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L A TREGUA NON ESISTE PER LE DONNE : I PONTI DI S CHWERIN DI L IANA M ILLU

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TEFANIA

L

UCAMANTE

Lo strumento della letteratura storicizza la Shoah e consente la sua permanenza nella memoria collettiva quale fatto storico ed inalienabile per arginare il pericolo del relativismo negazionista, per eliminare l’ingombrante aura di indicibilità o di male assoluto che ingombra improduttivamente il lavoro delle generazioni successive. Rimane allora opinabile che questa tragedia – così com’è vero per altri eventi legati alla storia – costituisca uno spazio fruibile dall’espressione artistica a cui, beninteso, è importante restituire quella libertà espressiva che da sempre le compete. È importante che sia così, pena il trattamento dello sterminio nazista solo da un punto di vista strettamente storiografico e documentaristico, strumenti entrambi preziosi ma non per questo esenti da ulteriori interpretazioni. L’esperienza subìta dalle sopravvissute dei lager, le quali hanno scelto di raccontare contribuendo al genere letterario che Primo Levi definisce ‘il racconto del reduce’, può produrre dopo un processo di sedimentazione degli eventi ricordati da quel particolare processo anamnestico, per cui la memoria erige monumenti ai fatti più eclatanti della propria esistenza, una vera e propria rielaborazione dell’evento stesso. Si fa carico di raccontare una storia, cioè, e non più una cronaca degli eventi. Il racconto del reduce può consentire un innalzamento del fatto vissuto a valori che superano la soglia del dettagliato ricordo e trasformarsi in testo letterario. In virtù dell’esperienza vissuta nel campo in prima, oppure anche per interposta persona, la reduce può scegliere di porre la Shoah quale imprescindibile sfondo di una finzione che, in taluni casi, può essere considerata letteraria e rimanere comunque documento storico. Indichiamo qui una sorta di passaggio intermedio fra gli scritti più propriamente testimoniali e quelli che si avviano verso la strada della letteratura, testi in cui lo sfondo determina lo studio psicologico dei personaggi: veri e propri ponti generici – spesso scritture di frontiera – che influenzano e legittimano una letteratura futura improntata sulle stesse tematiche. Quando alcune

sopravvissute decidono di parlare, la loro testimonianza diverrà occasione letteraria di tutta una vita.

Questo il caso di Liana Millu, la cui scrittura è volta ad una coincidenza fra forma e contenuto, ad un’armonia fra tema del racconto e impegno estetico, non più limitata quindi ad una quantunque molto importante trasmissione di fatti, dove il ricordo è volontariamente trasfigurato nella visione narrativa romanzesca. La memoria, quella ‘memoria fallace’ dal cui impiego pareva diffidarci Primo Levi se vòlto ai fini di una veridica ed esatta testimonianza da un punto di vista storico, diventa, invece, anche un potentissimo e convincente strumento per creazioni letterarie che sostengano in ogni modo la necessità del ricordo per motivi civili, etici e morali. Uno strumento utile, la memoria, non soltanto e non sempre per un senso d’esattezza storica, elemento che raramente si giustappone e combacia esattamente con i dati mnemonici,1 ma perché è insito nel processo comunicativo il desiderio di coinvolgere altri ed altre coscienze con il ricordo tramandato dalla parola come pure con la seduzione dell’eloquenza. Tale processo non può aver luogo soltanto mediante la narrazione di fatti inalienabili che pretendono un’oggettività comunque sempre relativa e perciò pericolosa2 persino nel discorso storiografico. La relatività della rappresentazione è una funzione della lingua usata per descrivere e, quindi, ricostituire – nella loro ricezione – l’essenza di frammenti strappati ad eventi passati come possibili oggetti di spiegazione e comprensione. Tale funzione risulta evidente quando si usa un linguaggio tecnico, mentre non lo è altrettanto in narrazioni di fenomeni storici convenzionalmente intese come tali.

La letteratura del ritorno corrisponde ad un altro dei generi formatisi intorno alla Shoah. Essa trova, nei testi di Liana Millu, notevoli spunti atti a comprendere quanto difficile fosse in realtà il procedimento di sedimentazione del ricordo. In particolare, il romanzo I ponti di Schwerin si propone quale esempio emblematico dell’incontro fra verità vissuta e decantazione: incontro che informa l’atto estetico delle scelte morali legate alla rappresentazione dell’evento vissuto che si collega invariabilmente, in

1

Rimando al testo di Annette Wieviorka, L’era del testimone (Milano: Raffaello Cortina Editore, 1999), per esempi di sviste comprensibili da parte dei testimoni che ledono comunque il discorso storiografico. Il testimone/superstite non viene nel nostro caso studiato quale elemento di verità inappellabili, bensì nel suo significato secondo le categorie di Agamben e nell’utilità dei suoi scritti.

2

Pericolo segnalato molto opportunamente da Hayden White nel suo saggio ‘Historical Emplotment and the Problem of Truth’, in Probing the Limits of

Representation, a cura di Saul Friedländer (Cambridge: Harvard University Press,

Stefania Lucamante 121

ogni parte dell’opera di Millu, andando aldilà di essa, all’esperienza del campo. In virtù dell’esperienza vissuta nel campo, la reduce può scegliere di porre la Shoah quale imprescindibile sfondo di una finzione che può considerarsi letteraria e durare al tempo stesso in quanto documento storico. Come Primo Levi, che articolò in La tregua gli undici mesi del rientro alla vita in Italia visto come una pausa, un’interruzione temporanea fra quello che era stato Auschwitz ed un mondo, quello della propria città, della propria esistenza, che ormai gli apparivano irrimediabilmente trasformati dagli eventi appena trascorsi, Millu affidò alla scrittura del romanzo I ponti di Schwerin, edito presso Lalli nel 1978 e finalista al Campiello di quell’anno, i ricordi della sua tregua. Esso rimane a tutt’oggi uno degli esempi più illuminanti di una scrittura che sa mediare il dato autobiografico con quello romanzesco. Da entrambi gli elementi emerge fortissima la convinzione leviana di una degradazione post-lager da cui risulta arduo liberarsi.3 A questa si aggiunge la componente più milliana di una solitudine devastante, di una donna fuori dai cardini di ogni sorta per quel tempo, per quell’Italia. In Elmina il ricordo più importante, il suo

peccato originale, quello di essere ‘giudea’, permane. ‘Mi avevano dato la

caccia e ingabbiata in lager affermando che non ero italiana. Inquinavo l’Italia con la mia presenza: questa era una colpa da punire con Birkenau e le sue agonie. E ora?’4 Quell’ora, che indica sia il tempo del rientro che un tempo mitico legato al senso di diversità di cui l’ebreo e l’ebrea sono stati sempre accusati, alimenta lo sfasamento acutissimo della protagonista di I

ponti di Schwerin. La tregua di quel viaggio verso Schwerin non è soltanto

una pausa dal dolore del campo, ma una tregua dal dolore della propria solitudine in tanta devastazione. Il campo è una parentesi ancora più desolante degli altri capitoli che compongono la vita di Elmina, ma la vita, come dice la lettera di Maimonide, resta un dovere.