sopportare. Questo “soffrire all’estrema potenza,” questa esaustione del possibile, non ha però più “nulla di umano”. La potenza umana sconfina nell’inumano, l’uomo sopporta anche il non-uomo. Di qui il disagio del superstite, quel “disagio incessante...che non ha nome” in cui Levi riconosce l’angoscia atavica della Genesi, “l’angoscia iscritta in ognuno del tòhu vavòhu... da cui lo spirito è assente.” ’ Ibid., p. 71.