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Le produzioni a denominazione di origine italiane ed i prodott

agroalimentari tradizionali

di Enrico De Ruvo1 – e.deruvo@ismea.it

1) Ismea

2) art.8, comma 1 D.L. 30/4/98 n. 173 3) comma 2 dell’art. 8 del D.L. 173/98

Non sembra esservi una connessione tra il proliferare dei prodotti tradizionali ed il successivo riconosci- mento come Dop e Igp. Alcuni sporadici esempi in questo senso si riscontrano soprattutto nel comparto ortofrutticolo. Intanto il numero delle Dop e Igp italiane ha raggiunto i 229 prodotti, ma soltanto poche di esse contribuiscono in modo consistente al giro d’affari del comparto.

  Fonte: Mipaaf Figura 1 - Evoluzione del numero dei prodotti agroalimentari tradizionali

37 Le regioni con il maggior numero di riconoscimenti

sono la Toscana con 462 prodotti, seguita dal Lazio con 374 e dal Veneto con 368.

 

Nonostante il numero così elevato, i prodotti agro- alimentari tradizionali non hanno avuto nel tempo un’deguata valorizzazione e soltanto pochi di essi sono poi divenuti Dop o Igp. Alcuni sporadici esempi in questo senso si riscontrano soprattutto nel com- parto ortofrutticolo con prodotti quali la Cipolla Ros- sa di Tropea, l’Aglio di Voghiera, l’Asparago Verde di Altedo, il Fagiolo Cannellino di Atina che sono a denominazione di origine.

In effetti non sembra esserci un collegamento tra i due tipi di riconoscimento, non essendo quello di prodotto agroalimentare tradizionale quasi mai “pro- pedeutico” ad una successiva iscrizione all’Albo eu- ropeo delle Dop e Igp.

Albo, anche quest’ultimo, in cui ad oggi cominciano ad essere iscritti , forse troppi, prodotti italiani. L’Ita- lia è uno dei paesi che ha da sempre sostenuto una politica di riconoscimento delle denominazioni ge- ografiche per i prodotti alimentari, sia per la grande tradizione presente nelle regioni sia per la presenza storica di denominazioni ben antecedenti alle prime norme comunitarie sull’argomento. Tuttavia, proprio l’avvio della politica comunitaria sulle denominazio- ni d’origine dell’inizio degli anni ’90, si può dire che abbia rappresentato il “giro di boa”, innescando un processo di proliferazione di nuovi riconoscimenti che hanno interessato tutti i paesi europeico.

In questo contesto l’Italia primeggia a livello comuni- tario sia in termini di denominazioni che di fatturati, ma pochi prodotti concorrono a comporre l’intero valore del comparto.

  Figura 2 - Distribuzione % del numero di prodotti tradizionali per regione nel 2011

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Tempo corrente

Questo dato può essere di stimolo per una riflessio- ne poiché è evidente che la gran parte dei prodot- ti realizzano fatturati estremamente limitati, spesso peraltro conseguiti a livello locale e per i quali può essere lecito chiedersi se ha avuto un senso intra- prendere il complesso ed oneroso iter di riconosci- mento comunitario.

A quasi venti anni dall’istituzione del Regolamento 2081/92, poi successivamente sostituito dal 509/06, sembra quindi che gli obiettivi iniziali dello stesso non siano stati del tutto rispettati, poiché la protezio- ne internazionale delle denominazioni si può di fatto

 

realizzare soltanto per poche denominazioni export- oriented e non per la stragrande maggioranza delle Dop e Igp. Paradossalmente quindi proprio il suc- cesso numerico ha evidenziato i limiti delle denomi- nazioni geografiche.

Ma nella valutazione del peso economico delle sin- gole denominazioni ed anche dei prodotti agroali- mentari tradizionali non si devono trascurare gli ef- fetti positivi che si possono avere sulle aree su cui insistono le produzioni. Esistono singoli riconosci- menti che generano fatturati relativamente piccoli che tuttavia si rivelano fondamentali per il manteni- mento del tessuto economico del contesto territoria- le dal quale provengono.

I prodotti cosiddetti “minori”, infatti, tramite la sola valorizzazione economica non sono in grado di re- alizzare fatturati importanti, dunque il potenziale successo di queste produzioni può essere connesso alla loro capacità di creare legami con altri prodotti della zona (in modo da creare distretti agroalimenta- ri di qualità di cui abbiamo molteplici esempi in Italia) e con altre attività a maggior valore aggiunto presen- ti sul territorio (sinergie con le attività agrituristiche, il turismo, l’artigianato). Questi collegamenti possono assumere una grande rilevanza, anche attraverso opportune politiche di marketing territoriale.

Italia Francia Spagna Portogallo Grecia Germania Regno Unito Rep. Ceca Polonia Altre nazioni 233 187 151 116 93 79 38 27 23 81 1028

Fonte: Elaborazione Ismea su dati Ue

Figura 3 - Distribuzione % del numero di DOP e IGP per nazione (aggiornamento al 15 novembre 2011)

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4) L’indagine è disponibile al seguente link: http://www.reterurale.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/5816

Il valore socio-culturale di questi prodotti non è quin- di minore di quello delle grandi produzioni tutelate. Nella maggior parte dei casi essi rappresentano la vitalità economica di zone rurali dove le condizioni ambientali costituiscono un vincolo alle attività pro- duttive tradizionali e alla loro modernizzazione e, contemporaneamente, una opportunità di sviluppo di attività connesse all’agricoltura.

Nell’ambito delle Dop e Igp sono comunque in cre- scita dal punto di vista quantitativo una serie di prodotti che nel tempo stanno significativamente aumentando la loro produzione e che hanno un no- tevole potenziale di crescita, uno su tutti l’Aceto Bal- samico di Modena.

Questa è una novità molto importante, che denota un più ampio numero di prodotti che concorre al fat- turato complessivo, anche se i consumi domestici, causa il prolungato periodo di crisi, non danno gran- di segnali di crescita.

I dati più recenti confermano invece che dal mercato estero arrivano maggiori soddisfazioni ed è da lì che, probabilmente, sarà opportuno ripartire per garanti- re adeguato fatturato agli operatori delle filiere che intraprendono l’oneroso percorso della certificazio- ne.

Tuttavia una recente indagine Ismea4 delinea un pro- filo del consumatore estero piuttosto disinformato, esposto al rischio di scelte dettate dall’emotività più che da valutazioni razionali e quindi un facile terri- torio di conquista per chiunque intendesse sfruttare indebitamente la reputazione del made in Italy ali- mentare.

Le imprese quindi dovrebbero porre in essere azioni volte ad aumentare la consapevolezza nei consuma- tori stranieri e a colmare, almeno in parte, le asim- metrie informative si dovrebbero inoltre creare nuove sedi di confronto e collaborazione con i distributori esteri, incontrare opinion leader, migliorare la cono- scenza dei prodotti e realizzare iniziative collaterali. Non è certo semplice stabilire per le Dop e Igp delle politiche univoche in quanto il sistema racchiude re- altà e prodotti che differiscono in maniera sostanzia- le, rendendo problematico adottare misure uniformi. Gli operatori del settore, dal canto loro, partono da asset che in termini di competitività sono certamente rilevanti (varietà delle produzioni, connotazione terri- toriale, qualità oggettiva, ricchezza di valori immate- riali) ma che se non sviluppati opportunamente non sono sufficienti.

In questo senso, serve un passo in avanti da parte delle imprese ad investire in organizzazione e sulle variabili chiave del marketing (innovazione, distribu- zione, cliente, brand, ecc).

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Il formaggio Montasio ha sempre rappresentato un prodotto di eccellenza del territorio ma l’anno di svolta, come per altri prodotti DOP/IGP e per i loro Consorzi, l’anno di svolta è stato il 1996, anno in cui al formaggio Montasio è stata riconosciuta la DOP (Denominazione di Origine Protetta). La certificazio- ne del prodotto è passata ad un Ente esterno e terzo (CSQA Certificazioni di Thiene) mentre il Consorzio oggi continua a svolgere l’attività di assistenza tec- nica e di vigilanza sulla produzione e commercia- lizzazione. Il passaggio dal Consorzio ad un ente certificatore esterno ha indotto un cambiamento di mentalità del Consorzio che ha dovuto imparare a “descrivere quello che si intende fare” e “fare quello che si è descritto”.

Quindi abbiamo dovuto riscrivere i “manuali” del Consorzio, mettere su carta la tradizione, l’ “abbia- mo sempre fatto così” dei nostri produttori; in questa rivoluzione culturale il Consorzio ha introdotto ele- menti “qualitativi” che avrebbero potuto essere pro- dromi di miglioramenti anche nel futuro. L’esempio più significativo è dato dal fatto che nel 2000 l’As- semblea dei Soci, a maggioranza, ha deliberato che per la produzione del formaggio Montasio bisognava utilizzare “latte conforme”, quello cioè con una cari- ca batterica totale inferiore a 100.000/ml. Il Montasio e’ un formaggio a latte non pastorizzato ma con una stagionatura superiore a 60 giorni e quindi per legge avrebbe potuto utilizzare qualsiasi latte, anche con cariche superiori. La scelta dell’Assemblea dei Soci si è orientata subito verso alti standard qualitativi ri- tenendo che la sfida da affrontare fosse quella della qualità intesa dal punto di vista organolettico ma an- che igienico sanitario.

Formaggio Montasio, un bilancio del